Tra Stress e Salvazione | Intervista ad Aaron Rumore

Qualche giorno fa, in occasione della pubblicazione di Stress, singolo estratto dall’album Gloria, che, invece, uscirà a settembre, ho fatto due chiacchiere col mitico artista napoletano, Aaron Rumore. In un’interessantissima conversazione abbiamo parlato dello stress dello stare al mondo di questi tempi e di tecnologia, del nuovo disco in uscita, Gloria, prodotto assieme a Coma, e del rapporto con trap e hyperpop. Prendetevi qualche minuto per leggere e digerire le fertilissime parole di Aaron, perché dietro ad ogni sillaba, come ad ogni riverbero, si cela un mondo vasto, complesso ed estremamente profondo.

 

 

Ciao Aaron, partiamo dal titolo: Stress. Che cosa ti stressa?

La tocchiamo piano…sicuramente questi due anni di stop sono stati stressanti. Pensa che la canzone è uscita dallo studio quando era il periodo delle prime notizie dall’Ucraina. E io personalmente ero in una fase un po’ così: tanto per dire “Valium che calma il mio mindset” era l’inno del periodo. Inoltre, anche lo stress psicologico derivato dalle ansie della situazione socioeconomica è da mettere sullo stesso piano.

-a proposito di stress: Aaron viene fermato dall’intrusione vocale dell’intelligenza artificiale del suo smartphone- Ricominciamo: che rapporto hai con la tecnologia? quanto ti stressa?

Ho un rapporto conflittule con la tecnologia, da una parte la vedo come una sorta di panem et circenses, nel senso che con la tecnologia ci lavoro, ma dall’altro in due anni sono riuscito a perdere venti iphone. E in più non condivido affatto il discorso tecnocratico, un po’ mi inquieta. Odio e amore verso la tecnologia, diciamo. Comunque sia, quello che faccio è influenzato moltissimo dalla cultura di internet o post-internet. Lo strumento tecnologico, ora nel 2022, è fondamentale. Per esempio, autotune mi permette di arrivare a delle sonorità che altrimenti non toccherei, mi permette di amplificare il mio raggio d’azione umano. Secondo me la cosa interessante è che permette l’ibridazione dei linguaggi, sia quelli culturali, sia quelli derivati dagli strumenti e dai codici che usi. In fondo dietro ad ogni tecnologia, dietro ad ogni artefatto, è sempre presente la componente antropica. Nel mio caso, per fortuna, credo che ciò che ci metto dentro sia molto personale.

Praticamente tu sei un umano che suona delle macchine: la domanda è quanto sei tu che ti inserisci nelle macchine, quanto sono le macchine che s’impossessano di te?

Sicuramente sono io a piegare la tecnologia al mio uso, però contestualmente la tecnologia mi mostra qualcosa che non avrei potuto comprendere senza quel determinato strumento. Ogni diverso strumento tecnologico richiede diversi modi di utilizzo e conduce a risultati diversi: ed è in questo vuoto che entro in gioco io che umanamente decido la direzione da prendere. Quindi, in realtà, sono vere entrambe le facce della medaglia. Ma per me la tecnologia è un’estensione della sfera cognitiva umana, è una sorta di cannocchiale di Copernico.

Nella tua musica si sente molto la componente umana. Mi sembra quasi una sorta di “ritorno all’umano”. Dopo la pandemia credo ci sia un ritorno all’intimo, non per forza a dire cose intime, ma rivolgersi alla dimensione umana, più diretta e viscerale. Come dire ci sono le macchine, sì, però siamo e rimaniamo umani con i nostri corpi fatti di carne e sangue.

Sono d’accordo. Una cosa che la pandemia ha lasciato è un bisogno di corporeità e di ritmica nella musica. Un ritorno al corpo, sì, come se la musica avesse preso uno spessore fisico maggiore. In generale, anche nel pop la musica si rivolge sempre di più al corpo, al movimento e alla danza. Questo penso che sia successo anche a me inconsciamente, specialmente con la musica in uscita, Stress e l’album Gloria.  La nuova musica mi sembra una controparte molto fisica di Palazzo di Ghiaccio, che credo fosse più impenetrabile, metafisico ed etereo, inafferrabile e lungo, criptico. Mentre nel caso di Gloria mi sembra che quell’annetto e mezzo di stop abbia influito anche a livello inconscio. Volente o nolente le mie ultime produzioni hanno tutte preso questa direzione.

Parliamo di Gloria. Quella componente eterea, glaciale, rimane coi suoi riverberi metafisici, però con quelle casse la cattedrale la tiri giù.

Sì, infatti. Ci sono state due fasi nella produzione, da ottobre a gennaio avevo raccolto produzioni per fare un disco post trance, in particolare di quel periodo sono le tracce Gloria, SN IO! e Adrenalina, dopo gennaio, assieme a Coma, abbiamo fatto il resto del disco che ha preso quella piega. Pensavamo di fare un pop etereo, diciamo, più dritto, meno trap e meno trance, molto ritmico. E questo è stato un po’ spontaneo, se guardi al mio percorso musicale quell’elemento algido c’è sempre, però  col disco volevamo dare qualcosa di più a livello ritmico. Ecco, se Palazzo di Ghiaccio è la metafisica di Aristotele, Gloria è la Fisica.

Quindi i due album sono da leggere come una diadi? Una parte più riflessiva, e una parte più fisica?

Io vedo l’elemento ritmico, legato al corpo, come una pratica di esorcismo di quelle che possono essere le asperità. Gloria è più personale, rispetto a Palazzo di Ghiaccio: i testi sono più descrittivi, hanno contenuti più biografici, e anche per questo è meno metafisico. Quindi non direi che i due album debbano essere letti insieme. Certo, c’è un filo conduttore che è la tematica della gloria, l’elemento di salvezza messianico alla fine del tunnel. Ma in generale questo fa parte del mio linguaggio complessivo, probabilmente in futuro sarà ancora un punto di riferimento. Però la lettura degli sprazzi di luce e di buio è interessante. Per quanto possa esserci un’aria festosa, ritmata e con la cassa dritta, nei testi rimane sempre una nota più ombratile, più emo. Ad esempio, in SN IO!, che è molto autobiografico e diretto come pezzo, il ritornello dice “questo alprazolam non mi alzerà”.

Infatti, la tua musica, specialmente l’elemento vocale, sembra che arrivi filtrato da un sonnifero o un antidepressivo. Questo suono ovattato e distorto che viene da un al di là non specificato

Sì, credo che questa sia la mia cifra, infatti considero quello che faccio ancora ambient, per quanto pop. Mi è sembra piaciuto questo elemento morfinico, di ottundimento, e penso che per questo disco fosse fondamentale.

A proposito di musica ambient: ormai molte proposte nuove in Italia hanno una forte componente di ambient. Unendo il discorso della luce alla fine del tunnel, e quello della corporeità e dell’esorcismo, mi viene da pensare che l’ambient music sia oggi, non tanto la risposta, quanto più il modo in cui abbiamo vissuto e viviamo la stasi degli ultimi anni, l’espressione musicale di un modo di stare e sentire. Come se sopra alle più recenti produzioni, così come sopra alle nostre vite, aleggiasse una sorta di cappa un po’ distorta.

Sono d’accordo. Dal punto di vista del mercato l’ambient negli ultimi anni ha avuto un risorgimento. Vuoi perché l’ascoltatore si è trovato più spesso nelle condizioni di ascoltare e fruire di musica ambient, vuoi perché le condizioni hanno portato ogni musica a diventare d’ambiente, un flusso continuo e di fondo. Io considero la mia musica ambient, ed è la voce, per come la uso e per come la effetto, a creare l’ambiente. La voce per me è fondamentale per costruire quell’annebbiamento onirico e riverberato, un po’ metafisico.

Cambiando leggermente argomento. Se da una parte sta questa coltre di riverberi, questo ambiente onirico e un po’ ottuso, dall’altra sta la trap con la sua fisicità e la sua patina lucente?

Io penso che la trap sia un modo per riconnettermi al centro di materialità. Tutto il resto è onirico o è avvolto nella sfera del pensiero, intangibile, per cui la trap mi dà quell’elemento diretto che mi riporta per terra. Quando dico che gioco con gli elementi della trap, magari, è perché importo alcune forme linguistiche da lì. Ora, nel 2022, ho fatto completamente pace con l’aver fatto trap per tanti anni, ed essendoci sceso a patti, mi piace considerare la trap come uno dei tanti colori che ho a disposizione nella tavolozza.

Continuando con la metafora pittorica: usi tutti i colori a tua disposizione, ogni tono, ma anche ogni biacca, è usato sapientemente, con coscienza. Il tuo lavoro, il tuo linguaggio, crea un mondo artificiale, ma non del tutto, in cui ogni elemento è motivato e trova il suo posto in accordo con gli altri. Come se fossero tanti tasselli di materie diverse a costituire un unico mosaico armonico.

Grazie. Io tengo molto a questa componente. Avendo fatto un lungo e variegatissimo percorso, ora, che siano consce o inconsce, ho moltissime influenze che riesco a raccogliere e a inserire nei miei lavori in modo organico. A me piace utilizzare un po’ tutti i linguaggi che conosco, magari non sono sempre presenti o riconoscibili, ma sono presenti nella struttura: per esempio, dal mio punto di vista Palazzo di Ghiaccio nasce come produzione shoegaze con quell’enorme wall of sound…

E’ evidente che sia qualcosa che hai attraversato direttamente in prima persona: dal lavoro si capisce che hai “digerito” il percorso che hai fatto, che hai fatto i conti col passato.  Ogni elemento lo risemantizzi per inserirlo nel tuo discorso.

Esatto, vari elementi vanno a creare un mondo sonoro che è mio. Anche il nome Gloria, lo avevo già utilizzato per un pezzo uscito durante il lockdown. Sia a livello narrativo che estetico c’è una continuità di temi e di forme di cui sono cosciente.

Ti faccio un’ultima domanda: che cosa ti aspetti dall’uscita di Gloria?

L’idea, e la speranza, è che questo disco, essendo meno abbottonato, non tanto parli a più persone, ma che parli di più alle persone. Anche per questo voglio portarlo in giro e ballare. Lo presenteremo a Ecosistemi Festival questo settembre e penso che per la fisicità dei pezzi la ricezione dal vivo sia molto buona. Spero che quando uscirà il disco, avendo negli anni e coi lavori costruito il mio mondo, il linguaggio sia chiaro per chiunque vi acceda. Mi piace pensare che questa volta ci sia del comunicativo invece che dell’ermetico.

 

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