Conversazione con Emidio Clementi

Foto: Annalisa Casalino

Mimì Clementi ha l’aspetto di un ultimo dio, sorride come un Cristo ubriaco che non vuole insegnarti nient’altro che il miracolo di trasformare l’acqua in un cicchetto di rum scuro, una gentilezza atroce che ti arriva diretta, non te l’aspetteresti da quest’uomo sofferto e ombroso. È seduto accanto a Vittoria, la batterista storica dei Massimo Volume, la mentore oscura, ha una penna in mano e non vede l’ora di parlare di poesia. Ad un giornalista poser che chiede se Cattive Abitudini abbia bisogno di attenzione e se il mondo è pronto per averne, risponde pacato che “il mondo va bene così com’è“, ed è l’unico che abbia veramente le palle di dirlo. Tutti vogliono cambiare il mondo, tutti vogliono disperatamente disturbarlo, Mimì dice che va bene così, che i Massimo Volume hanno lo spazio giusto, che un mondo in cui le radio passano solo loro farebbe schifo “come una dittatura sovietica degli anni ‘70“. Mimì vuole restare per pochi, è un intimista. “I brani del nuovo disco hanno lettura stratificata, puoi ascoltarli con meno attenzione e ti piacciono lo stesso, o puoi scoprire una nuova profondità, un nuovo strato“.

È vero, oggi c’è più musica, siamo affogati nella musica. Ai tempi di Mimì era tutta una scoperta da autodidatta, si andava in centro, in un negozio di dischi per caso, e si tirava fuori un Johnny Thunders dalla polvere, “oggi è più facile” – dice, anche il pubblico è cambiato, “preferisco questo, ci sono i giovani, sono più attenti, sanno le parole“, forse ricorda i tempi in cui lo menavano, quando erano il gruppo che non cantava e decantava versi incomprensibili. Sono 10 anni che sono fuori dalle scene, il tempo cambia molte cose, “ho una figlia di 3 mesi ora e devo badare anche a lei“, e te lo immagini Mimì che racconta storie alla figlia, la fa addormentare e poi ti tira fuori al basso quel suono che è il lamento del tempo. “Quando ero giovane io erano gli anni ’80 e non potevi ascoltare quello che veniva dai ’70, cioè tipo Pink Floyd, Genesis“, quando era giovane Mimì la provincia era un posto da cui scappare, i curiosi dovevano andare all’avventura del mondo, i poeti erano martiri solitari. Si porta appresso questa disperazione che prende questi matti disperati, come Emanuel Carnevali che vaga in America tentando di urlare parole al cabaret. Clementi decanta mentre suona, accompagnato, e tra la poesia e la musica non sa scegliere, “a me piace troppo stare nel mezzo, non riuscirei a scegliere. In questo momento c’è solo la musica, e ora c’è la promozione, in più con una figlia piccola è un gran casino scrivere per me. Mi sento in colpa per questo, perché la scrittura va consumata quotidianamente e in questo periodo non lo sto facendo“.

Se chiedi a Mimì se è interessato a pubblicare un’antologia poetica ti fa capire che è un suo sogno, “mi piacerebbe scriverla, ma in Italia è già difficile pubblicare un romanzo… Magari con un piccolo editore” – magari finirà in una raccolta postuma riscoperta nel 2100. “Tra i poeti che amo ci sono Lowell, Eliot, e Montale. C’è anzi una poesia di Montale che ha ispirato il mio testo Mi piacerebbe ogni tanto averti qui che è dedicata a mio padre. Quella lì, la conosci… ‘abbiamo salito un milione di scale’… Poi Montale è molto semplice… Oggi compri un suo libro e trovi 30 pagine di poesia e una montagna di note e critiche, a che servono? Lui è così diretto, semplice, si afferra subito“.

Nei versi ci sono le sue tracce, i suoi personaggi, i suoi ricordi. Le nostre ore contate, per esempio, racconta il legame che lo lega a Manuel Agnelli degli Afterhours anche attraverso il tempo, “io e Manuel siamo fratelli. Dopo il viaggio in India però qualcosa si è rotto, abbiamo entrambi pensato che la nostra amicizia fosse finita, poi è rinata sotto un’altra forma, siamo diventati l’uno ispiratore per l’altro. Eh sì, ormai Manuel fa parte del mio immaginario!“.

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