Abbiamo incontrato Max Collini, voce e testi negli Offlaga Disco Pax, in occasione di un concerto all’Ostello di Reggio Emilia del nuovo progetto Spartiti, realizzato insieme a Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò. Un’occasione per farci spiegare da dove nasce e in che direzione procede, fra la politica e gli anni ottanta, prima di assistere al loro concerto e immergerci nel fiume di parole e di emozioni che ci avrebbe travolto. Spartiti è un’altra dimensione, non è reading non è concerto. Il movimento è più intellettuale che fisico e l’atmosfera che si crea sa di biblioteca all’aperto o della soddisfazione di quando chiudi un libro che ti ha rapito.
Partiamo dall’inizio. Il progetto Spartiti, in realtà, parte da molto lontano. La collaborazione con Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò risale già dai primi dischi degli Offlaga, in prima persona con Bachelite del 2008, si può definire come il convergere di due strade parallele, fra amicizia e musica, che finalmente confluiscono in una soltanto?
Esattamente, sì. Con una calma olimpica e con incontri magari anche avvenuti solo una volta all’anno. Ci sono stati anni che non ci siamo mai visti sul palco e non abbiamo fatto niente insieme, però, in qualche modo, l’abbiamo sempre sviluppato. A un certo punto ci siamo resi conto che quelle cose che facevamo, inizialmente improvvisando, potevano davvero stare in piedi da sole. Che stessero in piedi certo non lo potevamo decidere solo noi, ma abbiamo cominciato a capirlo attraverso la reazione del pubblico. Qualche mese fa abbiamo iniziato a uscire e ad andare in giro per proporre lo spettacolo in modo continuativo, confrontandoci quindi con chi veniva ad ascoltarci, spesso davanti a un pubblico pagante e se la cosa non avesse retto lo avremmo capito immediatamente. I riscontri che abbiamo avuto, invece, sono stati molto positivi. Certo, non è uno spettacolo da grandi spazi, ma è inevitabile che sia così. Abbiamo portato Spartiti in qualsiasi situazione, dal teatro alla sala civica fino ai club. Abbiamo affrontato praticamente tutti i contesti in queste venti date iniziali e ne abbiamo sempre fissate altre e siamo riusciti a fare funzionare lo spettacolo in qualunque contesto, almeno fino ad oggi. Credo che andremo avanti ancora diversi mesi, se continua così.
Affrontare tutti i contesti e cercare di raggiungere differenti parti e generi di pubblico ha un carattere che, in qualche modo, risale alla vecchia scuola del partito comunista?
Secondo me più che la scuola del PCI è la scuola della musica indipendente in generale: poche pippe e adattarsi alla situazione, punto. Noi siamo in quella condizione in cui hai una proposta nuova, nulla ti è dovuto, ti metti in gioco, vai dovunque ritieni che questa cosa possa essere fatta e ti vai a conquistare il tuo spazio. Puoi trovarti un pubblico che può essere in parte quello vecchio e che ti apprezzava già, in parte soltanto curioso del progetto o che invece prima le cose che facevamo coi nostri rispettivi gruppi non gli interessavano più di tanto e che ora invece magari troverà diverso questo percorso. Non c’è un obiettivo da conquistare, noi andiamo dove possiamo sui palchi dove ci prendono, perché non è che decidi sempre tu dove vuoi andare, perché non è detto che dove vogliamo suonare ci prendano, per dire. Abbiamo portato Spartiti in qualunque contesto, ad esempio in una serra ad Alessandria, vicino a un ristorante sociale, una situazione un po’ particolare ritagliata in città. Un posto incredibile, quella sera pioveva e sentivi il rumore dell’acqua sul soffitto di vetro. Un ambiente fantastico, serata magnifica. È bello fare questa cosa anche per poterla portare in luoghi di cui non sospettavamo nemmeno l’esistenza
Spartiti è un progetto particolare. Sono narrazioni e musica insieme, c’è un tentativo di mettere una pezza a quel cosiddetto vuoto culturale di una generazione che sembra non leggere più o che, addirittura, sembra non avere più i nonni di una volta che raccontavano le storie ai propri nipoti?
In tutta la mia piccola carriera artistica, diciamo così, non ho mai avuto neanche per un minuto delle pretese pedagogiche. In realtà non credo neanche che sia il mio approccio, con gli Offlaga e in tutte le cose che ho fatto in questi anni da quando ho iniziato ad andare sui palchi, cioè più di dieci anni fa. L’intento pedagogico non ce l’ho mai avuto, non è commisurato a me stesso. Per cui in realtà a me piace, semplicemente, fare questa cosa qua, quella che facevano i nostri nonni, cioè mi piace raccontare le storie, mi piace raccontare storie che mi riguardano ma anche raccontare storie che mi colpiscono, storie che in qualche modo credo di poter trasmettere agli altri perché secondo me conta anche un po’ il filtro, il mezzo con cui ti arrivano. Ti faccio un esempio banale: una sera a cena, tanti anni fa, un mio amico che si occupa di storia mi raccontò con una passione infinita l’epopea bizantina di Basilio II. Detta così è una cosa noiosissima, ma raccontata da Nicola Cassone, che è uno storico di Reggio Emilia, con la sua passione e il suo modo mi sono talmente incuriosito che il giorno dopo mi sono andato a comprare un manuale di storia bizantina di Ostrogorsky. Difficilissimo eh, però mi ha appassionato tantissimo perché lui mi ha trasmesso delle cose. Ma non è che lo ha fatto apposta, lui c’è riuscito perché è la sua natura farlo. A me piace raccontare e in questo progetto che ho con Jukka Reverberi ho scelto di raccontare storie, non solo storie mie, che in qualche modo chi ha seguito gli Offlaga è abituato ad ascoltare, ma anche storie scritte da altri che mi hanno colpito molto. Tento di trasmettere tutta l’emotività che hanno trasmesso a me a chi ascolta, questo è il mio intento. Noi non parliamo mai di reading in questo progetto perché la parola reading viene tradotta in italiano quasi sempre con la parola “noia” e quindi alla parola reading preferiamo la parola spettacolo. Nonostante il nostro spettacolo duri circa un’ora e mezza queste storie riescono quasi sempre a tenere l’attenzione. Anche perché non è uno spettacolo che ha la pretesa di essere elitario ma che invece vorrebbe essere fruibile da tutti, per quanto possibile. Spettacolo, appunto, più empatico ed emozionale che pedagogico.
L’ascolto, in questo caso, diventa fondamentale, rispetto ad altri concerti in cui la gente canta e si muove.
Noi cerchiamo sempre di mettere la gente seduta, lo chiediamo proprio, non sempre è possibile, però ci proviamo. Cerchiamo in tutti i modi l’ascolto, nel nostro modo di porci cerchiamo di favorirlo il più possibile e se ci riusciamo è un bel successo. Tenere la gente seduta per un’ora e mezza ad ascoltare qualcuno che legge mentre un altro suona non è proprio facilissimo, per cui credo conti molto come lo facciamo e con quali contenuti. Ci sono tanti registri nello spettacolo, da quello drammatico quello più divertente a seconda degli episodi e delle letture, con brani lunghi alternati a frammenti più brevi, che puntano tutto verso quel coinvolgimento emotivo. Se ci riusciamo lo spettacolo viene bene, se non ce la fai a conquistare l’emotività e l’empatia del pubblico lo spettacolo non funziona altrettanto bene, ovviamente.
Quindi c’è una richiesta di coinvolgimento attivo, più intellettuale che fisico, che avanzate al pubblico.
Il tentativo è di creare attenzione su quello che facciamo, dopo di che non è obbligatorio che uno stia attento. Certo, se lo metti seduto e gli dai un contesto per cui vale la pena ascoltare ci puoi riuscire. Ad esempio a teatro è difficile che uno non stia attento, ma in un club, con gente che urla e balla, fai fatica a restare concentrato. Il contesto fa l’attenzione, a volte.
Usciamo un attimo dalla musica e dalle narrazioni di Spartiti. Credi che l’attenzione, nella vita di tutti i giorni e, soprattutto, dei cittadini nei confronti della politica sia un po’ scomparsa?
Vengo da una vecchia scuola, che è quella del PCI, e all’inizio della mia esperienza politica, cioè nei primi anni ottanta, quella scuola diceva: “tu te ne puoi strafottere della politica, puoi stare, oggi, su Facebook tutto il giorno a parlare e a dire quello che ti passa per la testa, puoi dimenticartela, puoi ignorarla, puoi non votare, puoi fare il cazzo che ti pare, puoi odiarla, ma non ci sarà mai un secondo in tutta la tua vita che la politica non si occuperà di te” e quindi ognuno ne tragga le conseguenze che vuole. Mi pare che quell’insegnamento sia ancora attualissimo.
Stiamo assistendo negli ultimi tempi a due derive tra musica e giornalismo. Da una parte, quella della critica musicale, che spesso boccia per partito preso e critica senza motivo. Dall’altra gli artisti che appaiono sopportare sempre meno quello che viene scritto su di loro.
Sono le parole in libertà. Probabilmente prima gli artisti non avevano accesso a queste critiche perché semplicemente non le potevano leggere o sentire, mentre oggi apri il computer e vedi tutto senza alcun filtro, dalla monnezza alle critiche più paludate e importanti. Secondo me le critiche vanno accettate e, certo, fanno male. Più alto è il livello di chi ti critica più ti fa male. Se ti critica uno che non sai nemmeno chi sia puoi anche soprassedere e ignorarlo, ma se lo fa qualcuno che in qualche modo stimi o reputi degno è ovvio che ti colpisce. È cambiato anche il modo di fare del pubblico, che ora può approcciare direttamente l’artista, sia quello che gli piace che quello che non gli piace. Le parole in libertà come dicevo prima. Non so se gli artisti accettino o meno le critiche, in qualche modo se le devono prendere comunque, perché non le possono certo impedire né rimandare indietro, al massimo non saranno d’accordo. Io non lo so, dipende dalla persona, dal suo carattere e da quanto uno è permaloso o meno. Ci sono delle critiche che hanno ragione di esistere e critiche che sono fatte solo per partito preso senza una percezione esatta delle motivazioni, ma almeno sull’integrità, sulla motivazione e sull’intenzione l’artista resta sovrano, a meno che non sia motivato a produrre solo roba ipercommerciale svenduta sin dall’inizio. Poi qualunque giornalista potrà sempre dire quello che gli pare ma non potrà certo sostituirsi all’artista medesimo che, fino a prova contraria, nell’opera mette del suo. Il critico potrà demolirlo, potrà metterlo in discussione e potrà cercare di dimostrare che è in malafede o che non è onesto ma penso che alla fine il pubblico percepisca dove c’è la sincerità e dove non c’è. Nel nostro ambiente ce n’è molta secondo me, almeno c’è la volontà di fare quello che ti piace con onestà intellettuale. Per me il distinguo è: “Fai quello che ti piace? Fai quello in cui credi?” Se fai quello in cui credi perfetto, se poi non mi piace ascolterò altro, mentre potremo discutere all’infinito sulle intenzioni che hanno partorito l’opera. Ci sono troppe parole in libertà e troppa poca pertinenza della critica, se la critica è pertinente tocca sopportarla, pesarla, ragionarla. Anche chi la rifiuta, in realtà, poi ci ragiona sopra. Non esiste secondo me chi possa rifiutarla a priori. In realtà più un artista reagisce incazzato più su quella critica ci ha riflettuto.
Quando potremo leggere un romanzo di Max Collini? È una speranza in cui poter credere?
Sono tanti anni che ci penso e tante persone me lo chiedono, ma sono un pessimo agente di me stesso. In effetti avrebbe potuto essere una cosa naturale ma, in verità, gli Offlaga Disco Pax hanno sempre soddisfatto ampiamente la mia esigenza di visibilità per cui non è mai stata una cosa così impellente. In questo momento forse un po’ di raccoglimento nella scrittura andrebbe anche valutato, vista la situazione terribile in cui ci siamo trovati, però vedremo. Sono tanti anni che dico che ho un’idea per un romanzo e non lo scrivo mai, sono uno scrittore molto pigro. In questo momento la mia attenzione è tutta rivolta al progetto “Spartiti” e io e Jukka stiamo lavorando a una testimonianza dal vivo, un disco live in cui riprodurre alcuni dei brani che stiamo facendo nel nostro tour. Non è detto che in futuro svilupperemo di più la faccenda, ma ne parleremo con calma, intanto andiamo a suonare, poi si vedrà.
Ciao Max, grazie.
Se hai altre domande dopo il concerto mi trovi al banchetto.
[Un ringraziamento a Dario de Lucia che ha reso possibile, insieme ad altri, questo concerto e questo incontro]