5 anni di silenzio sono trascorsi tra La macarena su Roma, suo album di debutto, e Die, il secondo disco di IOSONOUNCANE. Che cosa ha fatto in questi 5 anni? ascoltando Die è chiaro che Jacopo Incani abbia lavorato sodo per produrre un disco che risulta già tra i più memorabili dell’ultimo cantautorato italiano.
Il resto gliel’ho chiesto al telefono e le risposte che mi ha dato dalla sua casa di Bologna le trovate qua sotto.
5 anni per creare un disco che è una vera e propria sintesi musicale tra tradizione, pragmatismo ed elettronica. Quando e come hai iniziato?
La prima fase è durata un anno ed è stata portata avanti in Sardegna, con i mezzi trovati in paese. Usavo microfoni ritrovati nell’oratorio della chiesa di paese, per esempio, e poi coinvolgendo molti amici, musicisti ma non per lavoro. Nel gennaio 2013, visto che non ero soddisfatto e stavo perdendo la bussola a causa del troppo materiale che stavo raccogliendo ho iniziato a lavorare con Bruno Germano, abilissimo fonico con ho iniziato a lavorare per un altro anno per fare un lavoro di sintesi. Ho quindi registrato tutti i suoni di nuovo, o ex novo.
Suoni analogici e campionamenti si prendono per mano durante l’intero percorso del disco, e nonostante il processo di produzione coinvolga ormai necessariamente la digitalizzazione dei suoni la sfumatura ruvida degli strumenti antichi non si perde. Come hai fatto?
Le uniche cose finte all’interno del disco sono i sintetizzatori, fatti con plugin di alta qualità. Ma anche i suoni “finti” sono stati fatti uscire da casse e amplificati. La conversione analogico-digitale è stata molto puntigliosa.
Sempre parlando di suoni analogici, i tenori sardi sono un denominatore comune di tutti i sei pezzi che compongono il disco. Si sente che sei molto legato alla tua terra.
Sono profondamente legato alla Sardegna. Il canto dei tenori sardi è stato campionati da dischi. Quando ho scritto Tanca, ed era ancora scarna, prima ancora che li mettessi già li sentivo.
C’erano già, in quel paesaggio sonoro. E così stanno in tutti i pezzi, tranne in Paesaggio.
È un disco elettronico perché l’elettronica è lo strumento che mi ha permesso di orchestrare tutto.
In Die, tracciando i puntini tra le canzoni, racconti di un uomo che sta affogando e una donna che dalla rive vede la tempesta abbattersi in mare. Nella composizione del disco è arrivata prima la storia o le musiche?
Sono partito dalle musiche perché da subito volevo riprendere a fare il musicista. Il primo disco era molto povero a causa della scarsezza delle risorse, quindi questo disco voleva essere di musica.
Con le melodie sono venute fuori subito le parole: continuavo a cantare in maniera ossessiva e all’inizio ho dovuto assecondarle. Volevo un disco prosaico, verboso, volevo rivendicare con forza il sole e le rive.
Con la parola sono venute le frasi compiute, come l’incipit di Tanca.
Quindi ho lavorato per tre anni su queste parole per vederle meglio, e mi son reso conto che anche se dicevo trenta volte sole, il significante era sempre differente. Il grosso del lavoro è stato questo, costruire una narrazione attraverso la sequenza delle immagini.
Sembri parecchio un outsider rispetto al resto della scena italiana. La segui o non ti interessa?
La new occult psichedelica è molto bella. Poi ci sono cantautori eccellenti come Dino Fumarettto, Alessandro Fiori o D’argen D’amico. O, i Verdena, di cui apprezzo molto il metodo e la dedizione. Ecco, il metodo e la dedizione sono le materie più importanti, le cose più importanti in assoluto.
Il titolo: ho letto che oltre al significato inglese die ha un significato anche in sardo. Come si pronuncia? cosa significa?
Io dico Die, perchè appunto son sardo. Ma in inglese significa morire, in tedesco è l’articolo determinativo femminile. Volevo un titolo che fosse breve, non estratto dai testi. Non volevo un titolo in italiano. Volevo un titolo di una sola parola e che potesse diventare un marchio, un logo che rappresentasse tutto il lavoro.
Dopo averne buttati via un po’ il suggerimento è arrivato da mia sorella. Die era perfetto perché in sardo significa giorno, in inglese morire e in tedesco lei. Era ed è perfettamente coerente con tutte le sfumature del disco:
Una donna che si trova davanti al dolore della morte, davanti ad una luce accecante in pieno giorno.
Stesso discorso immagino valga anche per la foto, molto evocativa
La foto è stata scattata da Silvia Cesari. Scattata su pellicola e poi ri-arrangiata da due musicisti di Bologna che fanno anche i grafici. Anche la copertina non è stata fatta pensando al disco: l’ho scelta subito perché ci sono tutti gli elementi del disco senza che vengano esplicitati. C’è la donna distesa (come in Stormi), c’è il mare anche se non si vede, c’è molta luce, ma l’aria è torrida.
E l’uomo che sta per morire nella tempesta dov’è?
Guardala, c’è anche lui.