In occasione dell’undicesima edizione del Robot Festival sabato 26 ottobre nella Sala Maggiore di Ex GAM l’artista bolognese Guenter Råler, pseudonimo di Irene Cassarini, presenterà dal vivo il suo nuovo lavoro Queering the Digital Space. Irene è attiva da qualche anno come Dj, producer e visual artist con performance in festival internazionali. Ora ha la sua base in Olanda dove ad Utrecht conduce uno show radiofonico per Stranded FM, SoundExtremism, e l’hanno scorso ha pubblicato Mobile Energy per l’etichetta Bene Tleilax. Abbiamo fatto una piacevole chiacchierata con lei per parlare del suo ultimo progetto, del clubbing italiano e delle tematiche legate alle discriminazioni di genere a cui Irene è molto sensibile.
Ciao Irene, dicci come ti sei avvicinata al mondo della musica elettronica e quale è stato il tuo percorso?
Ho iniziato con l’elettronica quando mi sono iscritta al Conservatorio di Bologna dove ho studiato Musica Elettronica e Sound Design. Dopo di che ho trascorso un anno a Stoccolma presso il Royal College of Music esplorando alcuni ambiti d’interesse tra cui la spazializzazione e diffusione multicanale, la composizione algoritmica e audiovisiva, ed entrando a contatto con artisti della scena sperimentale scandinava. Ora mi trovo in Olanda per un biennio magistrale in Music Technology e Music Design, presso Università delle arti di Utrecht, focalizzandomi su produzione musicale, arte digitale e facendo ricerca sulla cultura queer legata a pratiche artistiche.
Cosa pensi della attuale scena clubbing italiana, che purtroppo, si sa, sta languendo fra chiusure di locali storici e mancanza di spazio sperimentale?
Credo che in Italia manchi una scena a livello locale, ci sono festival di grande peso e dagli orizzonti internazionali che però cadono poche volte l’anno, e che danno spazio anche a grandi nomi della musica elettronica, penso ovviamente al Club2Club e allo stesso Robot Festival che sta tornando ai livelli degli anni precedenti. Purtroppo, non c’è, o è poca, la programmazione continua e sparsa sulla penisola che dia l’opportunità ad artisti giovani e sperimentali di esibirsi. Probabilmente questo non avviene a causa della mancanza di pubblico e di quella clubbing culture che in altri paesi europei invece è molto viva, di conseguenza non si investe in questo settore e lo spazio aperto alla sperimentazione è sempre più esiguo. D’altra parte, penso che sia una realtà che sta nascendo e si sta allargando, specialmente dal basso, anche se rimane spesso in mano ai grandi festival.
Rimanendo un attimo ancora sulla situazione italiana, tu sei anche molto attiva nella questione LGBTQ e sensibile alle tematiche del femminismo. Hai studiato e lavorato in Italia e all’estero, quali sono le differenze nell’approccio a queste tematiche?
Quando ho studiato in Italia non mi sono sentita sempre a mio agio in quanto a donna e persona queer, ci sono molti preconcetti e una diffusa disinformazione che guastano i rapporti umani. Specialmente quando ero l’unica donna nella classe non ho trovato un ambiente inclusivo, molti temi erano un tabù o non potevano essere trattati in maniera approfondita e chiara. Sono stata anche tecnico del suono, e se magari salendo sul palco la situazione è più facile, quando si sta dietro le quinte per una donna non è facile. In generale in Italia c’è molta chiusura rispetto a questi temi, non si parla di determinati argomenti o lo si fa con l’ignoranza di chi li sbandiera come slogan. Spesso ci si dimentica che dietro alle etichette o alle sigle ci sono persone con i loro problemi e la loro storia, ci sono però luoghi che mostrano una certa apertura a queste tematiche, anche in rapporto al legame con l’arte, come ad esempio Macao a Milano. All’estero è diverso: oltre ad una maggiore apertura al dialogo ed alla conoscenza di questi problemi, ho notato una sorta di neutralità nei confronti delle donne o delle persone queer, nel senso che il tuo genere o il tuo orientamento sessuale non sono categorie che vengono considerate nel momento in cui si lavora.
Passiamo a Queering the Digital Space, il progetto che presenterai alla serata del 26 al Robot Festival. Di che cosa si tratta, cosa ci dobbiamo aspettare?
Il progetto nasce da una ricerca su identità di genere e arte, volevo dare una mia visione critica anche dal lato più politico dell’arte: di fatto è una esplorazione della cultura digitale di oggi, di come il mondo digitale tiene conto della fluidità dell’essere umano, come vengono rappresentati gli stereotipi di genere e una serie di altri luoghi comuni sull’individuo e sull’identità che si diffondono online. Ho cercato di creare un lavoro audiovisivo che fosse provocatorio, ma senza la velleità di dare una risposta. È frutto di una esigenza personale di tirare fuori questo discorso legato all’essere una donna, una persona queer, e sono contenta specialmente di poterlo fare in Italia. Insomma è una disgregazione in formato visivo e digitale di norme che applichiamo e diffondiamo quotidianamente, per la maggior parte dei casi in maniera passiva e senza rifletterci su.
Quindi sarà un’opera artistica che non nasconde e non prescinde dal piano ideologico e politico, pensi che possa essere letta come una provocazione, un’azione di rottura?
Una provocazione forse sì, il mio intento è anche quello. Non sono sicura sia una rottura vera e propria. È una riflessione su come io vedo una cultura molto mainstream, binaria e legata ai ruoli di genere. Il fatto che io non trovi alcuna soluzione è parte stessa del mio lavoro che potrei definire ossimorico: spingo il più possibile alla riflessione, inserendo trend, come meme, video virali di Donald Trump, e decostruendoli provo ad offrire un’altra prospettiva. Credo sia necessario prendere atto di quanto internet ci possa rendere superficiali, annullando ogni profondità di pensiero: è un esempio banale, ma quante volte capita di leggere in una scheda un articolo super serio di politica finanza o cronaca, e parallelamente in un’altra essere aggiornati su cosa stiano facendo le Kardashian. Il fatto che sia tutto sullo stesso piano ci rende incapaci di dare un peso ai contenuti online.
Hai lavorato sulla questione dello sdoppiamento fra un Io vero e un Io digitale, fra il piano concreto della “vera” vita e quello immateriale del web. Spiegaci il tuo pensiero.
Dal mio punto di vista l’idea che ci sia una separazione fra Io vero ed Io online è utopica: credo che ormai la cultura digitale sia cosi integrata nella nostra vita che i due piani siano diventati indistinguibili. Come se internet fosse l’estensione della vita concreta, e se pur in due piani diversi, queste due realtà esistono contemporaneamente e dipendono l’una dall’altra. Proprio per questo è interessante il modo in cui ci esprimiamo su internet e la maniera in cui possiamo andare contro alle norme o con la quale esprimere le nostre diversità in una dimensione immateriale, ma che influenza fortemente la nostra vita. Secondo me i social sono visti come volto personale e intimo quando in realtà non è così. Noi ci esprimiamo lì come se lo fossero e abbiamo una libertà di espressione che non c’è magari nel mondo reale. Sono imprescindibili.
Internet ai suoi esordi era effettivamente la realizzazione di quella società liquida, offriva uno spazio immateriale e potenzialmente infinito, senza confini e con la massima libertà di espressione. Ora stiamo assistendo sempre più ad un fenomeno di normalizzazione di internet, che fra algoritmi e piattaforme in mano ad una manciata di persone, sta ponendo un freno a quella libertà che era stata la rivelazione del web. Pensi che questo possa essere una minaccia alla libera espressione di sé e delle proprie idee?
È sicuramente una tematica delicata. La grande opportunità che offriva internet era quella di poter pubblicare dei contenuti in maniera anonima, il fatto che ci potesse gettare senza comunque esporsi completamente garantiva una grande libertà di affrontare qualsiasi tipo di problema in una comunità online. Credo che ora sia ancora possibile questo processo anche se è inevitabile scontrarsi con la realtà capitalista su internet, se un artista vuole mostrare le proprie opere o vendere la propria musica deve rivolgersi a quei siti. Nonostante ciò ci sono ancora molte possibilità di fare resistenza, o di creare luoghi di inclusione senza svendersi.
Per chiudere ci racconteresti il tuo modo di procedere nella produzione della tua musica e delle tue perfomance?
Per questo ultimo lavoro presento anche della nuova musica prodotta negli ultimi tempi. Tendenzialmente produco tutto al computer con vari software per cui le mie presentazioni hanno una forte natura fredda, digitale, ma provo sempre ad inserire una componente emozionale con melodie e progressione di accordi o cercando una certa tipologie di suoni molto caldi da contrapporre a beat duri ed insistenti. Da una parte la freddezza digitale, dall’altra il calore umano delle emozioni, che sono l’eredità umana nell’era digitale. La mia idea è creare un contrasto che possa far scaturire un’emozione una riflessione personale da contrapporre alla produzione digitale.