Eduardo Rabasa presenta a Milano il suo nuovo romanzo Cintura Nera e ci racconta di un mondo lavorativo distopico, ma non tanto diverso da quello reale.
Milano, esterno notte. Quando il buio è già calato e i lampioni illuminano le strade con i loro coni di luce giallognola, solo i giargiana scansafatiche come me sono già fuori dall’ufficio. Fermo un taxi con un fischio (sentendomi molto Carrie Bradshaw, e conseguentemente mettendo in forte dubbio la mia sessualità) e gli chiedo di portarmi in un hotel in zona Porta Genova, dove per due giorni soggiorna Eduardo Rabasa, autore messicano appena tradotto e pubblicato in Italia da SUR. Abbiamo appuntamento per parlare del suo ultimo romanzo Cintura Nera, il primo edito in Italia. Mentre il taxi accelera e inchioda nel traffico come in preda al singhiozzo, osservo scorrere dal finestrino gli alti grattacieli dagli uffici completamente vetrati. In mostra come pesci rossi, gli impiegati veri, quelli business oriented, quelli affamati, sono ancora seduti alle loro scrivanie, abbagliati dal riflesso azzurrognolo del loro computer. Per un attimo provo un senso di straniamento: avrò esagerato nella lettura di Cintura nera? Sto guardando la realtà milanese, o quella della Soluzioni, l’assurda azienda che vende, appunto, soluzioni, presso la quale lavora il protagonista del libro Ferdinando Retencio? Sì, perché il romanzo di Rabasa descrive una realtà che con la Milano workaholic ha molto in comune. L’azienda di Retencio pratica il precariato più estremo: i dipendenti devono firmare, insieme al contratto d’assunzione, una lettera di dimissioni, che autorizza la Soluzioni a licenziarli di punto in bianco, senza preavviso e senza buonuscita, non appena il loro rendimento si mostra in calo. Un enorme tabellone, le cui cifre sono in costante movimento come nella Borsa di Wall Street, segnala, subito all’ingresso, la posizione nella classifica di produttività di ogni singolo impiegato. Anziché spaventarlo, questo costante memento labori è uno sprone per Retencio, che non ha altra ambizione al di fuori della conquista della mitica “cintura nera”, l’ultima e suprema attestazione di aver sbaragliato tutta la concorrenza nello svolgere bene il proprio lavoro. In questo mondo, e in questa sete di conquista, non esistono amici, né tantomeno colleghi. Coloro che lavorano con Retencio non sono altro che Pérez (l’equivalente messicano, in termini di vaghezza, del nostrano sig. Rossi): volti anonimi, uno simile all’altro, che non vale nemmeno la pena di distinguere con uno specifico nome proprio.
Scendo dal taxi, ringrazio – non ricambiato – il tassista ed entrò nella hall. Mi accolgono Giulia, la bravissima e sorridente traduttrice/interprete, ed Eduardo, che nonostante il tour de force di presentazione del libro mi stringe la mano con entusiasmo e mi accompagna in una saletta appartata, dove finalmente potrò sciogliere i miei dubbi maturati on the road. Dove mi trovo? A Milano o nella trama di Cintura Nera?
Eduardo, è molto interessante incontrati qui a Milano, la città in Italia che probabilmente più assomiglia alla realtà che descrivi in Cintura nera. Diciamo che qui ha decisamente attecchito la filosofia del vivere per lavorare. Qui, come in altre metropoli del mondo, a dire il vero. Ecco, a tuo avviso, la realtà di Cintura nera è una realtà che si ritrova unicamente nelle grandi metropoli – Milano, Londra, New York, Città del Messico – o è ormai un sistema diffuso ovunque?
In questo romanzo, come anche in quello precedente, ci sono un tema molto specifico, una trama ben delineata, ovvio, personaggi ben precisi, ma non c’è la localizzazione specifica in una città. Questo perché a me interessava raccontare in generale la narrativa di un’epoca, delineare la tipologia di individuo che questa epoca sta producendo. È quindi una storia che può essere ambientata in molti luoghi. Ovviamente ci sono molti aspetti messicani, che quindi fanno pensare a Città del Messico, ma potrebbe benissimo essere Milano, come qualsiasi altra città con questa mentalità. E non deve per forza trattarsi di una grande metropoli. Chiaro, se pensiamo che nel libro il protagonista passa molto tempo imbottigliato nel traffico, questo succede ovviamente di più in una grande città. Ma, perlomeno in Messico, questo tipo di eccessi lavorativi, questa mentalità corporativa, sono diffusi anche nelle città più piccole. Sono luoghi e società con molta gerarchia, moto culto del lavoro, quindi il meccanismo basico è più o meno sempre lo stesso dalla grande metropoli alla piccola cittadina.
In una tua precedente intervista, affermi che questa società odierna è schiavista. Ma poi tu stesso ti correggi, dicendo che in realtà assomiglia più una società feudale. Ed è una differenza importante perché, nella schiavitù, lo schiavo non sceglie di essere assoggettato, non lo è volontariamente, mentre nella società feudale l’individuo è consapevole di essere al servizio di un signore, da cui dipende ma da cui trae anche benefici. A tuo avviso viviamo quindi in una società di stampo feudale, in cui è l’individuo per primo a essere portato ad asservirsi?
Direi proprio di sì. Stiamo vivendo quello che potremmo chiamare un feudalesimo corporativo. Viviamo infatti, come si legge anche nel romanzo, nel culto di questi grandi impresari, grandi business man/filantropi che idolatriamo, che eleviamo a punto di riferimento. Ogni tanto leggo quello che dicono i dipendenti di Google, Facebook, Apple: “Larry Page, (o Mark Zuckerberg o Steve Jobs) è molto occupato, non lo incontro quasi mai. Ma quando lo incrocio, anche solo per dieci secondi, mi rivolge uno sguardo o mi dice una frase che mi illumina”. Ecco, in effetti questo ricorda da vicino il signore feudale che va a far visita ai suoi sudditi e questo è sufficiente per lasciarli meravigliati e pieni di gratitudine. Un altro aspetto interessante di questo feudalesimo corporativo è che, proprio come un feudo, ha bisogno di uno spazio geografico ben delimitato. Leggevo che Facebook sta progettando di fondare Facebook City e che Google vuole comprare un’isola sperduta nel Pacifico dove creare un territorio senza legge, in cui testare nuovi tipi di forme lavorative, facendo esperimenti da importare nella società. Questo è assurdo! E come dicevi tu, mentre la schiavitù è involontaria, qui è l’individuo che partecipa volontariamente a questa scelta di assoggettarsi.
Quando è stato presentato in Italia, il tuo romanzo è stato definito distopico, forse su influenza del fatto che sei traduttore di un autore come George Orwell. Ma, in realtà, ho trovato che Cintura nera sia fortemente realista, nonostante il suo lato comico.
Be’, guarda, io sono un grande fan di Mark Fisher, che nel suo ultimo libro, The Weird and the Eerie, trattando del gotico e di H.P. Lovecraft, conia un’espressione che mi piace molto e in cui mi rivedo molto, ossia realismo grottesco. Nel mio libro infatti ho preso aspetti della realtà, ho descritto questa fissazione fanatica per il lavoro, e nella finzione ho aggiunto un aspetto grottesco. Penso ad esempio a una delle prime scene del libro, quando compare una squadra di cheerleader addette a licenziare le persone cantando una canzoncina e facendo un balletto. È ovvio che si tratta di un’esagerazione, ma nella realtà del Messico c’è effettivamente questa filosofia del precariato, del licenziare le persone con facilità, anche per fare in modo che vivano in uno stato di continuo terrore psicologico. Con le cheerleader ho quindi accentuato un lato grottesco, ma per raccontare qualcosa che è comunque realtà.
Ecco, questo terrore, questa paura del precariato è una delle tematiche a mio avviso fondamentali del libro, anche quando è implicita. I personaggi vivono nella costante paura di perdere qualcosa, anche se non ce n’è motivo, anche se la precarietà è solo immaginata.
È vero, la società di oggi ha paura. Viviamo in un’epoca di grande precarietà lavorativa, di contratti a termine, di licenziamenti facili. E la gente vive quindi in uno stato di ansia costante. Ti faccio un esempio pratico: mia madre vive a Monterrey, una città industriosa, simile a Milano potremmo dire. Lei, così come tutti i miei parenti, sono imprenditori, con la tipica storia di chi è partito dal basso, è riuscito a costruire un commercio importante e ora possiede grandi aziende. Hanno quindi molti soldi, ma nonostante ciò, quando li sento, si lamentano sempre di essere sul punto di perdere tutto. “Rimarremo senza niente, il governo ci porterà via tutto”, mi dice sempre mia madre. A questo si collega un’altra tematica che ha forte rilievo nel libro, quella degli psicofarmaci. C’è uno psicanalista americano, Darian Leader, che definisce gli antidepressivi, fuori di metafora, come un incentivo alla produzione. Se la gente non si impasticca, dice, non può funzionare, è così che devi agire per sopravvivere in questa società. C’è un ragazzo che conosco, un mio coetaneo, che lavora da anni per una delle principali industrie messicane. E lui mi dice sempre: “Io non conosco i miei figli né la mia famiglia. Tutto ciò che conosco sono ambizione e lavoro. Puoi scegliere tra due cammini: questo o quello della mediocrità, della famiglia”. Immagina quindi le pressioni che implica vivere e pensare in questo modo.
Più che della società di oggi, credo in realtà che si tratti di un elemento fortemente messicano. Quasi tutta la sessualità del libro è prettamente mascolina, gira intorno alla sessualità del protagonista, che è un personaggio machista. Ecco, questo machismo è un tratto molto messicano, e deriva al protagonista anche dall’educazione che ha ricevuto, che nel libro emerge dai flashback, e che è la stessa che hanno inculcato anche a me. Un giorno ad esempio, avrò avuto 6 anni, mio padre mi raccontò, di ritorno da un viaggio di lavoro che aveva appena fatto in Perù, che lì nel suo hotel c’era una cameriera molto bella. Parlano, stringono amicizia, e lì in hotel c’è un negozio di lusso dove lui le compra un bel vestito. A quel punto – mi dice – che altro dovevo fare? Cioè, mio padre stava raccontando a me, suo figlio di 6 anni queste cose, come se fossimo tra amici, per il puro piacere dell’esibizione della sessualità più che per il piacere della sessualità in sé. Ecco, questa esibizione della sessualità credo proprio sia tipica del macho messicano, ma forse di tutti gli uomini.
Mi stai raccontando tanti aneddoti personali che sono poi confluiti nel libro. In un’altra intervista affermi che, proprio per questi tratti autobiografici, è un libro che ti ha “incasinato la vita”. Sapevi prima si scrivere che avresti inserito questi episodi, in una sorta di psicanalisi autobiografica, o sono stati inseriti nel corso della scrittura, accorgendoti solo a posteriori che stavi scrivendo delle cose vicine alla tua esperienza?
Quello che avevo in mente quando ho iniziato a scrivere il libro era la mentalità del protagonista, il tipo di trama, queste cose qui, ma gli elementi più specifici sono nati nel processo di scrittura. Non so come succede per gli altri scrittori, ma io questi episodi autobiografici non avevo pensato di inserirli da subito. Scrivendo, volevo dare un po’ di contesto, spiegare perché il protagonista, un adulto di 30 anni, è cosi, anche per farne una figura non del tutto disprezzabile. Non volevo che fosse malvagio, anche se talvolta lo è, e volevo che il lettore potesse entrare in empatia con lui o almeno comprendere perché era così, e alla fine mi è risultato facile identificarmi in Retencio. È per questo che il libro mi ha un po’ incasinato la vita, perché convivere a lungo con questo personaggio che condivide buona parte della mia educazione e delle mie esperienze era un po’ come trovarsi davanti un alter ego. Ma spero non sia così e di non somigliarli! L’elemento autobiografico era più cosciente nel primo libro, soprattutto quando descrivevo la relazione del protagonista con il padre. Io ho avuto un rapporto molto conflittuale con lui e con la sua figura, e nel primo libro questo influsso era più cosciente. In Cintura Nera stavo invece scrivendo fiction totale, e all’improvviso mi sono accorto che alcune idee avevano comunque un vincolo con ciò che avevo vissuto. È questo che mi è successo ed è il motivo per cui mi sono poi sentito così vicino al protagonista.
Tra l’altro, scoprendo un po’ della tua biografia, ho trovato una certa ironia nel fatto che tu scrivessi dei dolori di un impiegato quando tu sei fondatore e responsabile di una casa editrice, la Sexto Piso, e quindi sei in realtà un po’ dall’altro lato della barricata, nel ruolo del capo. Come vivi questa dinamica?
In effetti, appena uscito il libro, in un po’ mi hanno chiesto: “ah quindi in questo libro racconti della vita nella Sexto Piso?”. Per fortuna, non è così. La nostra è una realtà totalmente differente, c’è un’altra cultura lavorativa. È un luogo un po’ più anarchico, il che da un lato è buono, dall’altro è un po’ più problematico dal punto di vista imprenditoriale. Ma sono felice così. Anche perché personalmente ho un po’ di problemi, anche proprio a livello linguistico, con le gerarchie. Quando i miei collaboratori mi presentano a qualcuno come “il loro capo”, mi fa strano, non mi piace molto.
Ma essere editore ti ha aiutato a diventare scrittore o sono due esperienze totalmente diverse?
Sono lavori che hanno delle somiglianze, ma poi finiscono per essere due cose totalmente distinte. Col primo libro soprattutto non avevo finalità di pubblicazione, era più un’esperienza di scrittura pura. Con Cintura Nera avevo invece già un po’ più di esperienza in termini di scrittura, trama, ritmo, ma comunque, in entrambi i casi, mi trovavo a scrivere, riscrivere, rivedere, e gli editori mi facevano molte modifiche. Ecco forse la differenza è che, quando me le facevano, dicevo: “chiaro, hai ragione, questo non va”. Nel mio lavoro di editore ho incontrato molti autori a cui non piaceva si dicesse di fare modifiche: si offendevano, diventavano maleducati e addirittura ti accusavano di non capire la loro arte. Grazie al mio lavoro di editore penso di essere un po’ più ricettivo alle critiche, quindi se mi segnalano qualcosa di sensato non ho problemi a cambiarla. Ricordo però un aneddoto molto divertente. Quando tradussero per la prima volta il mio libro in inglese la traduttrice, Christina MacSweeney, un’ottima traduttrice e una signoria decisamente polite e british, mi disse: “questo paragrafo è incredibile, un’idea geniale, il linguaggio è ottimo. Lo possiamo eliminare?” E io, ridendo, le ho detto: ma si cancelliamolo pure! Devo ammettere che aveva ragione, qual paragrafo non funzionava. Essere editore mi ha reso quindi meno permaloso riguardo alla mia scrittura.
Nel tuo lavoro di editore devi indubbiamente avere un occhio più imprenditoriale, guardando anche all’aspetto commerciale, al pubblico e alle vendite. Già nella scrittura hai un po’ più di libertà. E la tua band, i Nobody Fucks with the Jesus, a che livello si pone invece? È una valvola di sfogo, un hobby o un’altra modalità di espressione della tua creatività?
La band, un po’come la scrittura, è nata in modo un po’ inaspettato. Con due miei amici, membri della band, abbiamo questo progetto da 10-15 anni. Non che fosse un progetto poco serio, ma abbiamo iniziato un po’ così, per stare tra di noi, facendo cover. Pian piano è diventata una cosa sempre più seria, al punto che adesso abbiamo due inediti. Ti dirò, la cosa un po’ mi preoccupa perché ho paura che mi distragga dalla scrittura. L’energia che metti nella musica è tanta. Un mio amico dice addirittura che, se provi la musica, poi non puoi tornare indietro alla scrittura. In parte è vero, ma personalmente non penso che sia così assoluto. Bisogna imparare a pensarle come due strutture di pensiero ben distinte. Anche se, forse, la forza di espressione e di energia che ha la musica la scrittura non ce l’ha.
Tornando al libro, forse l’unico aspetto positivo in quel mondo molto negativo che descrivi è la mancanza di ipocrisia. È un mondo cinico, è vero, in cui i poveri si deridono e si sfruttano, ma almeno non c’è l’ipocrisia buonista. Le cose si dicono e sono come stanno.
Credo che la realtà in cui viviamo possa continuare a esistere solo se certe cose rimangono nell’ombra. Lo vediamo bene in Messico, dove i politici parlano formalmente di democrazia, libertà, abolizione della povertà, risoluzione del problema degli indigeni. Se ne parla come se fossero argomenti che davvero interessano la società, ma è falso! In realtà si preferisce tenerli nell’ombra. Questa non è solo ipocrisia, ma anche un autoinganno: è necessario alla società pensare che la realtà sia così, che sia migliore. Solo se parli con un povero, scopri che lui non si fa nessuna illusione che la sua condizione possa cambiare. Dall’alto ci si discolpa, si nasconde tutto nell’ombra, ma chi è in basso sa che la situazione è questa e che non può cambiare, non c’è inganno possibile. La finzione romanzesca può invece essere più onesta, magari anche usando simboli o allegorie, ma può dire come stanno veramente le cose. La realtà ha bisogno di raccontarsi le bugie, così come ne ha bisogno il mondo imprenditoriale. Si parla tanto di meritocrazia, di crescita, bonus e promozioni ma la realtà è che non tutti possono essere Bill Gates. Ma per le aziende è importante che la gente pensi che sia cosi, che si dica: “se non sono Bill Gates è solo perché non mi sono sforzato abbastanza”.
Ma quindi, in conclusione, c’è una via d’uscita da questo tipo di società? Di contro ai vari Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, c’è qualcuno che può rappresentare un punto di riferimento positivo?
Sicuramente c’è tanta gente che fa cose ammirevoli, penso a diversi giornalisti messicani che rischiano la vita o vengono uccisi per il loro lavoro. Davvero c’è tanta gente ammirevole. Il problema che vedo è che queste persone non riescono a influire a livello sistemico. Non vedo al momento persone o idee che potrebbero cambiare il pensiero a livello massivo. Io ad esempio ho un amico che dedica buona parte della sua vita ad alfabetizzare le persone: va in comunità super remote sulla serra per insegnare loro a leggere e scrivere. Lui è molto, molto, molto ammirevole. Ma ha un impatto piccolo, non riesce a logorare le cose affinché cambino a livello massivo. Sono d’accordo anche in questo con Mark Fisher, il pensatore che meglio di tutti spiega cosa stiamo vivendo al giorno d’oggi. Lui pensa che sia meglio accelerare il collasso, in modo che poi da lì si possa ricominciare da capo. In parte questo collasso è già iniziato. Lo testimoniano le migrazioni di massa, la povertà dilagante, tutto quello che sta succedendo intorno a noi. Vorrei essere meno pessimista, però…
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Uscito dall’hotel, mi accorgo di avere un po’ di tempo prima della partenza del treno che deve ricondurmi a Torino. Mi avvio allora a passi lenti verso una stazione della metropolitana. L’aria è fresca, ma è piacevole camminare nell’apparente quiete della sera. Milano sembra mostrare il suo volto più umano. Ogni tanto alzo lo sguardo: le vetrate degli uffici sono ormai quasi tutte spente. Solo qualcuno, inseguendo la cintura nera, non demorde, e strappa alla notte altre ore in ufficio. Poco prima di scendere in metropolitana, passo davanti a un supermercato h24. Al suo interno si muove una massa indistinta di Pérez, tutti in completo grigio, cravatta regimental, airpods alle orecchie e un misero carrellino nel quale hanno stipato sparuti alimenti pronti da consumare. “We carissimo, no non mi disturbi affatto! Ma certo, sempre operativo! Allora, per quell’investimento che ti dicevo…” — Perso nella sua conversazione, il Pérez neanche si accorge di avermi quasi travolto uscendo dal supermercato. Si allontana nella notte, parlando e azzannando in contemporanea un tramezzino. Certo, penso scendendo le scale della metro, come dice Eduardo sarebbe bello essere meno pessimisti. Però…