Per alcuni dischi ci vorrebbe il decanter. Bisognerebbe versarli come il vino in un’ampolla, lasciare che prendano un po’ di ossigeno e vedere cosa succede in bocca sorso dopo sorso. Turn on the Bright Lights degli Interpol ha già quindici anni, neanche tanti a dire il vero, ma nel frattempo in questo quindicennio è successo di tutto nel nostro mondo.
C’è stato un tempo in cui gli Interpol captavano un certo tipo di sound venuto fuori all’inizio del nuovo millennio. Più conosciuti dei The National, più oscuri degli Strokes, più indie degli Editors: la band di Paul Banks era uno degli epicentri di un disagio post punk riformato in chiave indie a inizio Duemila. Lì, nell’apocalittica New York post 11 Settembre, c’era un certo fermento in quegli anni: i Liars, gli Yeah Yeah Yeahs di Karen O, gli stessi Strokes, tutto sembrava in movimento. In quel clima — tutt’altro che oscurantista nonostante tutto, venne fuori Turn on the Bright Lights: anno 2002. Ed eccolo, decantare dopo 15 anni in versione integrale con un tour di omaggio degli Interpol.
Cos’è cambiato da allora?
I The National sono diventati una delle band più contemporanee di tutte, forse i veri sopravvissuti di quell’era — sopravvissuti a Obama, a Trump, alla moda della cumbia, e persino ai ritmi del post-punk riformato. Gli Editors hanno commemorato una versione più commerciale di se stessi, Julian Casablancas e Karen O si sono messi in solo, ogni tanto si rifanni vivi, ma non è più come un tempo. Le classifiche mondiali celebrano l’hip-hop, e le chitarre restano spesso nelle cantine. E Paul Banks?
Dopo alcuni esperimenti solisti — neanche malvagi (vedi Julian Plenti), e l’ultimo album degli Interpol non propriamente indimenticabile (El Pintor), non avevamo grandi notizie dell’anima bionda/oscura degli Interpol. Lo ritroviamo sul palco leggermente appesantito dall’età, e a dire il vero un po’ impacciato. Non che ci si aspetti del calore umano da un gruppo che ha nelle sue corde l’esercizio ossessivo della ripetizione al suono di batteria/chitarra/basso, tuttavia se stai celebrando un disco e vuoi farlo decantare sarebbe bello almeno cantarlo. Il problema è che Banks non usa più la voce, e troppo spesso lascia che sia il pubblico a cantare.
Per fortuna il chitarrista Daniel Kessler cerca un po’ di fare da contraltare all’impassibilità di Paul Banks sul palco. Armato – come Banks – di Gibson, si dà da fare a spronare il pubblico con qualche assolo, e nonostante un paio di calzini rossi a tratti ci riesce. Non che il pubblico abbia bisogno di essere spronato: complice la nostra ossessione passatista, sembrano tutti piuttosto a loro agio a sentir celebrare Turn on the Brights Lights. Fa niente se la voce di Banks si sente a tratti giù dal palco.
Una domanda sfiora irrequieta le nostre menti: quindici anni sono abbastanza per commemorare un disco e il tempo che passa? Abbastanza per perdere la voce? — considerando come si dimena su un palco ancora oggi Iggy Pop. O siamo di fronte a uno show dal retrogusto un po’ indie-decadent? In ogni caso è bello riascoltare Turn on the Bright Lights, dopo quindici anni.
L’esecuzione dei pezzi suona bene, fin troppo bene: da Untitled fino a Leif Erikson la scaletta sembra una mera riproduzione del disco pezzo dopo pezzo. Forse è tutto fin troppo “parodistico” e – dunque – freddo. E non è solo l’effetto della voce di Banks, quando sussurra stanco: Come wait / come wait / come wait. O prova a incalzare un: She broke away broke away. È la tetra esecuzione a creare un effetto annichilente.
In fondo è questo nichilismo dei sentimenti che abbiamo cercato negli Interpol nel 2002, solo che non è più un nichilismo in cui sprofondare e crogiolarci. Nel 2017 quel nichilismo suona freddo e amorfo, come davanti a una commemorazione di qualcosa che è diventato distante e fuori-tempo. E probabilmente è anche colpa di un’esecuzione che dura davvero poco, e non ci dà il tempo di entrare a fondo nel live.
Dopo la messa in scena completa dell’album gli Interpol tornano sul palco brevemente per regalare altri tre pezzi (Not Even Jail, Specialist e Evil): il pubblico è emozionato nel sentir risuonare lo spirito di Rosemary dal vivo, e colma alcune lacune sbattendosi. Come se fossimo a un concerto rock. Ma non c’è quasi nulla di rock, persino la vecchia anima feconda del rinnovato post-punk non c’è. C’è un rituale breve, regalato al pubblico come in preda al dovere di dar da mangiare agli affamati. C’è la voglia di chiudere il sipario, e il fumo negli occhi di un vecchio scenario.
E allora ci vorrebbe proprio un decanter, per sorseggiarlo a pezzi – questo disco – come un grandioso vino (perché sì, siamo sentimentalmente affezionati a questo album). In fondo raccontare l’ultimo quindicennio dal palco potrebbe fare a pezzi senza una buona riserva di ossigeno. Respirate. Dopo quindici anni Turn on the Bright Lights è ancora un signor disco.
Tutte le foto sono di Anna Chasovskikh
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