Come un’impronta digitale, per quanto fedele sia lascerà sempre una traccia sbiadita, così gli Interpol rischiano di essere inimitabili. Soprattutto da loro stessi. Destinati a rincorrere una totalità che solo la freschezza impacciata di una band agli esordi, somma dell’insoddisfazione entusiasta di giovani rockstar e della novità di un genere ancora poco esplorato può regalare. Fu così per Turn On The Bright Lights, era il 20 agosto 2002. Non lo è oggi. Ma 16 anni dopo, con il sesto album Marauder, il trio indie-rock newyorkese dimostra di essere ben lontano dall’appendere la chitarra al chiodo. Anzi, di essere del tutto intenzionato a ripartire proprio da quel primo lavoro che resta, come è giusto che sia, irraggiungibile.
Un disco di alti e di bassi, di strofe intense e di cori sussurrati, di tredici pezzi profondi e intensi, come The Rover, Complications o Stay in Touch, ma anche di sveltine, per valore o lunghezza che si perdono in un soffio come Interlude 1 e Interlude 2 che a brani come Obstacle 1 o Untitled, open-track dell’album di esordio, restano simili solo per dicitura, non per caratura. Brevi parentesi di un lavoro bipolare, nevrotico e incerto, un racconto del tutto personale di una band, il cui nome lo deve al nomignolo del frontman Paul Banks, che non ha mai cercato di essere altro, ma che è riuscita nel raggiungimento di quella completezza che, a 4 anni di distanza dal penultimo lavoro El Pintor (anagramma di loro stessi), visti i precedenti si faticava a sperare.
Ed era difficile crederlo anche ascoltando i primi secondi della traccia d’apertura, If You Really Love Nothing. Premendo play, dopo il primo giro e il dubbio che sia partito per sbaglio l’album dei Kings Of Leon, basta un attimo per sentire la voce di Banks. Quell’insieme di sofferenza, apatia e cinismo, clichè di qualunque artista contemporaneo, che però cambia volto a una melodia indecisa. «If you really love nothing/On what future do we build illusions/If you really love nothing/Do we wait in silent glory» (Se davvero non ami niente/Su quale futuro costruiamo illusioni/Se davvero non ami niente/Aspettiamo nella gloria silenziosa».
Proprio quella sensazione di gloria silenziosa ha permesso agli Interpol – Banks, il chitarrista Daniel Kessler e il batterista Sam Fogarino – di proseguire sulla loro strada, tra screzi interni, affaticamenti e periodi di pausa, non temendo di farsi interrompere nella costante e spasmodica ricerca di equilibrio. The Rover, primo singolo dell’album, è il brano che più di tutti acquista il rumore di questo equilibrio ritrovato. La voce di Banks, sensuale e altezzosa, galleggia sulla fusione tra chitarra e batteria in un pezzo che ci sta dentro, che risulta giusto in ogni nota. «I’m welling up with excitements again/The apex resolves you need to tell your friends». «Ricomincio di nuovo le eccitazioni, l’apice si risolve devi dirlo ai tuoi amici».
La verità, però, è che gli Interpol hanno ricominciato a essere alla loro altezza e non hanno bisogno di dirlo. Con la terza traccia Complications, una chicca dell’album, dall’inizio che confonde, che si rischiara con l’ingresso della distorsione che più indie è impossibile, con la frustata inconfondibile e nonostante questo non ci sono aspettative, solo raccontarsi. Sussurrare, a ritmo continuo e incessante, se stessi. Ma l’incertezza non si nasconde, non più, e dopo tutti questi anni di carriera diventa un punto di forza: «Dream of combinations (…) Then I’m stuck without no answers».
Nel flow, brani come Flight of Francy, molto Joy Division (paragone di cui gli Interpol non si sono mai liberati), che resta un’eco lontano; Party’s Over, determinata – anche se sembra frutto di un Bon Iver versione rockstar, o Mountain Child, che racconta quella nostalgia da bambini di sentirsi eroe – «We used to rule back then/What did we used to rule back then», «Allora eravamo abituati a governare/Che cosa abbiamo usato per governare allora». Accanto pezzi come Stay in Touch che mostra aspetti nuovi e sorprendenti. Un brano sperimentale, a tratti strano, con la forma di una confessione, di un frammento di vita vissuta che lascia la melodia in secondo piano e mostra un Banks svestito davanti a tutti.
Una “svestizione” evidente nella copertina, con la foto del procuratore generale Elliot Richardson mentre si dimette nel ’73 per non aver eseguito gli ordini del presidente Nixon di licenziare chi stava indagando sul caso Watergate, Archibald Cox. Ma palese anche nella registrazione del lavoro: rock, spontaneo e immediato.«Marauder è una delle sfumature del mio carattere– ha confessato Banks -. Se distruggo un’amicizia o faccio delle stronzate è solo colpa sua. (…). In qualche modo, quest’album gli concede l’opportunità di avere un nome e un volto, ma poi lo rimette a dormire».
Che questo lato sia un dono elitario non si hanno dubbi. Ma questa volta sarà stata la location, la sala prove degli Yeah Yeah Yeahs per fare rumore a caricarli a tal punto da ritrovarsi i poliziotti durante la sessione prove, la produzione di Dave Fridmann che ha già lavorato con artisti come Flaming Lips o MGMT, o semplicemente la ritrovata fame di raccontarsi, che questo dono gli Interpol l’hanno voluto condividere. L’energia c’è e non vuole spegnersi. Si capisce dall’ultima canzone, It’s Probably Matters, una conclusione sofferente, come un bimbo che non vuole andare a dormire. Si può solo sperare che sia effettivamente così e che il sonno, per gli Interpol, non arrivi.