Raccontare ha sempre qualcosa a che vedere con la verità. Farlo attraverso la musica racchiude in sé un elemento capace di oscillare tra due estremi opposti: da una parte consegnarsi integralmente e senza filtri alle orecchie degli ascoltatori di ogni latitudine grazie all’universalità del suo linguaggio; dall’altra, negarsi allo stesso tempo a uno sguardo lucido grazie all’ineffabilità che quello stesso linguaggio nasconde.
Farlo attraverso la musica jazz spesso significa sottrarsi addirittura al proprio stesso sguardo, grazie a una forma musicale che, come nessuna, può concedersi nello stesso istante in cui viene eseguita di tornare su se stessa, senza cercare né, tantomeno, ambire a una forma compiuta; una musica che si nutre di inciampi e su quegli inciampi, su quella nota ripetuta, come un errore della vita – voluto o involontario – sa esplorare nuove tracce, attraverso ripensamenti e convinzioni che si rafforzano, sfumature ora sostanziali – più spesso sottilissime – che intorno al vero nocciolo di sé sanno raccontare umori, malinconie, allegrie, variazioni del proprio essere che di volta in volta colorano di luce diverse un’armonia, una frase melodica, un incedere ritmico.
Scriveva Geoff Dyer, nel suo bellissimo Natura morta con custodia di sax: «Se a tutta prima sembra melodrammatico insinuare che vi sia qualcosa di rischioso nella natura stessa del jazz, […] dagli anni Quaranta in poi il jazz avanzò con la forza e la ferocia di un incendio nella foresta. Sarebbe mai stato possibile per una forma d’arte svilupparsi tanto in fretta e a un ritmo tanto concitato senza esigere in cambio un ingente sacrificio di vite umane? Se fra il jazz e la lotta universale dell’uomo moderno corre un legame di stretta consanguineità, come farebbero i suoi creatori a non portarne le cicatrici?»
Poche storie sembrano poter cucirsi addosso le parole di Dyer come quella di Luca Flores, uno dei più grandi musicisti jazz europei della fine del novecento che si tolse la vita il 29 marzo di venticinque anni fa. La sua parabola di musicista durò circa dieci anni e fu assolutamente folgorante. La sua storia di uomo, passata quasi inosservata, fu raccontata molti anni più tardi da Walter Veltroni nel libro Il disco del mondo, libro forse non bellissimo ma fondamentale nella riscoperta di questo ragazzo dal talento cristallino e fonte inesauribile di aneddoti, ricordi, cui io per primo ho attinto nello scrivere questo lungo omaggio.
La morte di Luca Flores a nemmeno quarant’anni, fu prematura due volte: nella sua breve parabola umana e artistica e nell’anticipo rispetto all’apertura che il bel paese avrebbe concesso al jazz solo qualche anno più tardi, lasciando che il suo ricordo affiorasse – molto prima che per la sua musica – tra le pagine di un libro, appunto, come anche nel bel film Piano Solo di Luca Milani con Kim Rossi Stuart e Jasmine Trinca.
Ci sono vite che sono come racconti. E questo racconto parte dalla fine. Dalla pubblicazione di Innocence, il doppio album di registrazioni inedite pubblicato da Auand che prova a restituire agli ascoltatori le ultime settimane di vita di Luca, attraverso un lavoro di ricerca sui nastri perduti – come vedremo più che perduti, lasciati nascosti per troppo amore o troppo dolore – e su quei brani che in maniera meno ortodossa, per quanto necessaria, confluirono nello splendido For those I never knew il suo primo disco postumo il cui titolo in fondo raccontava – a posteriori – di un addio ma anche di una speranza: quella di farsi ascoltare anche da tutti coloro che nella vita non avevano incrociato lo sguardo profondo e malinconico di un pianista dotato di una tecnica e di un fraseggio per molti aspetti irripetibili.
For those I never knew uscì nel 1995, pochi mesi dopo il suicidio di Luca. Fu il tentativo di mettere insieme il disco cui Flores stava lavorando nelle settimane immediatamente precedenti alla sua morte. Sul finire dell’ottobre del 1994 Luca aveva, infatti, inviato al suo amico e discografico Peppo Spagnoli una lettera che anticipava il progetto di un disco dedicato alla sua infanzia in Mozambico che avrebbe dovuto chiamarsi proprio Innocence. Insieme a quella lettera c’era una cassetta con 4 brani sui 12 che Luca avrebbe voluto incidere. Innocence nelle intenzioni di Luca doveva essere un disco con percussionisti africani e il sogno di ospitare Miriam Makeba, un sogno perché non c’erano i mezzi né il potere discografico per contattarla; fu così che quel progetto si trasformò in un disco di piano solo. Il 19 marzo del 1995 Luca invia un master con altri 6 pezzi tra cui una delle versioni di How far can you fly? il brano che lo avrebbe consacrato – postumo. Solo dieci giorni dopo, il 29 marzo del 1995 Luca si toglie la vita, uccidendosi nella sua casa di Montevarchi.
L’infanzia in Mozambico, già. Un punto di snodo, un momento nevralgico, una frattura insanabile. È lì che cambia la vita di Luca. Flores era nato a Palermo, il 20 ottobre del 1956. Suo padre, Giovanni, era un geologo e quel lavoro lo aveva e lo avrebbe portato a girare il mondo: Cuba, il Belize, l’Egitto, il Sudafrica, l’Inghilterra e poi Venezia, la Sicilia, Forte dei Marmi e, nel 1959, il Mozambico.
È il 9 ottobre del 1964. Luca è in macchina con la madre e la sorella Barbara, devono andare dal dentista, per Luca. La sera prima – ricorda Barbara – deve essere successo qualcosa, una cosa da bambini ovviamente. Ma la madre di Luca è entrata come ogni sera in camera dei figli e, per punizione, a Luca non ha dato il bacio della buonanotte. La mattina dopo l’atmosfera è forse ancora un po’ tesa, il viaggio è lungo. Una ruota si fora, la macchina sbanda e si ribalta cadendo di lato. Non è un incidente grave, i bambini riporteranno appena pochi graffi. Ma il destino è crudele, la gonna della madre di Luca s’impiglia in una ruota, ha la peggio, batte la testa e la schiena. Quel viaggio a Nelspruit, dopo il confine col Sudafrica, diventa il momento tragico della vita di un’intera famiglia. La mamma di Luca morirà dopo tre giorni di agonia all’ospedale di Lourenço Marques (oggi Maputo).
La vita di Luca però continua – per quanto possibile – in una ritrovata normalità. È in quegli anni che il padre gli compra un piccolo piano Yamaha; Luca improvvisa le sue prime composizioni. Nella prima adolescenza si appassiona al progressive, alle armonie dei Genesis come anche alle incursioni sonore di Emerson, Lake & Palmer. Luca ama, e tanto, anche la musica classica: la maggior parte dei dischi che ha lasciato (oggi donati al Centro studi sul jazz “Arrigo Polillo” di Siena) sono album di Beethoven e Mozart, Chopin e Rachmaninov, Cajkovskij e Stravinskij fino alle sperimentazioni del Quadrivium di Maderna. Ma c’è anche un lavoro diventato ormai leggendario, quel Köln Concert con cui Keith Jarrett, il giovane pianista di Allentown, Pennsylvania, – già alla corte di Miles Davis – nel 1975 gettava le basi per un nuovo approccio all’improvvisazione dal vivo.
Arriviamo al 1978, Luca ha appena ventidue anni, trascrive le partiture dei più grandi – da Bill Evans a Chic Corea, da Bud Powell ad Herbie Hancock. Ma studia e suona più di ogni altro McCoy Tyner – il grande musicista americano nel quartetto di John Coltrane, scomparso pochi giorni fa – sul quale tornerà molto negli ultimi anni della sua vita. Come racconta il batterista Alessandro Fabbri, la caratteristica principale di Luca era «il rigore. Si stagliò tra gli altri fin da subito. Era severo con se stesso e, per questo, il suo rigore era una lezione per tutti. Allora non erano molti i jazzisti che avevano una formazione classica. Su questa base innestava una metodologia di lavoro durissimo. Era insaziabile. E tutti noi abbiamo imparato molto da lui».
Questo è Luca in quegli anni, un ragazzo che, come un’asceta, si dedica alla musica e per il resto assomiglia a un orso ora ombroso ora tenero. Che ogni cosa concede alla sua passione intorno alla quale ruotano amicizie, serate, compagne di vita. Ma iniziano in quel periodo anche i silenzi prolungati, le tristezze che lo attanagliano all’improvviso, i momenti di assenza in mezzo agli altri.
Arriva la prima esibizione importante, all’Umbria Jazz – siamo ormai nel 1985 – e, grazie all’incontro proprio con Peppo Spagnolo e la sua etichetta Splasc(h) che da subito comprende il talento che ha davanti, arrivano anche i primi lavori discografici, Sharp Blues col Matt Jazz Quintet e Riddles con Bruno Marini nel 1986; l’anno successivo è la volta di Where Extremes Meet ancora col Matt Jazz Quintet. Luca sta diventando, nel frattempo, uno dei più apprezzati e ricercati sideman europei (suonerà tra gli altri con Lee Konitz, Dave Holland, Kenny Wheeler e Tony Scott e, ancora, in Italia con Enrico Rava, Paolo Fresu, Tullio De Piscopo).
Ma su tutti in modo particolare inizia un sodalizio dal vivo con Chet Baker, un rapporto – come racconta Nicola Stilo – che andava oltre l’affinità musicale: «Chet Baker, quando ha conosciuto Luca, si è innamorato della persona dolce e gentile, ma col tempo si è appassionato al suo modo di suonare, e posso rischiare di dire che negli ultimi anni, dall’86 all’88, ogni volta che era possibile Chet pretendeva che fosse Luca a suonare con lui».
Nel gennaio del 1987 Luca è anche nel quartetto di un disco leggendario per il jazz italiano ed europeo, quell’Easy to Love a firma dell’immenso e mai dimenticato Massimo Urbani. Tutto sembra andare per il meglio quando, all’improvviso, ogni cosa precipita. È una sera di ottobre, Luca distrugge i mobili del suo appartamento, poi una corsa a perdifiato per arrivare a casa della sorella Barbara, le scale di corsa, la porta che si apre: «Io so chi è il mostro di Firenze. Sono io, io l’ho capito. Sono io. Sono io». È l’inizio di un calvario: Luca entra ed esce dagli ospedali, viene sottoposto all’elettroshock, dimagrisce, ingrassa. L’anno dopo quando Chet Baker, la notte del 13 maggio, cade da una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam, Luca confida all’amico Furio Di Castri di «avere la sensazione di aver mandato con la sua musica dei messaggi subliminali che avessero potuto portare Chet a suicidarsi».
Nonostante tutto, Luca parte per l’America, si ferma a New York, ma è una delusione profonda, eppure resta lì, in un disordine che non sopporta e che si fa, forse, specchio deformato di un’ossessione al controllo di cui ha bisogno per non esplodere. Ma esplodono invece gli eccessi d’ira, viene fuori un’aggressività sconosciuta, finisce in una rissa come era successo già qualche tempo prima a Genova, durante un concerto. Viene denunciato da una donna da cui resta ossessionato dopo averla vista coinvolta – e non è certo difficile capire quali traumi avesse smosso – in un incidente. Sarà il padre a doverlo andare a prendere rendendosi conto di quanto fossero ormai peggiorati i problemi del figlio.
Eppure Luca ha ancora i suoi momenti di grande lucidità e di grande musica. Del 1990 è Sounds and Shades Of Sound che inizia con due splendide rivisitazioni di Luigi Tenco – Averti tra le braccia e soprattutto Angela, dove Luca sfodera un fraseggio che resterà ineguagliabile. Love For Sale del 1993 è l’ultimo grande disco pubblicato in vita. Ma gli ultimi anni di vita saranno per Luca una progressiva e terribile discesa all’inferno. Prende psicofarmaci e si accorge – ed è una scoperta devastante – che ciò che salva, in parte almeno, l’uomo, sta distruggendo il musicista. È una frattura insanabile che porterà Luca a ripetuti gesti di autolesionismo, prima nell’ottobre del 1991 si taglia i polpastrelli e si recide il tendine di una mano. Quindi, secondo uno schema inverso, poco tempo dopo arroventa un cacciavite e se lo infila nell’orecchio: tentare di non fare più musica, cercare di non ascoltarla mai più. C’è una parte di Luca che sembra ormai soccombere a una furia annientatrice e autolesionista, Luca prova a lanciarsi con l’auto da una scarpata, un’altra volta ancora a lanciarsi dall’auto in corsa. Eppure, Luca continua a incidere, a suonare, a portare avanti un percorso di condivisione col pubblico che è poi la storia che si cela dietro ad Innocence.
È così che nasce questo disco, un testamento quasi, che non è tanto il tentativo – impossibile – di realizzare il disco che Luca aveva in mente, quanto la speranza di riuscire a tracciare il percorso a un tempo sereno, amaro, tragico degli ultimi mesi di vita di Luca. Ancora una volta: come fu per My Sweetheart The Drunk di Jeff Buckley – trasformatosi, poi, in uno “Sketches for” – il doppio album Innocence non è solo la necessaria testimonianza del lavoro di un artista ma anche la possibilità di avvicinarsi con silenzio e rispetto al riflesso sonoro di un’anima nei suoi giorni più tormentati anche se – vogliamo immaginare – illuminati da quelle oasi di bellezza legate alla creazione, a un concerto dal vivo, a un rifugio dalle voci che lo strapparono via così giovane.
I due dischi che compongono Innocence raccolgono sedici brani, standard, composizioni originali e different takes dei brani che comparivano sull’album postumo. Ci sono la splendida Max 2 Supersoul di Fabio Turchetti, grandi classici come Work di Thelonious Monk, Stricly Confidential di Bud Powell, Donna Lee di Charlie Parker. Ci sono le alternative takes di ben otto pezzi dei 12 presenti in For those I never Knew – tra cui But not for me di Gershwin – prese dalle session del 19 come di quelle del 1 e del 15 luglio dell’anno precedente. C’è Silent Brother, in una nuova versione intrecciata a una ninna nanna per chitarra che aveva suonato una sera proprio per la figlioletta di suo fratello Paolo.
Come nel resto della sua produzione, anche questo doppio disco sembra riflettere le due anime del musicista. Da una parte – soprattutto negli standard e nei pezzi di altri – emerge in maniera straordinaria la grande capacità musicale di Flores, quel suo stare sui pezzi con tempi assolutamente perfetti, quella leggerezza di tocco, quello swing, quella capacità di tenere insieme un’inclinazione alla libertà jazzistica con la sua solidissima preparazione, sublimate da una naturalezza e un’eleganza innate. Dall’altra – soprattutto nelle alternative takes dei brani editi – è invece quasi possibile tracciare il percorso emotivo dell’uomo Luca in quelle terribili settimane sospese – come in fondo gli ultimi anni di vita – tra i gironi infernali della malattia mentale e radure di incredibili calma e bellezza.
Perché se è vero che è fin troppo facile leggere le alternative takes alla luce di ciò che sappiamo, è evidente fin dalle prime battute della prima take di Ladder (How far can you fly?) come questa versione sia – se possibile – ancora più struggente con Luca che quasi sembra accartocciarsi sulla melodia e su se stesso. C’è tutto un modo differente di proporla, per alcuni aspetti dolorosamente onesto con le note che si allungano, i tempi sospesi, incertezze e leggere imprecisioni; c’è un istante preciso in cui Luca sembra quasi non voler andare avanti come sull’orlo di un precipizio.
Come sottolinea lo stesso fratello Paolo «le diverse false partenze e alcune incertezze nelle esecuzioni sembrano testimoniare l’agitazione di Luca per una decisione che forse aveva già preso».
Kaleidoscopic Beams ci permette di ascoltare Luca che all’inizio e alla fine del pezzo canta con voce incerta «I used to fly through endless dreams / ‘till the clouds covered up my path / kaleidoscopic beams / a guide that you have sent me» e – tesa come una corda tra gli estremi della sua voce – una composizione che amplia e supera quel Kaleidoscopic Stars affidato alla voce di Michelle in For those I never knew.
Broken wing with lush di Beirach/Strayhorn come anche Silent Brother, che chiude il secondo disco, trasmettono invece un’incredibile serenità.
Quel 25 marzo del 1995 Luca Flores se ne andò senza lasciare nemmeno una riga, schivo e riservato com’era sempre stato. Non riusciva più a reggere la malattia, le voci, il tormento di una vita e di una colpa – innocente – consumata in un terribile pomeriggio di così tanti anni prima. Se n’è andato Luca Flores progettando un disco che solo oggi vede davvero la luce, era forse un guardare al suo passato, l’ultimo tentativo di provare a ricucire uno strappo insanabile. Quell’innocenza perduta così presto torna tutta in questi ottantacinque minuti di musica ancora una volta elegante, splendida, onesta. È un regalo per chiunque vorrà ascoltarla, un modo per riconoscere in note che hanno resistito al dolore e alla morte – lontano nel tempo – la voce innocente di un amico andato via troppo presto.