Sulle tracce della poesia infrarealista con Bruno Montané Krebs

No lo sabemos, pero nos pasamos
la vida entera frente al poema.
– Bruno Montané Krebs, El temblor de la solución

Sono passati venticinque anni dalla prima edizione di Los detectives salvajes di Roberto Bolaño, visionario romanzo pubblicato nel 1998 da Editorial Anagrama. Uno di quei libri che si lascia leggere di continuo – di tanto in tanto ci devo piegare dentro la testa. Per l’occasione ripercorriamo il viaggio della generazione infrarealista a cui è dedicata la lettera d’amore di Bolaño, parlando con il poeta Bruno Montané Krebs, che appare nei Detective con il nome Felipe Müller.

Co-fondatore della casa editrice Ediciones Sin Fin, che raccoglie il più vasto catalogo infrarealista al mondo, Bruno Montané Krebs nasce in Cile, a Valparaíso, e dopo il golpe di Pinochet si trasferisce in Messico, dove incontra il gruppo dei poeti infrarealisti narrati nelle tre parti dei Detective Selvaggi. Dopo il periodo messicano, Montané ha voglia di muoversi e decide di spostarsi a Barcellona, città dove anche Bolaño andrà a vivere. Si ritrovano in Spagna, dove stampano riviste di resistenza poetica.

Oggi Bruno Montané vive nel Raval, e da poco ha pubblicato il romanzo Efímera (edito da Contrabando).

Un’antologia di sue poesie in italiano verrà pubblicata presto da Magmata Edizioni (Napoli), con la traduzione di Igor Esposito e la prefazione di Elio Pecora.

Con il poeta cileno ci immergiamo nella gran broma infrarealista, sulle tracce di nomi e luoghi più o meno noti ai lettori selvaggi – il DF, Arturo Belano, Ulises Lima, Cesárea Tinajero, il deserto di Sonora – e arriviamo ai giorni nostri, parliamo di poesia e scrittura. Se c’è una cosa chiara è che con la poesia non si smette, dell’ossessione per le parola scritta non ci si libera. Nei Detective Selvaggi la parola poeta (poeti, ecc) è scritta circa 361 volte. Gli infrarealisti moltiplicano la parola all’infinito.

Bruno Montané Krebs nello scatto di Hilla Schürholz. Il romanzo Efímera

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Quest’anno celebriamo il venticinquesimo anniversario della pubblicazione dei Detective Selvaggi di Roberto Bolaño. Gli anni passano, i lettori continuano ad appassionarsi e ossessionarsi alla storia. Cosa pensi che cerchino nei Detective?

Mi sembra che la voce narrativa di Bolaño sia una voce molto vicina a tantissimi lettori contemporanei. C’è un appello molto diretto per i lettori giovani e anche per i lettori più grandi, ma attenti ai suoi riferimenti letterari e vitali. La sua scrittura è piena di incertezza e orrore, ma anche di umorismo e di una capacità del tutto speciale di commuovere con i gesti d’amore più nudi e, inoltre, offre sempre la promessa e la determinazione del coraggio, della tenacia, di una resistenza molto strana e generosa alla brutalità della vita. Credo che questa voce diretta e fresca parli in modo molto umano alla psiche del cittadino lettore contemporaneo, e sfidi profondamente la sua curiosità e il labirinto della sua coscienza.

Quando hai letto per la prima volta I Detective sapevi che c’eri dentro anche tu, a nome Felipe Müller? E ti ci sei riconosciuto?

Roberto me ne ha parlato in una telefonata. Mi ha detto: “il tuo personaggio si chiama Felipe Müller”. Gli ho risposto: sai che in tedesco Müller significa ‘basurero’ o ‘mugnaio’? Il personaggio è una ricreazione immaginaria al 77% – per non dire un’altra percentuale altrettanto folle – fatta eccezione per due o tre ammiccamenti amichevoli e commoventemente ironici, e tre o due aneddoti. Il mondo delle riproduzioni letterarie è molto misterioso.

Sei stanco di essere associato a Felipe Müller?

Essere stato amico di un genio, senza dubbio, ha il suo prezzo. [Ride].

Hai lasciato il Cile da adolescente, sei mesi dopo il colpo di stato di Pinochet, quando la tua famiglia scelse l’esilio in Messico. Là hai conosciuto i poeti infrarrealisti. Come erano i giorni nel DF e gli incontri visceralisti?

Quando ho conosciuto Roberto in Messico, il grande scherzo infrarealista non aveva ancora cominciato a prendere forma. Mario Santiago e Roberto furono i principali istigatori di quell’avanguardia quasi segreta che praticamente non aveva opere. Infatti, aver scritto o meno una poesia, non aveva importanza; bastava sentirsi poeta, desiderare e voler cambiare il mondo con la pratica della poesia. L’iscrizione dei potenziali membri era rapidissima, l’elezione e l’immediato invito a far parte del gruppo infra sembrava uno scherzo patafisico.

Tu e Roberto eravate entrambi cileni in esilio. Parlavate mai di quello che succedeva in Cile, o di tornarci?

Parlavamo del Cile, ma ci preoccupavamo più di fare un modesto lavoro culturale e di collegarlo all’orrore politico del Cile, pubblicando antologie di giovane poesia cilena. Ci interessava dare una scossa ai giorni con gesti del genere. Abbiamo pensato che questo lavoro, a suo modo, fosse anche un importante atto politico e culturale. Grazie alla generosità di Juan Rejano [un esule spagnolo menzionato nei Detective] abbiamo pubblicato diversi estratti di poesie sul quotidiano El Nacional. Ritornare in Cile era praticamente impossibile, il paese era in piena dittatura e lì non avevamo quasi famiglia.

Roberto Bolaño, Álvaro, Bruno Montané; Atlas de Sonora

Tuo padre era l’archeologo Julio César Montané. È vero che per scrivere del Deserto di Sonora e la terza parte dei Detective Selvaggi, Bolaño si è ispirato anche alla lettura di un libro di tuo padre, l’Atlas de Sonora?

Ho prestato a Roberto una copia dell’Atlas che mio padre aveva coordinato, insieme a un gruppo selezionato dell’INAH, l’istituto di ricerca dove lavorava. È probabile che lo stato di Sonora sia l’unico stato messicano a cui è stato dedicato un libro di mappe con queste caratteristiche. La copia aveva una dedica di mio padre. Roberto mi assicurò che l’Atlante era un documento fondamentale per le ricerche che doveva fare per scrivere il suo romanzo. Dopo essere andato a trovare i miei genitori a Sonora, ho trovato mappe più moderne e opuscoli di ogni genere e, quando sono tornato a Barcellona, glieli ho regalati. Quelle informazioni lo hanno aiutato a entrare in quel territorio immaginario. Roberto non è mai stato a Sonora, ma questa è la cosa meno importante, la sua scrittura era lì.

Tua madre, Helga Krebs, era un’artista, tra le sue opere ci sono anche illustrazioni di libri, come “Chistes parra desorientar a la policía poesía” di Nicanor Parra. Una volta ha detto: “Se non fossi stata una pittrice, sarei stata una poeta”. Insomma, la poesia sta dentro le tue vene.

Lei cita alcune cartoline che ha disegnato in un’opera collettiva dedicata al lavoro di Parra. Mia madre era un’eccellente e brillante pittrice, e anche un’appassionata lettrice di romanzi e poesie. Ebbe anche la volontà di scrivere un libro di poesie intitolato La curvatura de la manzana, che i giovani poeti hanno apprezzato. Ha scritto il libro nell’arco di un anno e mezzo, durante i viaggi che faceva per presentare le sue mostre. I titoli dei suoi quadri hanno riferimenti letterari, titoli ricchi di significato e di un fine umorismo poetico che mi manca.

Nei Detectives… i giovani poeti parlano della poesia come della cosa più importante, un’ossessione. Tu hai mantenuto fede alla poesia in tutti questi anni, e hai continuato a pubblicare versi. Cos’è la poesia per Bruno Montané Krebs? Ci puoi vivere senza?

Sospetto che la poesia sia uno dei modi in cui si può arrivare alla scrittura ed entrare in relazione con forze psichiche che non conosciamo. Penso che la poesia abbia molto di un idioletto psicoemocionalintelectual (occhio a questa parola strana e fusa), la poesia è quel luogo dove il linguaggio comune che tutti parliamo, è capace di proporre e realizzare una visione critica e varia della vita, delle cose belle e di quelle tragiche che ci accadono e sono commesse dagli esseri umani. Nella poesia possiamo fondere la politica, il dolore e l’inconscio, e farli nuotare tutti insieme nello stesso fuoco.

Octavio Paz era davvero il grande nemico dei realisti viscerali?

Giovana, sinceramente, la questione Octavio Paz era davvero l’ultima cosa. [Ride]. Paz, traduttore e saggista migliore che poeta, incarnava l’archetipo del potere politico e culturale. Credevamo che fosse lui il custode della cripta, ma il sistema culturale è senza dubbio molto più complesso. La sua figura era il totem da cui diffidare e che dovevamo attaccare, uno spettro lontano, nascosto tra le figure del potere; tutto questo dal punto di vista di giovani che si interessavano alla poesia e alle tensioni sociali del campo letterario. La leggenda narra che Mario Santiago, il grande poeta dell’Infrarealismo, chiamava telefonicamente Paz nel cuore della notte.

Cesárea Tinajero è ispirata alla poetessa messicana Concha Urquiza, annegata nelle acque di Baja California nel 1945. Nei Detective, Belano e Lima la cercano contro il tempo e l’azzardo. Chi è per te Cesarea?

È la poeta che incarna la vitalità di una vita autenticamente poetica e, soprattutto, le possibilità vitali e più malinconiche, intelligenti e tragiche della poesia. Suppongo che i personaggi di Roberto la cerchino perché incarna un archetipo della totalità creatrice, un pellegrinaggio devoto e moderno. In effetti, quasi tutti i personaggi dei romanzi del mio amico si muovono spinti da quella meravigliosa incertezza. Devo rileggere I detective…

Stilizzazioni dalla rivista «Regreso a la Antártica»

Dopo il Messico. Tuo padre e tua madre restano a Sonora, e tu decidi di andare in Spagna. Cosa ti ha portato a Barcellona?

Nel 1974 lasciammo il Cile e andammo in Messico. Ero giovane e volevo andarmene di casa, quindi dovevo viaggiare più lontano, continuare il viaggio. Nel corso dei successivi 35 anni con i miei genitori abbiamo provato a vederci in diverse occasioni. Ho viaggiato a Sonora innumerevoli volte.

Si narra fossi anche un sassofonista jazz a Barcellona.

Qualche anno dopo essere arrivato a Barcellona ho iniziato a studiare il sassofono e talvolta sono riuscito a guadagnarmi da vivere con la musica suonando musica da ballo, qualcosa di pop-rock e suonando jazz per strada, sempre in modo precario. Il sax è uno degli strumenti essenziali del jazz ed era quello che mi piaceva e dovevo imparare, anche se sapevo già qualcosa di chitarra. Mi piace molto il freejazz, che è uno degli stili più difficili. Ma la verità è che ad oggi rimango un apprendista molto umile della saxofonística.

Nei Detectives, Felipe Müller scrive una lettera a Arturo Belano per dirgli che sua madre sta male e chiamarlo in Spagna. È andata davvero così?

Essenzialmente è andata così. Roberto era ancora in Messico e sua madre viveva già a Barcellona. Lei mi ha chiesto di scrivere a Roberto per incoraggiarlo a venire presto a Barcellona. Sua madre è stata una persona molto importante nella formazione dello scrittore che ammiriamo. Era una grande lettrice, leggeva poesie al niño Roberto, le piacevano i romanzi di fantascienza, e gli preparava anche delle deliziose empanadas che Roberto mangiava con gioia e devozione.

Dal bar Céntrico di calle Tallers, Felipe Müller racconta anche di quella volta che va a visitare Ulises Lima a Parigi e prende la scabbia. Che ricordi hai di Mario Santiago?

Durante quel viaggio a Parigi, Mario si è comportato come un autentico, gentile, disponibile anfitrione. Mentre io e la mia amica di allora eravamo nella sua chambre de bonne, Mario se ne andava a passeggiare tutta la notte per le strade di Parigi e ritornava la mattina presto, con una pagnotta sotto il braccio. Ho sempre detto che la scrittura di Mario emergeva dalle sue passeggiate. Camminava per scrivere Parigi con i suoi passi; in effetti è quello che dicono tutti i suoi amici e lettori, perché sembra evidente provare quella sensazione quando si leggono i suoi versi.

Recentemente Samuel Monsalve, figlio di esuli argentini, ha tradotto in francese Consejos de un discípulo de Marx a un fanático de Heidegger, un’importante poesia di Mario che fu centrale per la formazione dello spirito dei giovani infrarealisti. E presso Ediciones Sin Fin abbiamo appena pubblicato La historia nos absorberá, che è una trascrizione delle poesie che Mario ha scritto su risguardi e risvolti di un libro che raccoglieva la poesia di Orlando Guillén, poeta di Acayucán, Veracruz. L’episodio della scabbia era chiamato: Mario non riusciva a smettere di grattarsi, aveva piaghe alle mani. Siamo andati a fare la doccia in un bagno pubblico, avevamo solo un asciugamano e lo abbiamo condiviso. Equazione perfetta per finire infettati.

Tu e Bolaño tornate a vedervi a Barcellona, esiliati del Raval. Come erano i tempi spagnoli?

Erano tempi di precarietà, di ricerca vitale e di poesia.

Dalla rivista “Rimbaud vuelve a casa”; Montané, Bolaño

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, tu e Bolaño stampavate riviste, come Rimbaud vuelve a casa, o Berthe Trépat, dal nome di un personaggio di Rayuela. Sapevi che oggi cercando online Rimbaud vuelve a casa puoi trovare rari esemplari da 800 euro?

Preferisco non commentare i presunti misteri dell’aumento dei prezzi nel mercato bibliografico, perché dipende dalla stessa inerzia speculativa che esiste in altri mercati. [Ride].
Nella rivista che stampai presso la tipografia di un giornale di Maiorca, vennero pubblicate poesie di Inma Marcos, Darío Galacia, poeta messicano gay, amico degli infrarealisti, autore di un grande libro intitolato La ciencia de la tristeza, che abbiamo anche pubblicato con le Ediciones Sin Fin, e un mio lungo poema di ispirazione utopica e fantascientifica che cercava di trasmettere una miniera d’oro semi-paradisiaca. È una lunga poesia che per il momento dorme il sonno dei giusti e non è stata più pubblicata. Roberto non voleva partecipare a quel numero, che fu l’unico. Se avesse accettato, adesso la rivista costerebbe tre volte di più. [Ride].

Della rivista poetica Berthe Trépat hai detto che il nome è una metafora, l’artista che fa cose per un pubblico inesistente. Un po’ quello che accade con la poesia.

Roberto ha scelto il titolo, che era molto suggestivo e inquietante. La pianista del romanzo di Cortázar era una vera avanguardista, una rara incarnazione o mutazione tra John Cage e Delia Derbyshire. Ai suoi concerti non andava nessuno, solo Horacio Oliveira, il personaggio principale della Rayuela, e altre due o tre persone. La pianista Trépat mostra l’archetipo dell’artista che crea incessantemente e al quale quasi nessuno ascolta o presta attenzione. Hai ragione, la poesia di solito ha questo destino paradossale, anche se poi i testi delle canzoni si ispirano alla poesia o i romanzieri cercano di dare titoli poetici ai loro romanzi. In realtà, quello che chiamiamo poesia è ciò che chiamiamo così quando incontriamo l’ineffabile, l’inesprimibile. I poeti non hanno altra scelta che far parlare la poesia…

Insieme a Ana María Chagra, hai fondato Ediciones Sin Fin, che prende il suo nome da “Sueño sin fin”, poesia di Mario Santiago e primo titolo della casa editrice. Ediciones Sin Fin offre attualmente il maggior catalogo di titoli infrarrealisti. Raccontaci un poco come nasce la casa editrice.

La casa editrice è partita da quel primo titolo di Mario, che in realtà è un libro di testo che abbiamo messo insieme con Roberto, scegliendo i testi scritti da Mario dai libri che gli avevamo prestato, un metodo comune nella scrittura di Mario Santiago. Poi lui ha continuato ad aggiungere nuovi versi al dattiloscritto che gli avevo mandato, ma lo ha fatto anni dopo. L’idea era quella di pubblicare quel primo libro e non sapevamo se l’edizione avrebbe avuto successo, ma vendette bene e poi arrivarono altri libri, molti infrarealisti, ma anche altri del movimento peruviano Hora Zero. Il titolo Sueño sin fin è ispirato a un verso di Samuel Beckett.

Uno dei propositi di Ediciones Sin Fin è quello di editare i testi di Infrarealismo e Hora Zero, due avanguardie un po’ fantasmatiche che, tuttavia, sembrano avere una strana e necessaria validità. La casa editrice ha già compiuto dieci anni di incessante lavoro, editando i testi con cura, supportandoli con buoni e generosi prologhi. È stato un lavoro compensato dalla diffusione della poesia e che siamo riusciti ad autofinanziare, vale a dire “il libro paga il libro”. Per me è stata una grande fortuna collaborare con Ana María Chagra, che possiede una immensa, poetica e talentuosa capacità organizzativa; senza di lei la mia lentezza e dedizione alla cura dei testi sarebbe naufragata nel contesto cannibale dell’editoria. Mi viene voglia di urlare: ¡lunga vita a Sin Fin! [Ride].

Da Ediciones Sin Fin, nuovo libro; Mario Santiago Papasquiaro

Di recente hai pubblicato il romanzo Efímera, che racconta il viaggio di un poeta. Com’è nata la storia e quando hai cominciato a scriverla?

La pubblicazione di Efímera per la casa editrice Contrabando di Valencia è dovuta al recupero di un testo di quasi 20 anni fa. È un esercizio di stile che si basa sull’autobiografia di Rubén Darío, il poeta modernista nicaraguense. Mi interessava il tema perché ci vedevo dentro la traversata, il viaggio raro e appassionato di un giovane poeta verso un paese lontano e strano, dove fugge a causa delle sue esperienze di adolescente ribelle. La voce che narra la vicenda è quella del giovane poeta, che in tutto il romanzo ha cura di analizzare ogni atto, cercando di trasformarlo in un gesto sovrano. Il romanzo, che conta meno di cento pagine, tutte scritte come se fosse un brano di musica da camera, per così dire, mostra un’atmosfera ambigua e suggestivamente inquietante. Il giovane poeta immigrato incontra la gentilezza e l’amore di alcune persone del paese e, allo stesso tempo, la brutalità della realtà sociale e politica. In una maniera differita, è un romanzo-specchio, dove metto in gioco anche le mie esperienze di giovane emigrante. Ci tengo a chiarire che, sebbene sia basato sull’autobiografia di Darío, non è in alcun modo un romanzo storico, è solo un omaggio al viaggio compiuto da un giovane poeta vissuto più di cento anni fa.

Dopo tutti questi anni di smarrimento poetico, tra Cile, Messico, Barcellona, credi che essere poeta sia una difficile benedizione, una maledizione come diceva Baudelaire, o la cosa più bella del mondo?

Quando si scrivono versi si cerca e si spera che questi diventino poesie. C’è la sensazione di essere rimasto invischiato in qualcosa che somiglia in parte a un bellissimo martirio o a un’invenzione che non comprendi appieno, ma che ti interessa risolvere… Altre volte potresti sentirti megalomane ed esagerare la sensazione che tu abbia un ruolo importante nell’esperienza della lingua che tutti condividiamo (l’idioma, la lingua dei paesi apparentemente infiniti che compongono il mondo); tuttavia non è il caso di fare troppe storie. La poesia è un contributo modesto alla complessità della vita e il compito di chi scrive versi è cercare di rendere quei versi buoni e misteriosamente leggibili per tutti; diciamo che la scrittura soddisfa gli stessi scopi dell’atto poetico, che minaccia sempre con il suo essere imperscrutabile [risata enigmatica].

Poesie Bruno Montané Krebs

In una realtà alternativa dove Pinochet non prende a forza il potere, credi che tu, Bolaño, la tua famiglia, tanti esuli, sareste rimasti in Cile?

Chissà cosa sarebbe potuto succedere, davvero. La famiglia di Roberto era già emigrata in Messico per motivi economici. Se Pinochet non avesse compiuto il colpo di stato, appoggiato da Kissinger, personaggio sinistro appena morto, mio padre non avrebbe perso il lavoro e la mia famiglia non sarebbe andata in esilio in Messico. Come dici tu, le cose sarebbero potute andare diversamente e le nostre vite avrebbero potuto essere diverse.

Ho incontrato una foto in rete, ci siete tu, Bolaño e un autore cubano di nome Javier Pedro Zabala, seduti in un bar nel D.F. nel 1975. Si dice che Zabala abbia poi scritto The Mad Patagonian.

Ho cercato su Internet e ho chiesto al mio amico Rubén Medina, poeta e accademico infrarealista negli Stati Uniti, e ho visto che c’è una confusione con quella foto o che qualcuno, presumibilmente un autore americano e forse un ammiratore di Roberto, ha pensato di fare un gioco apocrifo e regalare quel romanzo al presunto Zavala. Non ho letto The Mad Patagonian, ma a quanto pare Zavala non si chiama Zavala e l’attribuzione è dovuta a un’azione apocrifa, forse ispirata ai territori narrativi di Bolaño, scritto, come vi dirò, da un romanziere di nome Ken Johnson.

Quali poeti leggi oggi? Cileni, messicani, spagnoli, dappertutto.

Le liste sono sempre rischiose e seguono l’ispirazione e la memoria di ogni giorno. Ultimamente sto leggendo Miguel Casado, Francisco Ferrer Lerín, Diana Bellessi, perché stiamo pubblicando un suo libro; e Olvido García Valdés, Rosabetty Muñoz, sto rileggendo Baudelaire. Torno a rileggere sempre la poesia di Bolaño, senza la quale, come ricordo sempre ai suoi infiniti lettori, la sua opera non può essere ben compresa…

E quali poeti ti hanno fatto venire voglia di scrivere quando eri bambino?

César Vallejo, Rimbaud, un’antologia di poesia cinese, Saint-John Perse, Vicente Huidobro, Nicanor Parra, i surrealisti (l’antologia realizzata in Argentina da Aldo Pellegrini), Jorge Teillier, Enrique Lihn, Pablo de Rokha. Mi interessava la poesia perché in lei sentivo una libertà e una vertigine nuova e, inoltre, per la possibilità di fare nuove esperienze con la percezione intellettuale e il linguaggio che tutti condividiamo. Ma, come sappiamo, le liste dipendono dall’ispirazione e dalla memoria del giorno e c’è sempre il rischio di essere ingiusti nei confronti di tutte quelle influenze e illuminazioni che non abbiamo nominato.

Dicembre, 2023


I versi di Bruno Montané Krebs sono raccolti in El futuro. Poesía Reunida (1979 – 2016) – Candaya SL

*

Autenticidad

El arte, con su habitual grandilocuencia,
a veces juega a eludir la autenticidad,
quiere convencernos de que otra es su tarea.
Y me digo que todo esto es el trasunto de infinitos
equívocos, desde que Poe y Baudelaire vislumbraron
extraños destellos que asomaban en esa fractura.
Un par de ojos que no sabían si debían o no
sentirse aterrados en medio de la multitud,
las manos vacías, el deseo del sexo,
la dudosa singularidad, los sueños de riqueza,
la ruina de Esparta.
La noche del discurso, la luz que
desciende sobre nuestros sueños.

Esto me recuerda a unos patos mojados,
esto me hace pensar en el lago helado
segundos antes de comenzar a derretirse.
Y me permito imaginar que bajo la luna
ya nada nos faltará; la luna y su fascinante
agujero de luz, la boca iluminada
que desde el cielo nos habla.
Y veo que temblamos y compruebo
que no es el sueño el que duda,
bajo el cielo ahogado por las estrellas
que ya no vemos. Nuestro único terror
es la verdadera desnudez, las manos vacías,
la piel del corazón en el barro
y las futuras cenizas.

Ahora me contradigo, quizá todo
sea inevitablemente fascinante.

*

El cielo

Un cielo al revés, el cielo
de quienes creen que nada tienen,
el cielo más recóndito, aquel que vive
detrás de todas las vallas,
el del barro y los pies mojados,
el de los sapos y las hierbas podridas.
Para él damos el lento trabajo,
las horas comidas a la noche,
el esplendor de los perdidos.
Por ese trabajo escribimos
poemas inútiles y, mientras soñamos,
nos sumergimos en el futuro.

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