A volte l’aura che avvolge un mito diventa magnetica, e non si sfila di dosso. È il caso di una delle band più influenti della storia della musica, quei The Velvet Underground di cui ancora oggi portiamo le cicatrici impresse sul corpo e dentro l’anima. Basta evocare immagini come la New York dei tardi Sessanta, Andy Warhol, la banana, il fascino indiscreto di Nico, la posa di Lou Reed, l’accenno di note di una loro canzone, la mono-maniacalità sonora di John Cale, per riportare alla mente (in pochi particolari) un’intera epopea che si è fatta mitologia.
Il racconto orale dei Velvet Underground continua ancora oggi. Qualche mese fa è stata la volta di Christa Päffgen, e del film dell’italiana Susanna Nicchiarelli che ha scavato nel mito della parabola (già post-Velvet) di Nico (qui l’intervista alla regista). Presto sarà la volta di Todd Haynes (già regista diVelvet Goldmine) alle prese con un film-documentario su quella che lui stesso definisce come “la più radicale e influente rock band del mondo della musica”. I loro dischi – continua Haynes – hanno dato il la a una nuova generazione di musica, che continua a essere influente persino ai giorni nostri. Difficile che non venga in mente – in proposito – la memorabile frase di Brian Eno che racconta come solo 100 persone ai tempi comprarono The Velvet Underground & Nico (l’album della banana), e come ciascuno di quei cento sia poi diventato un critico musicale o un musicista rock.
Forse in quel 1967 il rock divenne definitivamente leggenda. È l’anno che segue l’uscita di Blonde On Blonde, Revolver e Aftermath, ma il suono dei Velvet U ha qualcosa di diverso: è sporco. Basti schiacciare play su Venus in Furs per assaporare l’effetto sporcizia che resta deliziosamente in bocca. Una soffusa aria di devozione al sottosuolo riesce ad avere l’effetto di annientarci, e non è certo un caso che la band cacci fuori un pezzo nichilista come Heroin (che è il primo vero sussulto di quella poetica dell’eroina che sarà lo slowcore). O la catarsi noise di The Black Angel’s Death Song, che ci fa vibrare con le sue parole ossessive e la viola di Cale.
Quest’anno cadono i 50 anni di un altro grande classico come White Light/White Heat, il disco dove la voce di Christa non c’è più, ma lo stile dei nostri resta lo stesso impresso: l’indimenticabile epopea sporca e noise di Sister Ray apre le porte a sonorità ancora più forti, tant’è che Lou Reed ne parla come di primissimo esempio di heavy metal. WL/WH ha soltanto 6 tracce, che si infilano diritte nelle orecchie come aghi.
Le storie cantate da Lou Reed e co., sono sempre devote a raccontare un mondo di emarginati, in cui i personaggi sono visionari, drogati, allucinati, transessuali messi ai margini: i Velvet Underground creano un mondo di perdizioni, non solo al ritmo ossessivo dei loro suoni, ma anche grazie ai racconti che si muovono dentro le canzoni. Si alternano looser e ossessionati, a vere e proprie ballate d’amore (mai banali).
Misurare l’impatto su orecchie e cultura dei VU non è certo facile, perché da leggendario mito di nicchia i Velvet U sono poi riusciti a entrare dentro la cultura popolare di ogni casa, sotto forma di dischi, disegni, vecchie fotografie, muri della memoria, poster, canzoni, personaggi, concerti, evocazioni, chitarre elettriche che facevano il verso a quei suoni, e un’intero immaginario estetico che fa della giacca di pelle di Lou Reed il suo epicentro.
Certo, scoprire che Moe Tucker negli anni abbia flirtato un po’ con il Tea Party americano, stona un poco con quell’epopea lontana. Dei membri originali della band lei è l’unica sopravvisuta insieme a John Cale, con cui ha recentemente suonato dal vivo I’m Waiting for the Man in occasione di uno show Usa. Cale è inoltre l’unico che continua a portare in giro i successi dei VU, come lo scorso anno in occasione del tour in memoria dei 50 anni di The VU&Nico.
La prima ad andarsene è stata Nico, con un incidente in bicicletta a Ibiza nel lontano ’88. Poi Sterling Morrison nei Novanta, per un cancro. E infine quella faccia da stronzo imperfetto di Lou Reed, che ci ha lasciato proprio qualche anno fa per complicazioni dopo un trapianto al fegato. È stato lui il cantore e poeta oscuro di un’intera generazione di emarginati che ha trovato il suo riscatto e la sua breve salvezza nella parole di Reed.
Lui, che negli ultimi anni era diventato la parodia di se stesso anche sul palco, è stato la voce di un’America più nascosta, ha dato parola alle nostre private ossessioni e ai sogni deviati, ci ha mostrato che l’uomo non è solo la piccola parte di compromessi con cui scende nel vivere in società. Lou Reed continuerà a narrare il delirio urbano nelle storie dei suoi dischi solisti, dalla Vicious di Transformer alla delirante coppia di amanti che si rincorre per le strade di Berlino in Berlin. Ma siamo già a un’altra storia.
“Ero interessato a scrivere il Grande Romanzo Americano, e volevo usare le canzoni rock&roll come un veicolo”, così raccontava Lou Reed degli inizi con i Velvet Underground. Da un lato la Summer of Love della costa Ovest, dall’altro i deliri urbani dell’apocalittica New York più a Est. Gli hippies e i disordinati folli, proprio durante anni in cui gli Usa vivevano squilibri e contraddizioni, tra collezioni di proteste messe in ombra dalle pallottole e da omicidi storici come quelli di Bob Kennedy e Martin Luther King. Il Grande Romanzo Americano si combatteva direttamente sulle strade, e si lasciava assaporare insieme alle pagine di certi racconti di Richard Wright sull’epopea maledetta dei Negros. (- che forse sono tra i più “dimenticati” nell’indimenticabile collezione di personaggi di Lou Reed)
Indimenticabili Velvet Underground, dicevamo. Non solo perché i loro album continuano a suonare a distanza di un mezzo secolo come vere proteste sonore dentro le nostre orecchie disgraziate. Non solo perché le loro canzoni le ritroviamo nei bar di città a far da sfondo alle nostre giornate e serate insieme ai successi pop delle star internazionali contemporanee. Ma perché i grandi tributi che continuano a susseguirsi per raccontare quella band e quel momento, ci ricordano che c’è qualcosa di quella graffiante storia anche dentro la nostra – di storia. E non è soltanto la coolness di Lou Reed e compagnia, non è soltanto l’immaginario di una New York violenta, urbana, viva e curiosa, ma è la ruggine – vera – delle strade, i dimenticati in cerca di pace, le folli notti urbane nelle città contemporanee, la rivolta straziante in forma di chitarra allucinata.
È per questo – e anche per questo – che Todd Haynes dedicherà un film-documentario ai Velvet Underground. Perché loro sono ancora in mezzo a noi. Popolano la nostra musica e il nostro presente. E anche se non ci sono molte foto in giro dei Velvet Underground (se si fa l’eccezione di quelle pubblicate recentemente dal NYTimes), tutte hanno contribuito a quell’immaginario di tempo e spazio che li fa sentire ancora presenti. Una cattedrale popolata di immagini che si muove a distanza.
Tra le immagini post-Velvet che evocano più da vicino i Velvet Underground ci sono quelle del 1972: il concerto al Bataclan di Parigi che fa tornare sul palco insieme Lou Reed, John Cale e Nico.
Nico ha perduto la sua chioma bionda ed è scura, Lou Reed vede i suoi ricci crescere vorticosamente, John Cale ha la solita posa statuaria. Tutti i tre condividono insieme il palco, le luci e le ombre di quel palco, e le dissonanze di una vita che ha i suoi alti e i suoi bassi, storie d’amicizia, d’amore, sesso, incroci e incontri. Sono lì per dirci che – nonostante tutto – si può fare ancora fare musica insieme. Che i piccoli dissidi sono superabili, e che quello che resterà un giorno – e lo sanno benissimo tutti e tre – sono le canzoni dei Velvet Underground, quelle che cantano e suonano ancora insieme sullo stesso palco, per una sera.
Dovevano essere terribilmente consapevoli di come quella serata sarebbe stata magica, e sarebbe entrata diritta nella collezione che ancora ravviva quell’immaginario. Meno memorabile – forse – la breve reunion del 1993 (o MCMXCIII – come han preferito dir loro), anche se quel tour fu davvero l’ultimo dei Velvet Underground (quasi) al completo. Però quelle facce e quei suoni sporchi, quelli sì – ce li portiamo dietro.