E anche se tutto è appena iniziato, solo dalla fine riesci a ripartire. Solo dopo ti rendi conto di quello che hai passato e vissuto. E così tutto si mescola insieme, a quando è iniziato e a quanto hai appena trascorso. Arriviamo che i componenti della Abbey Town Jazz Orchestra si stanno schiarendo la gola, ce ne andiamo quando Godblesscomputers spegne i suoi beat e qualcuno ci dice che sta chiudendo l’arena. In mezzo tutto il resto che si riempe di ciò che siamo stati e di quello che abbiamo vissuto, come sempre. Quello che c’è stato e quello che racconteremo, tutto dentro le storie personali che ognuno si porterà a letto con sé. Inizia molto presto questo Indiependence Day, che apre la prima edizione del Flowers Festival, sono solo le sette e qualcuno chiama già alle armi e, noi, colpevoli, arriviamo soltanto più tardi. Il sole che già tramonta, giusto il tempo per sistemarci fra le tante maschere sopra le teste, che Davide Toffolo intona la prima canzone. La banda suona, sembra di essere in altri tempi, qualcuno storce la bocca – questi non sono i veri Tarm – ti sembra vederli dire da lontano, lasciandosi prendere dalle sonorità di altri anni, perché nessuno ha detto che lo swing non sia abbastanza punk per celebrare una storia che è nata ancora prima di te o a cui sei arrivato quasi per caso, come vanno sempre queste cose. Sono tanti i cambi di palco e di protagonisti, il sax si prende la sua parte, i fiati che vincono la sfida delle corde, e tutto è un ritorno a casa, perché le parole possono cambiare tonalità ma quello che ti ricordano è difficile che si trasformi. È una versione del tutto nuova, che puoi avere ascoltato da solo, ma live ti sorride quanto ti allontana. Insieme all’orchestra sale sul palco anche Maria Antonietta, che un po’ sente quella pressione del mondo prima di Elvis, ma dura soltanto un attimo perché poi arriva anche Luca Masseroni alla batteria, col suo modo personale di sfruttare lo swing, e dopo di lui Enrico Molteni a ricomporre il trio tradizionale e al jazz e allo swing si torna al sound che conoscevano tutti. C’è tempo per una chitarra solista e per i cori famigliari a chi li frequenta da tempo finché il ritorno dell’orchestra non sancisce la fine della loro esibizione. Giusto il tempo di tornare dal bar e quello per montare i nuovi strumenti e l’ambiente si modifica di nuovo.
Tocca agli Aucan, mentre le tante famiglie tornano a casa, gli anni passano per tutti, l’appartenenza no. Cambiano i visi, cambia il modo di muoversi, si fa più duro per le ossa e per il ritmo, sempre radicale, del trio bresciano che presenta alcuni brani del suo nuovo album. Forse è l’età, forse sono le influenze, ma capisci che il Flowers è appena cominciato. Mani alle transenne, lasciare quello spazio vuoto davanti a loro ti sembra una cosa da evitare con tutto te stesso, chiudi gli occhi e ti lasci buttare dentro tutti quei bassi che ti fanno vibrare lo sterno, al di là dei problemi di acustica, delle casse e delle orecchie che senti già fischiare. È un cambio radicale che ti sorprende e che ti costringe a muoverti, il loro, diverso dalle precedenti esperienze per cui si erano fatti conoscere, una nuova traccia sul cammino di una delle band che forse meriterebbero più di chi è rimasto. Le luci basse, il clima cupo e la musica che segue la direzione che vogliono fargli prendere, una
La prima notte del Flowers si chiude qui, dopo qualche parola scambiata con i suoi protagonisti, credendo che chi non c’era avesse davvero degli impegni irrinunciabili, perché quello a cui hai assistito superava di gran lunga la festa di un’etichetta, e raggiungeva al cuore le famiglie con i passeggini e le costole disegnate sulle magliette come quello di chi ci si è trovato lì perché la sua storia se la deve ancora scrivere.