Lo scrittore Jonathan Coe, invitato dalla storica casa editrice Feltrinelli, ha presentato, presso i locali parmensi di quest’ultima, il suo romanzo fresco di stampa “Expo 58”. L’orario fissato alle 19:00, come da aperitivo, è perfetto per attirare giovani e meno giovani nell’angolo ristoro creato appositamente per soddisfare i palati dei “sofisticati” lettori. Se negli Starbucks le persone si danno un tono sorseggiando ettolitri di caffè davanti ad un MacBook come se stessero per sfornare il nuovo Nobel per la letteratura, qui lo si fa leggendo un libro di Baricco e al contempo mangiando biscotti prodotti artigianalmente in comuni sconosciuti nel cuore delle Marche. Come ogni evento che si rispetti, all’orario prestabilito non succede assolutamente nulla se non gli ultimi arrivati che si affannano nel cercare un posto libero, ovviamente in piedi. La sala è piena al punto giusto da non esserci più tanto spazio per i ritardatari ma abbastanza per non sentirsi soffocati ed accalcati.
Una decina di minuti d’attesa ed ecco che una carovana composta da Coe, moderatore della serata e traduttrice attraversa la sala per raggiungere la postazione principale e scatena l’applauso di una folla eterogenea, riproposizione in scala dell’ampio ventaglio dei suoi lettori. Iniziano così le presentazioni di rito e gli elogi verso la città ospitante mentre i fotografi di turno si sbarazzano in pochi minuti del da farsi. Neanche fosse un concerto che spuntano subito smartphone e tablet, tant’è che anche Coe tira fuori del suo “minacciandoci” tutti di farci comparire su tutti i più noti social network. Dopo il simpatico siparietto inizia la presentazione, accompagnata dalle domande sottotono del moderatore. Coe si avvia riferendosi all’edificio che compare sul libro e che fu costruito a Bruxelles proprio in occasione dell’Expo del ’58, l’Atomiun e sottolineando la stranezza, per lui, di un’ispirazione per il nuovo romanzo derivata non da persone o interazioni umane ma da un’opera architettonica. Scrivere sul com’è essere inglesi rispetto al resto d’Europa era un’idea che vagabondava nella sua testa da anni e l’ispirazione propizia arrivò quando fu invitato per un’intervista da un giornalista belga proprio presso l’Atomiun. Tra sfere lucenti e scale mobili ebbe la sua folgorazione in un misto di commozione, dovuta dall’idea dell’Expo del ’58 e della struttura costruita in proposito come di grande speranza verso il futuro, e di nostalgia nata dalle rughe dovute al tempo che comunque la struttura mostrava.
L’interesse si sposta poi sul doppio binario costituito dalle vicende storiche e dalle vicende del romanzo che si intrecciano in uno dei temi del libro nonché caratteristica del personaggio principale, la speranza che le tecnologie possano risolvere ogni tipo di problema; la stessa speranza che oggi, dopo oltre 50 anni, non viene più mantenuta. Coe racconta che è la prima volta che tratta di un’epoca precedente al suo vissuto, seppur di solo 3 anni anteriore alla sua nascita. Il ’58 narrato nel romanzo è un’epoca frutto di una fantasia ricreata attraverso film, libri e musica. Un’idea sì fantastica rispetto alla realtà ma in fondo nulla di diverso rispetto ad ogni romanzo storico che necessariamente si snoda attraverso gli occhi dell’autore. Un tempo poi in realtà non così lontano da lui che ha potuto così rivivere attraverso le esperienze ed i racconti dei genitori, anche loro intrisi di una fiducia sfegatata verso una tecnologia in grado di assistere completamente l’uomo senza la benché minima previsione di possibili effetti collaterali. Il padre in primis, ricercatore durante gli anni ‘40-’50 in campo nucleare, spinto da un forte credo iniziale verso la materia oggetto dei suoi studi si dovette poi ricredere e spostare i suoi interessi e studi verso mezzi alternativi. Ed è al padre, scomparso quest’anno, che ha dedicato il suo romanzo. Attraverso i binari discorsivi del moderatore Coe rivela poi che i toni del romanzo non sono stati decisi a tavolino ma si sono semplicemente palesati ad un certo punto. In principio immaginava un romanzo solenne e serio dovendo trattare di temi quali la diplomazia e la guerra fredda, se non fosse che, dopo le ricerche documentali sull’aiuto della Gran Bretagna nell’organizzazione dell’Expo e su cosa intendessero fare nel padiglione inglese, le cose sono cambiate considerevolmente. Coe, infatti, aveva trovato ridicola ed esilarante l’opera di pianificazione dell’immagine che si pensò dare dell’Inghilterra, ed è stata questa a dare il via all’impronta del suo romanzo. Uno tra gli altri accadimenti che aveva trovato particolarmente esilaranti fu quando, durante le decisioni sul simbolo da adottare, si pensò al WC in quanto ritenuto uno dei contributi maggiori dell’Inghilterra al mondo. La proposta fu bocciata dal presidente del comitato organizzativo ma non in modo secco come ci si aspetterebbe ma definendo semplicemente l’idea del WC come un atteggiamento capriccioso. Furono proprio i verbali delle riunioni sull’organizzazione dell’Expo pieni di detti e non detti e giri di parole, a divertire particolarmente Coe: l’immagine di un gruppo di britannici abbastanza ridicoli e pieni della loro compostezza che si ritrovarono a dover organizzare un’opera immensa. Un tono del romanzo nato dalle viscere del suo io e mantenuto, nonostante le paure circa eventuali critiche, così da rimanere fedele ai suoi autori di riferimento come Fielding e Cervantes.
L’attenzione poi si sposta sul protagonista che possiede tutti i caratteri tipici dell’inglese medio frutto di una Londra grigia appena uscita dalla catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. Proprio la caratterizzazione del protagonista ha portato Coe a non cedere alla tentazione di rendere introspettivi i suoi personaggi perché non era tipico dell’inglese medio del tempo interrogarsi su se stesso e sui propri sentimenti. Questo poi non vuol dire che siano un popolo privo di sentimenti o non emotivo ma semplicemente non abituato a fare questo. Ora secondo Coe non è più così nell’Inghilterra contemporanea ed un potente spartiacque fu per i britannici la morte nel ’97 di Lady Diana.
Finite le domande interessanti si passa con il domandare allo scrittore le proprie riflessioni sul fenomeno Bunga Bunga, cosa che, in puro stile inglese politically correct, Coe dribbla senza problemi. Poi si mostra come una persona molto riflessiva, che spende la maggior parte del tempo prima della stesura del libro a documentarsi e a creare schemi e pilastri mentali che lo aiuteranno poi nella messa in opera vera e propria, insomma ci si ritrova davanti ad un uomo profondamente pesato e non ad un veterano dell’istinto. Un uomo che pur essendo rimasto travolto, come tutti, dal progresso tecnologico e da tutte le sue implicazioni, non perde ottimismo e speranza nell’editoria e nell’idea che il piacere di sfogliare le pagine di un buon libro difficilmente potrà sparire nel nulla. Alla ragazza che chiede consigli per le nuove leve della scrittura, Coe risponde non rispondendo in realtà, ma questo poco le importa, ovviamente, perché vira omaggiando la sua t-shirt dei The Smiths.
L’ultimo quesito che chiude l’incontro, diretto a conoscere eventuali trasposizioni cinematografiche del libro, lascia aperti degli spiragli per gli amanti del genere. Difatti è già stata redatta una sceneggiatura a più mani, con lo stesso ausilio di Coe, ma le perplessità comunque rimangono ed interessano l’aspetto finanziario, in quanto risulterebbe particolarmente onerosa la ricostruzione della scenografia dell’intero Expo del 1958.
Tra i plausi termina così l’incontro con lo scrittore, incontro in scala di grigi che offre quanto più si potesse chiedere alla contenuta sobrietà inglese di cui Coe, cogliendola con un occhio critico, offre un meraviglioso esempio.