Il festival I Boreali nasce da un’idea di Iperborea, e si tratta del più grande festival italiano dedicato alla cultura nordeuropea: dal 2015 a Milano e in tutta Italia si incontrano i grandi nomi della cultura nordica (non solo letteratura ma anche cinema, musica, attualità, arte). L’edizione numero cinque del Nordic Festival – I Boreali la trovate a Milano dal 21 al 24 Febbraio, per quattro giorni al Teatro Franco Parenti, e ci trovate tra gli sponsor tecnici dell’evento.
Abbiamo letto qualche libro degli autori a cui saranno dedicati gli incontri al festival: qui vi raccontiamo perché vale la pena fare un giro a I Boreali, ma anche leggere i libri. Che l’immersione nel Nord abbia inizio.
La lettera di Gertrud, Björn Larsson
Oltre che dalla banalità del male, bisognerebbe guardarsi dalla banalità delle associazioni di idee. Bianco = Buono, Nero = Cattivo, ad esempio, sono non solo semplificazioni potenzialmente pericolose ma, soprattutto, presupposti di riflessione eccessivamente elementari e persino erronei. E ciò nonostante, una delle associazioni più immediate fatte in Italia, come in altre parti del mondo, è la seguente: Svezia = Ikea. Idea spiccia (certo!), miope e sciocca (ma ovvio!) eppure, leggendo La lettera di Gertrud di Björn Larsson, una piccola parte del cervello non può fare a meno di associare questo libro a un mobile Ikea. Solo perché l’autore è svedese? No di certo. Né il paragone va interpretato in senso negativo, tutt’altro. Il fatto è che, come un oggetto Ikea, La lettera di Gertrud si presenta con una forma semplice, immediata, utilitaristica ma non per questo priva di una misurata attenzione estetica. La narrazione procede piana, consequenziale: Martin Brenner, affermato genetista, si trova a disperdere al vento le ceneri della madre Maria, appena defunta. Con lui c’è soltanto la sua famiglia, il suo piccolo mondo pressoché perfetto composto dalla moglie Cristina e dalla figlia Sara. La vita di Martin si è sempre svolta con una relativa tranquillità, tranquillità che nemmeno la scomparsa della madre sembra avere più di tanto scalfito. Questo almeno fino a che, alcuni giorni dopo il funerale, l’avvocato Levin lo contatta per esaudire l’ultima volontà della madre, ossia rivelare al figlio la sua vera identità a lungo nascosta. Maria, in realtà, si chiamava Gertrud, ed era una sopravvissuta alla Shoah. Aveva concepito Martin con un altro reduce dell’Olocausto, e si era poi unita in seconde, brevi e travagliate nozze al figlio di un ricco industriale, rivelatosi dopo poco tempo uno xenofobo, razzista e antisemita. Maria/Gertrud si era così rintanata in sé, dedicandosi unicamente al figlio e nascondendo, a lui e a se stessa, il loro essere ebrei. Il tutto, pare, per tutelare Martin, per lasciarlo libero di scegliere autonomamente chi e cosa essere, senza imporgli senza possibilità di appello un’etichetta: quella di ebreo. La rivelazione avviene quando ormai lei non c’è più, quando lui è un affermato e lucido scienziato cinquantenne che quindi dovrebbe avere la maturità per potersi autodefinire, per scegliere con indipendenza se auto-etichettarsi o meno. Ma questa rivelazione, fatta quando meno avrebbe dovuto turbare Martin, finisce in realtà per scavare dentro di lui con il logorio di una goccia, sconvolgendo la sua esistenza. Cosa comporta, in termini concreti, l’etichetta “ebreo”? Siamo veramente liberi di scegliere ciò che siamo? Possiamo effettivamente accogliere o rifiutare le etichette che il mondo vuole imporre? In ultima analisi, chi siamo noi, ciò che noi stessi vogliamo, o ciò che qualcosa di esterno, un nome, una religione, una sequenza di geni, ci impone di essere? Con la sua scrittura piana e lineare come la superficie di un Billy o di un Mörbylånga, Larsson ci trascina nell’intricata profondità dell’animo umano, dimostrando l’assurdità delle banali associazioni di idee. Semplice = superficiale? In Svezia, assolutamente no.
a cura di Stefano Peradotto
Sarà proprio Björn Larsson a inaugurare il Festival “I Boreali”, presentando La lettera di Gertrud giovedì 21 febbraio presso la Sala Testori del Teatro Franco Parenti.
1947, Elisabeth Åsbrink
L’anno in cui tutto era già successo. Così Elizabeth Åsbrink definisce il 1947, l’anno che dà il titolo al suo libro e che la scrittrice e giornalista svedese ridefinisce non più come anno di transizione, ma protagonista cruciale delle sue parole–scopriremo anche della sua vita–e della storia del mondo così come lo conosciamo adesso. A due anni dalla Seconda Guerra Mondiale, ogni nazione ha le sue macerie da ricostruire e le sue colpe da espiare. In Europa aleggia ancora il fantasma del nazismo: nasce la prima corrente di negazionismo, ma anche una parola che adesso riconosciamo come crimine contro l’umanità, il genocidio, che ha lasciato gli ebrei sopravvissuti disperati e con la determinata voglia di fuggire verso “casa”. Nel 1947 si inizia infatti a parlare di Israele (che nascerà l’anno successivo) mentre l’impero coloniale inglese inizia a sfaldarsi: ad agosto, infatti, l’India e Pakistan ottengono l’indipendenza. Tutto era già successo, e tutto poteva ancora succedere. Ma nel 1947 non si parla solo di crisi, ma anche di rinascita culturale: si comincia a trattare di diritti, di musica e di arte. George Orwell scrive 1984, Christian Dior seduce con le sue sfilate, il giornalista di jazz Bill Gottlieb incontra per la prima volta Thelonius Monk a New York.Elisabeth Åsbrink tratteggia con un ritmo incalzante gli eventi di un anno, in un saggio organizzato in tanti capitoli quanti i mesi che lo compongono, in cui si saltella da un luogo all’altro del pianeta senza per questo perdere in coinvolgimento. Grandi eventi e cose all’apparenza piccola si intrecciano a formare la storia del nostro tempo e quindi di ognuno di noi; scopriamo che la storia del 1947 è anche la storia della famiglia della Åsbrink, raccontata nel commovente intramezzo “I giorni la morte”. Ed è impossibile non riconoscere negli avvenimenti qualcosa di determinante anche per le nostre vita.
Vi dico il mio: nel 1947 Simone de Beauvoir inizia a scrivere Il secondo sesso.
a cura di Martina Neglia
Naif.Super, Erlend Loe
Ci sono momenti cruciali nella vita: uno di questi è sicuramente il giro di boa dei venticinque, quando non sei più così giovane ma neanche tanto adulto e la società si aspetta tu abbia quanto meno trovato una direzione verso la quale guardare. Trovare il proprio posto nel mondo non è mai stata cosa facile, soprattutto nella precarietà degli ultimi decenni. Lo sa e sente bene l’anonimo protagonista di Naif.Super, libro dello scrittore norvegese Erlend Loe arrivato per la prima volta in Italia grazie a Feltrinelli e poi ripubblicato da Iperborea. All’età di ventiquattro anni e a un anno dalla conclusione degli studi universitari, il nostro protagonista decide di mollare tutto e di andare a vivere a casa del fratello, in quel momento in viaggio negli Stati Uniti. In quella casa prova a trovare e ridarsi un senso. Il libro si articola infatti in brevi capitoli, in cui piccole cose fanno scaturire riflessioni, ricordi del passato; anche le conversazioni che il giovane ha con Børre, bambino incontrato per caso. Il protagonista stila spesso delle liste, riconoscendo quello che sa, quello che gli piace, quasi a rimettere ordine dentro sé stesso. Sono tanti i pensieri che Loe gli fa esprimere, tra malinconia, incertezza ma anche quel sano spirito da non perdere mai. Si sorride infatti in modo sano, in un’altalena di sensazioni che ci restituisce la condizione di una generazione alle prese col tempo e il futuro. Anche se:
“Il mio tempo non è uguale al tuo tempo. I nostri tempi non sono uguali. Tu hai il tuo tempo e io ho il mio. I nostri istanti non sono uguali. E sai cosa significa? Significa che il tempo non esiste. Devo ripeterlo? Il tempo non esiste. Esiste la vita e la morte. Esistono gli uomini e gli animali. I nostri pensieri esistono. E il mondo. L’universo anche. Ma non esiste nessun tempo. Puoi star tranquillo. Ti senti meglio adesso? Io mi sento meglio. Andrà tutto bene. Buona giornata.”
a cura di Martina Neglia
L’ora di Agathe, Anne Catherine Bomann
Mancano soltanto cinque mesi alla pensione quando nella vita di un anziano psicanalista arriva all’improvviso Agathe, una giovane paziente che pretende di sedersi di fronte a lui e raccontare la propria storia. L’incontro con la ragazza di origine tedesca avviene proprio nel momento in cui lo psicanalista, ormai stanco di continuare a esercitare una professione spesso troppo ingombrante, si stava arrendendo al fatto che non avrebbe più dovuto ascoltare le vite ingarbugliate degli altri. Siamo negli anni Quaranta in una cittadina vicino a Parigi, dove il tempo sembra scorrere sempre nello stesso modo, mai troppo veloce, ma neanche troppo lento e la routine permea ogni azione degli abitanti della provincia. Agathe, però, mette fine alla noia di cui si nutre lo specialista settantenne ed è così che medico e paziente si scoprono per certi versi più simili di quanto avrebbero mai immaginato. Il male di vivere li accomuna, ma non c’è disperazione o lamento in questa scoperta, è soltanto una storia che necessità di un luogo dove essere raccontata. L’ora di Agathe è il primo romanzo della poetessa, psicologa e campionessa di ping pong danese, Anne Catherine Bomann che con estrema leggerezza spiega, pagina dopo pagina, quanto siano inaspettate le direzioni che può prendere un rapporto umano. Non ci sono ruoli a definire i personaggi, perché lentamente si sgretolano i confini, senza mai cadere, però, nel patetico o fuori dall’etica professionale. Una storia per sentirsi più vicini agli altri e meno soli, anche quando le certezze dettate dallo scorrere del tempo sembrano bastoni che si frappongono tra l’inizio e la fine di un mondo.
a cura di Ilaria Del Boca