La storia dei movimenti e dei cambiamenti a cui portano è fatta di azioni collettive, alleanze, comunione di intenti e di ideali. È anche vero però che ciò che fa traboccare uno stato sociale problematico e ingiusto è spesso – come da modo di dire –una goccia; l’azione di persone singole che finiscono per farsi ariete contro le porte del potere e motori di qualcosa di diverso. Rientra sicuramente in questo caso l’esperienza della giornalista giapponese Shiori Ito, che abbiamo modo di leggere in Black Box, libro testimonianza in cui con rigore e profonda accuratezza ricostruisce la storia del suo stupro e ciò che ne è seguito.
È il 2015 infatti quando una sera Shiori Ito viene portata in stato di incoscienza in un albergo e stuprata da Noriyuki Yamaguchi, superiore che aveva incontrato per motivi lavorativi. A distanza di due anni, dopo un periodo di profondo dolore e di crisi, non aiutata da un sistema sanitario e giudiziario giapponese poco favorevole alle denunce di violenza sessuale, Ito inizia la sua battaglia a volto scoperto contro Yamaguchi e contro tutta una società che sistematicamente tiene da parte le donne, le silenzia, mantenendo un inaccettabile squilibrio di potere tra i generi.
Il polso con cui Ito è riuscita a gestire tutti i non facili avvenimenti successivi è presente anche nel suo testo, così come la sua formazione da giornalista. Black Box non ha infatti una lingua particolarmente letteraria, né ha guizzi retorici. È invece una ricostruzione attenta di ciò che è stata la sua vita prima del “giorno in cui l’hanno uccisa”, delle dinamiche della violenza, di tutto ciò che è venuto dopo, per mettere in luce le conseguenze psicologiche di uno stupro, ma soprattutto evidenziare tutte le falle di una società incapace di supportare quanto dovrebbe.
Black Box è inoltre un libro anche denso di informazioni. Ito dedica, per esempio, un intero capitolo alle percentuali molto basse di donne che denunciano in Giappone, provando a rintracciarne le motivazioni alla base. Fa spesso chiarezza sullo stato giuridico giapponese in merito alla violenza sessuale e alle procedure a cui si va incontro negli uffici di polizia – come il cosiddetto second rape, in cui si è costrette a mimare la dinamica dello stupro subito –, fornendo quindi un quadro dettagliato del contesto in cui si muovono le donne giapponesi.
Il volume in traduzione italiana è inoltre arricchito dalla prefazione della giornalista Alessia Cerantola, che ha avuto modo di incontrare Ito dopo i fatti, e dalla postfazione del professore Giorgio Fabio Colombo, che realizza una guida minima al diritto penale e processuale giapponese.
Ho avuto modo di chiacchierare di tutto questo con le creatrici della nuova realtà editorale Inari Books, Marianna Zanetta e Asuka Ozumi, che è anche la traduttrice del volume.
Martina Neglia: Come è iniziata la vostra collaborazione e cosa vi ha spinto a creare il progetto Inari Books?
Marianna Zanetta: Inari è nata come libreria e associazione nel 2017, come posto per contribuire a diffondere la cultura giapponese e asiatica, e quindi colmare un vuoto che esisteva a livello locale. Abbiamo cercato di trovare di trovare persone radicate sul territorio, tra cui Asuka che era la mia insegnante di giapponese. All’inizio creando soprattutto eventi, presentazioni di libri, in sede; man mano questa collaborazione si è aperta a corsi di varia natura fino a quando abbiamo realizzato che poteva essere interessante solidificarla ancora di più e passare dalla presentazione di contenuti alla creazione degli stessi.
Asuka Ozumi: Uno degli obiettivi per Inari era anche quello di diventare un luogo di aggregazione per persone appassionate di cultura giapponese e asiatica, e lo è diventato. Soprattutto su scala locale, ma adesso con lo spostamento online di molte attività, causa lockdown, partecipano persone da tutta Italia, vedi l’esperienza del bookclub.
M.N.: In che modo siete legate al Giappone?
M.Z.: Io sono nata come appassionata di manga da ragazzina, poi ho fatto un po’ di lavoro come illustratrice, ma la vera passione è arrivata con il mio progetto di dottorato in antropologia che mi ha permesso di vivere là per un po’ e conoscere meglio certe dinamiche. È stato un po’ un passaggio iniziatico, che mi ha tolto un po’ di aspetti romanzati del Giappone, lasciandomi una realtà più concreta, senza però intaccare l’amore che anzi si è consolidato.
Il mio era un progetto di dottorato in antropologia religiosa e sciamanismo femminile nel Giappone del nord – da cui è poi nato il primo progetto embrionale di Inari: Tra canti e montagne.
A.O.: Io invece sono giapponese di seconda generazione. Sono nata in Italia, ho sempre frequentato le scuole qui, però a un certo punto sono voluta andare a recuperare parte della mia eredità culturale. Ho fatto un percorso accademico inerente al Giappone e in particolare alla lingua – il mio è stato quindi un interesse inevitabile.
A differenza di Marianna, io non nasco come appassionata di manga, ma ci sono arrivata in un secondo momento. La mia attività principale è infatti legata all’editoria del manga, tra traduzioni e curatela di collane editoriali.
M.N.: In cosa si articolano le vostre attività?
M.Z.: Come Inari, in senso molto ampio, quindi compreso Inari Books, le attività principali sono la libreria – che al momento è un po’ più consegna libri a domicilio a causa del covid. Però per me il cuore di Inari sono gli eventi: bookclub, corsi di lingua, corsi di storia, religione ecc. Il nostro è proprio un tentativo di portare una realtà un po’ lontana dagli stereotipi.
A.O.: Questo è quello che ci anima e ci guida anche nella scelta di libri che per esempio scegliamo di leggere nel gruppo di lettura.
M.N.: Da persona che ha vissuto lì, anche se davvero molti anni fa, penso che sia spesso un’immagine stereotipata quella che arriva del Giappone. Pensate anche voi lo stesso?
M.Z.: Molto. Non è un’immagine univoca, ma ce ne sono in media alcune che tornano sempre: i ciliegi, l’armonia, le geisha, l’arte zen, i samurai. Si va molto a scompartimenti e si tende a guardare al Giappone contemporaneo come un errore di sistema, qualcosa che rimane rispetto a una tradizione che dovrebbe essere presente.
A.O.: Quello che ci diciamo spesso io e Marianna, ma anche con le persone che partecipano ai nostri incontri, è che si può amare qualcuno pur riconoscendone i difetti. Invece c’è la tendenza, tra appassionati, di dare del Giappone questa visione idealizzata, cristallizzata di tutte le parole chiavi che ha detto prima Marianna, senza mai voler fare quel passettino avanti e vedere cosa c’è oltre la facciata.
M.N.: Da cosa nasce la voglia di ampliare il vostro progetto diventando anche realtà editoriale?
M.Z.: Per me nasce da una parte dalla voglia di passare da presentatrice di contenuti, a “spacciatrice” di contenuti. Ma anche portare in Italia contenuti che al momento non ci sono e introdurre riflessioni nuove.
Dall’altra parte, adesso che c’è questa attenzione per il Giappone, l’esigenza di provare a offrire anche visioni laterali o voci che non tutti conoscono, e quindi offrire di questo paese un’immagine più viva, dinamica.
A.O.: Io condivido tutto quello che ha detto Marianna. In più, nell’ambito editoria, io ho sempre lavorato per altri. Black Box invece è il primo progetto in cui io mi sento coinvolta fin dall’inizio, non come una consulente esterna o una dipendente. Sento Inari Books un po’ come un figlio nostro.
M.N.: Debuttate anche come casa editrice con un titolo come “Black Box” di Shiori Ito che considero importante non solo per la testimonianza in sé, ma perché a suo modo, anche con il comparto critico, fa della divulgazione in Italia su quella che è la situazione in merito alla violenza di genere in Giappone. Avete scelto questo titolo anche per questi motivi?
M.Z.: Black Box è arrivato un po’ per caso. Avevo iniziato a seguire la vicenda, un semestre prima, e poi a dicembre 2019 è uscita la sentenza di primo grado dove veniva data ragione a Ito [la causa civile è comunque ancora in corso e Yamaguchi ha fatto appello, ndr]. E lì c’è saltata un po’ la scintilla!
Per noi poteva essere interessante da una parte perché poteva essere facile acquisire i diritti; dall’altra per il punto di vista contenutistico di una vicenda lontana da un punto di vista geografico, ma allo stesso tempo vicina, universale. Poteva quindi essere una storia con cui potersi confrontare anche al di là della passione per il Giappone in senso stretto e quindi in qualche misura avere un bacino di riferimento più variegato.
A.O.: Ha ragione Marianna quando parla di “caso”.
Quando io ho contatto l’agente i diritti erano ancora liberi, noi ci siamo fatte avanti con moltissima cautela dicendo: proviamoci, ma sarà molto difficile – invece c’è andata bene!
M.N.: Chi volesse approfondire questi argomenti relativi ai movimenti delle donne in Giappone, a quali fonti può affidarsi per informarsi?
A.O.: Purtroppo a livello divulgativo non ci sono testi tradotti in italiano. C’è una studiosa femminista molto famosa che si chiama Chizuko Ueno, ma purtroppo non è ancora arrivato niente qui. Ueno è stata anche la persona che ha scritto la descrizione di Shiori Ito quando venne inserita tra le 100 persone più influenti del 2020 dalla rivista TIME.
Ueno ha descritto la situazione delle donne in Giappone come disastrosa, e frutto di decenni di politiche sbagliate. C’è quindi sicuramente un problema a monte di tipo culturale che però non è mai stato combattuto in politica.
Comunque, per avvicinarsi un pochettino alle problematiche e alle disuguaglianze di genere, si possono consultare due articoli, uno pubblicato da OrizzontiInternazionali e l’altro sul portale InGenere, utili per avere una microfotografia di quanto su alcuni piani il Giappone sia effettivamente molto indietro.
M.Z.: Ci sono anche una serie di romanzi che una persona può leggere per farsi un’idea su questi temi, scritti da scrittici. Non so se prettamente femministe, ma che hanno un po’ marcato gli ultimi due-tre anni del discorso. Per esempio: La ragazza del convenience store di Murata Sayaka; Seni e uova di Kawakami Mieko. Mi viene in mente anche Kakuta Mitsuyo che affronta molto spesso dinamiche femminili, di famiglia, di relazioni interne al contesto giapponese. Anche Natsuo Kirino per altri aspetti. Sono tutti testi che aiutano a comprendere il contesto culturale in cui le donne giapponesi si muovono.
M.N.: Qual è stato l’impatto culturale e sociale dell’esperienza di Ito in Giappone? Ci sono state delle conseguenze positive?
A.O.: Innanzitutto – e questo viene citato anche all’interno del libro – la legge sulla violenza sessuale era vecchia di oltre un secolo e la battaglia persona di Shiori Ito e la riforma di questa legge sono andate di pari passo. In Giappone l’esperienza è stata estremamente importante, perché le vittime di violenza sessuale hanno enormi difficoltà a farsi sentire. Sempre citando dati del libro: solo il 4% viene riportato alle autorità. In una realtà del genere, dove nessuna denuncia e nessuna ci mette la faccia, per una questione di vergogna sociale, il fatto che lei sia andata avanti con nome e cognome, senza mai nascondersi, ha avuto un impatto enorme. La differenza forse tra movimento #MeToo in altre realtà e in Giappone è che qui le testimonianze arrivavano ma non mettendoci tutte la propria faccia, perché è una società dove il victim blaming fa molta paura. Quindi a un certo punto in Giappone è diventato WeToo, dove non ci si esponeva individualmente, ma si riconosceva l’importanza di una causa collettiva a cui aderire e da supportare.
Ci sono state anche manifestazioni di piazza – non immaginiamo folle oceaniche, ma già 2000 persone in piazza a Tokyo sono un numero considerevole. Ci sono stati politici che sono stati coinvolti da scandali riguardanti molestie sessuali che probabilmente prima non sarebbero mai emersi se prima non ci fosse stata la vicenda di Shiori Ito. Nel caso del politico Fukuda, per esempio, la giornalista che ha denunciato è voluta rimanere anonima.
L’altra cosa secondo me molto importante è che Shiori Ito è stata colpita in maniera molto pesante dal victim blaming, sui social network, da parte di esponenti politici e personaggi politici e tutto questo non può passare inosservato. Quindi lei sta portando avanti una serie di denunce sul cyberbullismo: non possiamo sapere quale sarà l’esito, ma è già qualcosa, soprattutto perché sta facendo notare quali sono le circostanze a cui vanno incontro le persone che denunciano.
Nello specifico poi lei è una giornalista, quindi la sua esperienza ha dato vita a un attivismo nell’ambito del giornalismo che è culminato con la pubblicazione di un libro bianco delle molestie sessuali in Giappone nell’ambito del giornalismo (Mass-komi sekuhara hakusho), a cura del collettivo Women in Media Network in Japan.
Un altro esempio che mi viene in mente è il manga #metoo & dish della mangaka Shungiku Uchida che affronta il tema delle molestie nel settore dell’editoria del manga. Quindi, su più settori, sicuramente l’esperienza di Shiori Ito ha portato a risvegliare le coscienze su questi temi.
M.Z.: Io non ho molto altro da aggiungere a ciò che ha detto Asuka. Vorrei soltanto dire che è vero che il Giappone ha delle specificità sue, e quindi magari delle problematiche che noi non abbiamo, però l’aspetto del victim blaming secondo me è molto affine e qualcosa su cui valga la pena riflettere. La situazione è molto dura lo stesso anche da noi. Basta sfogliare ai giornali, guardare ai casi di cronaca, anche solo alla storia della maestra, e lì non era neanche uno stupro. Tutto quello che riguarda l’ambito sessuale e il corpo femminile è ancora oggetto globalmente di grandi fatiche.
M.N.: C’è un particolare che mi ha colpito molto leggendo “Black Box” ed è legato alla lingua. Ito, in un momento in cui riprende lucidità durante lo stupro, prova a reagire verbalmente utilizzando l’inglese perché – cito – “In quel momento non sono riuscita a trovare nella mia lingua parole sufficientemente efficaci da permettere a una donna di tener testa a un uomo, un ipotetico superiore: forse in giapponese non esistono”. Potete chiarire questo passaggio per le persone che non conoscono il giapponese?
A.O.: La prima cosa da dire è che il giapponese ha un repertorio di parolacce molto limitato rispetto ad altre lingue, come l’inglese. L’altro aspetto, nella lingua giapponese ci sono numerosi registri linguistici a seconda di chi parla e con chi si parla, quindi una donna parla una lingua diversa da un uomo e ci si esprime in maniera diversa se si sta parlando con un superiore o un amico o un bambino e via dicendo. Se tra Ito e Yamaguchi c’era sempre stata questa sorta di gerarchia all’interno del rapporto e lei si era sempre espressa in maniera rispettosa, poteva essere difficile cambiare registro linguistico da un momento all’altro. Un po’ come in italiano in cui è difficile passare dal “lei” al “tu”.
Oltre al fatto che sin da piccole le bambine giapponesi sono educate a esprimersi in maniera aggraziata, a non rompere l’armonia… quindi tutti questi fattori messi insieme l’hanno portata a reagire in inglese, perché le sembrava probabilmente molto più d’impatto in quel momento.
M.N.: Domanda per la traduttrice: sempre riferendosi alla lingua, è stato un libro difficile da rendere in italiano?
A.O.: Dal punto di vista strettamente linguistico non è un giapponese complesso. Certamente ci sono stati dei passaggi che mi hanno messo di fronte a delle difficoltà di resa, banalmente perché alcuni organi giudiziari sono diversi. Su determinate terminologie quindi mi sono confrontata con il professor Colombo che ha scritto la postfazione.
L’altra questione difficile, non solo nel caso specifico di Black Box ma relativa al giapponese, soprattutto in questo momento storico, è la questione del genere come categoria grammaticale. Il giapponese salvo casi rarissimi non ha il maschile e il femminile. Oggi invece in Italia c’è un grandissimo dibattito sullo schwa, sull’asterisco, e quindi io ho cercato, laddove il genere non fosse esplicitato, di mantenere il più possibile un’inclusività linguistica.
M.N.: State già pensando a un prossimo libro? Come continuerà la vostra esperienza?
M.Z.: Ovviamente sì. La speranza è che Black Box funzioni bene e che ci permetta di aprire un cammino più lungo e duraturo. Al momento in lavorazione abbiamo due titoli: uno di narrativa di una voce che non è mai stata pubblicata, un po’ più classica; l’altro invece è una sorta di testo su Tokyo che ci avvicina alla città in un modo un po’ diverso dal solito. Si tratta per entrambi di due voci femminili che è un po’ quello che noi vorremmo mantenere, dando priorità alle donne visto che fanno ancora più fatica a essere pubblicato rispetto alle controparti maschili.
M.N.: Chi volesse, dove può trovarvi? E dove può acquistare “Black Box”?
M.Z.: Black Box al momento si può acquistare sul sito di Inari. Come social, noi siamo molto attivi su facebook, youtube e instagram, e sono i tre canali su cui ci muoviamo di più.
A Torino invece ci trovate in via Petrarca, 12.
A.O.: Spesso le persone ci chiedono perché non possono comprare il libro su Amazon? Per noi è molto importante sottolineare che Inari Books è una piccolissima realtà indipendente – con il tempo cercheremo di arrivare a più librerie indipendenti possibili, ma comunque a distanza dai circuiti della grande distribuzione. Ed è importante che chi acquista lo faccia anche in maniera consapevole, rispetto per esempio alla fetta che trattiene Amazon sul prezzo finale di un libro.