Tempo di lettura: la durata di Port of Amsterdam di David Bowie
L’Olanda è il Paese dove il capitalismo neoliberale funziona (più rispetto ad altri). Dove sulla via della cultura De Nes – quella dei caffè e dei teatri – ti ritrovi in una ciclofficina affollata. Dove incontri un borghese bohémien (come direbbero i francesi, un “BoBo”) o un distinto vecchietto semi-nudo ma in calzini colorati. Oppure dove capiti alla Conferenza dei Design Thinkers. Si tratta – come scoprirò in seguito – di un evento di due giorni nel cuore di Amsterdam, con diversi ospiti e workshop, con a tema l’empatia.
Il poster all’entrata del teatro Tobacco, sede del congresso, ritrae un gigantesco occhio a forma di D e il sottotitolo “Through different eyes” (Attraverso occhi diversi). È decisamente un messaggio accattivante, per cui mi avvicino al portiere e chiedo se l’evento è a libero accesso.
<<Devi registrarti sul sito.>> Ah, e quale? Come funziona? <<Dovresti avere un invito. Aspetta, vieni con me. >>
Mi porta a conoscere alcuni degli organizzatori, a cui mostro di nuovo il mio interesse a partecipare e capire di che si tratta. L’ambiente è molto rilassato e sembrano tutti euforici: mi danno il badge, mi dicono che la conferenza è già iniziata e che ci sarebbe stato l’ultimo incontro a breve.
Mi guardo attorno per capire la fauna circostante – uomini e donne, giovani e anche meno, dall’aspetto professionale ma informale – e scopro che molti di loro lavorano per aziende, pubblica amministrazione ma anche liberi professionisti. “Noi non siamo designer, siamo design thinkers”. Ovvero?
In teoria, è un tipo di approccio con cui risolvere problemi, specialmente nella gestione aziendale, in maniera creativa. Una sorta di metodo scientifico, che considera però il lato emotivo delle situazioni in cui è applicato. In pratica, è un sistema con cui fare affari: dalla selezione del personale al marketing, alla gestione della filiera. È solo l’ennesima forma – stavolta più giovane, simpatica e, molto probabilmente, eco-sostenibile – con cui il capitalismo ha deciso di presentarsi: Apple, Coca Cola, Shell, sono solo alcuni dei grandi nomi che hanno già adottato questa nuova ‘forma mentis’.
La parola preferita dei design thinkers è proprio <<empatia>>, vecchia quanto l’umanità perché alla base di tutte le nostre relazioni sociali. Eppure sembra che stia tornando in auge solo adesso tra i gestori di capitale umano. D’altronde, l’economista Americano Jeremy Rifkin ci aveva già avvisato nel suo libro “La civiltà dell’empatia” (2009):
<<La civiltà dell’empatia è alle porte (…) Ma la nostra corsa verso una connessione empatica universale è anche una corsa contro un rullo compressore entropico in progressiva accelerazione, sotto forma di cambiamento climatico e proliferazione delle armi di distruzione di massa. Riusciremo ad acquisire una coscienza biosferica e un’empatia globale in tempo utile per evitare il collasso planetario? >>
A questa domanda potrebbero rispondere proprio i design thinkers che hanno organizzato l’evento. La sezione ‘mission’ del loro sito recita: << Il Design thinking, e altri approcci antropocentrici, sta emergendo come una conseguenza. È un sintomo, non la fine. >> Indagare le cause del Design Thinking richiederebbe una ricerca troppo lunga e approfondita, ma basta guardare alle su-citate aziende aderenti: le condizioni di sfruttamento del suolo e del lavoro delle persone di cui sono accusate da diversi anni non aiutano certo a fare bella figura. E allora “guardiamola da un’altra prospettiva”.
Il workshop a cui assisto è tenuto da Belina Raffy, consulente esperta di improvvisazione. Un’altra storia di bancaria tra Londra e New York che ha visto livelli di stress astronomici e si è convertita alle imprese sociali e sostenibili. Ha imparato le tecniche di stand-up comedy e le ha applicate al contesto di business da cui proveniva, per l’insegnamento; oggi sta scrivendo un libro “Using Improv to save the world (and me)” sulla sua esperienza didattica e itinerante (è stata in 12 paesi nel giro di tre mesi).
Ci spiega i diversi tipi di attitudine che si incontrano spesso lungo qualsiasi carriera. C’è il modello “Yes, but” – ovvero colui che davanti a un problema o proposta sul lavoro, risponde “Si, ma” e si gratifica della sicurezza. Poi c’è invece il modello “Yes, and” – quello che accetta ogni situazione e si gratifica nell’avventura. Per farci capire come ci si sente, ci raggruppa a coppie invitando a fare un giochino di ruolo in cui seguire la formula: “facciamo X/sì, mi piace la tua idea e potremmo anche fare Y”.
In tutto questo l’empatia gioca il ruolo della co-liberazione, a metà tra chi non interagisce (la zona “ME” dell’alienazione), e chi lo fa troppo (la zona “NOI” del conformismo). È un paradigma che ricalca bene molte delle situazioni sociali in cui ci ritroviamo senza rendercene conto, in ufficio, a scuola o in famiglia.
Idealmente è molto stimolante, se non fosse per alcuni suoi interventi come “Essere davvero radicali significa rendere la speranza possibile”; slogan che metterebbero a ripetizione negli altoparlanti degli uffici della Silicon Valley.
Ma non è tutto multinazionale quello che luccica: il lavoro di Belina risulta utile anche nel settore della formazione ad esempio. È il caso di due italiane che partecipano al workshop; lavorano per una cooperativa sociale di Roma che gestisce “EXPLORA”, il primo museo per bambini privato non profit di tutta Italia. Nel 1998 hanno avuto in concessione l’ex deposito tramviario Atac di via Flaminia e lo hanno riqualificato per aprire questo spazio di riferimento per bambini, scuole e famiglie. Come descrive il grafico del loro bilancio, si sostengono per la maggior parte dalla biglietteria e solo il 20% dei finanziamenti proviene da bandi di concorso e sponsorizzazioni corporate – tra queste, c’è da dire, ci sono anche l’Eni, Trenitalia, la Rai e diversi enti pubblici.
Un’iniziativa che sicuramente merita tutto l’interesse e l’attenzione possibile, anche e soprattutto perché costituisce un modello di business da distribuire tra le tante realtà locali abbandonate in Europa.
C’è solo un ultimo dettaglio, che scopro alla fine della giornata: il costo per partecipare alla conferenza è all’incirca di 1000 euro a persona.
A quanto pare in Olanda, l’empatia si paga e anche cara.