Nel momento stesso in cui ho deciso di scrivere qualcosa su David Foster Wallace ho pensato che stavo per compiere qualcosa tra la pazzia e la strage di parole: quest’autore è immenso, e io non posso presentarlo, rappresentarlo, comunicarlo, descriverlo, senza fare cazzate. Del resto, chi lo ha letto veramente tutto DFW? Tralasciando la lunghezza di Infinite Jest che compete con l’Ulysses di Joyce, Wallace ha scritto racconti, saggi, romanzi, stralci interrotti di cose, ha rilasciato interviste che sono allo stesso livello di ossessione letteraria di tutto il resto: ogni sua parola è un macigno sul Ventunesimo secolo. Inoltre stiamo parlando di qualcosa che è anche diventato un fenomeno di costume nel tempo: sarà che non è perfettamente un realista o un romanziere classico, sarà che ha stravolto qualsiasi dimensione lineare, temporale, spaziale, sarà il livello profondo di assurdità che si tocca dentro ogni suo romanzo, sarà che è un devoto della scrittura che ha tirato fuori la saggistica persino da un paio di Converse, che mescola una cultura che va dalla piccola cosa e la quotidianità perdente, per arrivare alla filologia, a interi trattati di comunicazione che vengono fuori dai suoi personaggi. Ha mescolato il tennis e la matematica, appassionato d’entrambe com’era, ha tirato fuori letteratura furente dalle cosce di Roger Federer, ha fatto della trigonometria, ha raccontato di ragazzette punk o aspiranti tali, ci ha rivelato la televisione, e Wittgenstein.
Le prime volte che ho letto David Foster Wallace erano stralci di suoi breviari di parole su qualche giornale, ché a volte i giornali fanno di questi servizi strambi. Una cosa divertente che non farò mai più mi colpì, perché racconta con ironia una crociera extralusso ai Caraibi, con quello stile postmoderno illuminante che tanto ci piace riprendere continuamente in mano, scartavetrarlo, soffiarci sopra: ma a questo punto non ne avevo ancora compreso il genio. Anche perché per molto tempo una domanda che mi ha torturato è stata, ma DFW è un fottuto genio o una delle più grandi sòle letterarie della storia? Dipende da come lo leggi. Perché, a tratti, puoi pensare che è solo un pazzo, un pazzo geniale, ma un pazzo, uno che non ci sta con la testa, basta saltare di capitolo in capitolo dentro quel manuale dell’assurdo che è Infinite Jest.
La bellezza umana di cui parliamo in questa sede è una bellezza di tipo particolare: la potremmo chiamare bellezza cinetica. La sua forza e il suo fascino sono universali. Non ha niente a che vedere con il sesso o i modelli culturali. Sembra legata, in realtà, alla riconciliazione degli esseri umani con il fatto di avere un corpo.
A prima vista la citazione sembra presa da un saggio sulla cinesi e la bellezza, invece qui DFW sta parlando di Roger Federer come esperienza religiosa, un altro di quei piccoli splendidi saggi che mi capitò di leggere per caso e che mi emozionò mostruosamente.
Nadal, l’uomo che ha spinto fino alle estreme conseguenze il tennis moderno tutto potenza e fondocampo, contro un uomo che ha trasfigurato questo tennis medesimo, eccezionale sia per precisione e varietà sia per ritmo e rapidità, ma che può essere incredibilmente vulnerabile, o intimidito, di fronte al primo.
Qui parte una lunga descrizione di un classico match Federer – Nadal, fino ad arrivare ai famosi Federer Moment. Ecco: io ho sempre tenuto a Rafael Nadal piuttosto che a Federer, però comprendo che fosse Federer il fuoriclasse. Ma quella dinamica che lo costringeva ad essere l’eterno secondo dello svizzero mi dava ai nervi. In questo saggio DFW fa parere schiacciante le differenze di stile ed eleganza, esalta il magnetismo dei corpi in movimento, e paragona tutto alle vecchie guerre, che diventano sport per i tempi di oggi. Era un bellissimo saggio, pensai: da un lato il gioco di Federer puntuale e svizzero, dall’altro quello di Nadal, carnale da uomo del sud. A me capita quella cosa strana che prende alcuni di noi di parteggiare per i perdenti, o quasi tali. Il fatto che DFW fosse ontologicamente diverso da me lo capii perché lui amava Federer, e quindi eravamo separati da un lunga linea ideale, ed è per questo che lui ha vinto la battaglia col suo secolo.
Il suicidio di David lo ha trasformato in quel tipo di celebrità letteraria che lo avrebbe fatto rabbrividire. (Karen Green, moglie di DFW, in un’intervista)
Ricordiamo che stiamo parlando di un uomo che si è suicidato. A 46 anni. Non stiamo parlando di una rockstar, che può morire a 27 anni e diventare una star, stiamo parlando di uno scrittore, e la parabola di uno scrittore è diversa da quella del genio del rock: il rock si butta fuori da giovani, se pensiamo a tutti gli scrittori che ci accompagnano oggi, i migliori libri sono venuti fuori proprio sulla quarantina d’anni. Allora mi viene in mente una cosa che ho sempre pensato di Kurt Cobain, vedendo quel suo live MTV che lo separa di poco dalla morte: avrebbe potuto diventare il Neil Young degli anni Novanta. Cosa avrebbe potuto scrivere allora David Foster Wallace ancora se fosse sopravvissuto al disagio esistenziale e morale di essere DFW? Quanto c’è di vincente e di perdente in questa scelta di ritirarsi, non dalla letteratura come un ottantenne Philip Roth, ma proprio dalla vita? Coincidevano per lui i due mestieri: quello di vivere e quello di scrivere furiosamente? Ovviamente sì.
Uno scrittore deve avere un’anima vitalista, da osservatore di qualsiasi cosa. Deve buttarsi dentro le situazioni. Uno scrittore è semplicemente un uomo che vive. “Scrivo perché non ero dotato per il commercio“, scriveva Italo Calvino, “non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre cose; ero un poco quello che, per usare una frase famosa, è l’idiota della famiglia“. Mi colpisce soprattutto questo “non ero dotato per lo sport“, che è un po’ un eterno ritorno della scrittura: sul serio Calvino e Wallace avrebbero preferito rincorrere una palla piuttosto che scrivere? Probabilmente sì, misurando i momenti di felicità che porta lo sport e quelli della scrittura. Lo stesso Pier Paolo Pasolini non ha mai nascosto che senza cinema e letteratura gli sarebbe piaciuto diventare calciatore: “Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio.“, è parte di un saggio di PPP in cui analizza le differenze tra il linguaggio del calcio prosastico e quello del calcio poetico. Ma se vediamo la storia di Hemingway che tirava contemporaneamente di boxe, e se ne andava per corride e safari, non siamo lontani dalla verità che lo scrittore sia semplicemente uno sportivo mancato, in qualche caso estremo. Underworld di De Dillo racconta la storia di una palla da baseball. A Don De Lillo, Wallace dedica interi tributi di stima: è il suo intimo riferimento del modo di scrivere detto post-moderno.
Uno dei caratteri più riconoscibili della narrativa postmoderna di questo secolo è sempre stato lo strategico disseminare riferimenti alla cultura pop – nomi di marche, celebrità, programmi televisivi – persino nei progetti più raffinati e «alti». (DFW – Gli scrittori americani e la televisione)
È un processo che vediamo lentamente affogare anche nelle canzoni italiane dei cosiddetti anni zero, basti pensare ai cultori del genere “citiamo marche ad cazzum“, ovvero i Baustelle e i derivati. È una cosa che David fa in Infinite Jest, addirittura la separazione degli anni è brandizzata, ma è chiaro il riferimento ad una presa in giro del nostro mondo postmoderno: “Anno del Pannolone per Adulti Depend” ne è un esempio. Ma è anche un aspetto per cui Wallace sembra separare le varie generazioni letterarie americane, “I nostri vecchi tendono a considerare l’oggetto televisione come le ragazzine smaliziate negli anni Venti consideravano le automobili: una curiosità divenuta divertimento divenuta seduzione. Per gli scrittori più giovani, la tv fa parte della realtà tanto quanto le Toyota o gli ingorghi.“, è perfettamente realista inserire quindi il capitalismo e la sua Toyota nella cosa letteraria. E quindi le Converse, e la musica dei Sex Pistols, e i pannoloni. Non possiamo staccarci da questo modus di pensiero, insomma.
La letteratura si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano
e ancora
Mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l’amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata. – DFW
Il mash-up di cose di cui siamo circondati oggigiorno nel nostro mondo consumato e profondamente rivoluzionato va oltre nell’estetica di Wallace: potrei dire che all’interno dei libri di Wallace ci sono dei Wallace Moment, ovvero delle epifanie del suo gioco / stile letterario, dei colpi di classe che raccontano il nostro mondo, anche perfettamente nascosti, sebbene integrati all’interno dei romanzi. Torno a Infinite Jest solo per parlare delle videochiamate, potrei raccontare per esempio bellissime pagine di dolore sportivo e incidenti di percorso, ma siccome viviamo in un mondo che si videochiama è interessante prestare voce a DFW per descrivere alcune considerazioni che ritroviamo vive oggi nella realtà delle cose:
Durante una telefonata tradizionale mentre si stava eseguendo, diciamo, un attento esame tattile del mento in cerca di brufoli non si era in alcun modo oppressi dal pensiero che l’altra persona al telefono potesse magari a sua volta dedicare una buona percentuale della sua attenzione all’esame tattile del suo mento. […] Questa illusione bilaterale di attenzione unilaterale era gratificante in modo quasi infantile, su un piano emozionale: si giungeva a credere di poter ricevere la completa attenzione di qualcuno senza doverla ricambiare. Con l’oggettività del senno di poi questa illusione appare arazionale, quasi letteralmente fantastica: sarebbe come pensare di poter mentire e al tempo stesso aver fiducia negli altri.
Stiamo parlando di un romanzo del 1996, epoca in cui i cellulari erano ancora in fase sperimentazione a mattone. L’opera di Wallace è monumentale proprio per queste piccole ragioni, è monumentale perché ci fa vedere il mondo, e lo rende umano, è profondamente sincera e sofferta: a volte, quando leggo Wallace, provo una sofferenza così letale che devo smetterla immediatamente. Credo sia stato l’unico autore capace di farmi commuovere, in qualche modo. E per temi o sentimenti che magari non mi erano neanche vicini. Però soffrivo lo stesso, insieme a quei personaggi strani. Ti perdi tra una prima e una terza persona, tra un protagonista e l’altro, una voce e un punto di vista, e via dicendo, e tra il caos e la disperazione ne contempli le infinite possibilità poetiche.
Allora chi è questa ragazza che mi possiede, che tanto amo? Rifiuto di pormi domande sia di dare risposte riguardo al chi è. Cosa è? E’ una ragazza dalle spalle esili, dalle braccia esili, dal seno gagliardo, una ragazza dalle lunghe gambe e dai piedi più lunghi della media, piedi che quando cammina puntano un po’ all’infuori..cinti dalle immancabili e immancabilmente nere Converse modello alto. Ho parlato di tenuta conturbante? Macchè: quelle sono scarpe che amo. Vi confesso che una volta, in un momento di indubbiamente irresponsabile degenerazione e mentre Lenore in bagno a farsi la doccia, io tentai di fare l’amore con una delle suddette scarpe, una All-Star 1989 modello alto, ma, per ragioni private, non riuscii a portare a termine l’operazione. (David Foster Wallace – La scopa del sistema)
Forse questo pezzo può avervi disgustato, ma allora tanto vale non leggere affatto Wallace. La scopa del sistema è il romanzo d’esordio di David, e può sembrarvi a tratti adolescenziale, ma è letteralmente magnifica la capacità di trasudare parole, con salti temporali quasi metafisici da un anno all’altro: si parte dal 1981, dove la protagonista – la Lenore che indossa le Converse nere alte – è un’adolescente, e poi si salta nell’anno 1990, è diventata donna. Non usava ancora le note, Wallace, nel periodo primo della sua fase creativa: solo dopo arrivarono, e ne fecero un marchio stilistico riconoscibile nel tempo. Le note a piè di pagina di David Foster Wallace, come la Gitane di Serge Gainsbourg. Ecco, è in quel punto preciso di incarnazione in una nota che si finisce per cercare di decifrare la differenza tra un fottuto genio e un poser del cazzo. Io sto ancora deambulando al buio, ma man mano ho avuto la sensazione che ci trovassimo di fronte a qualcosa di enorme, come una piramide.
D.T. Max (che ha scritto la biografia di DFW) rivela però questo carattere ossessivo e compulsivo insieme, i ricoveri negli ospedali psichiatrici, e lo fa scavando a man forte anche nelle pagine dello scrittore americano: come nei mostri che ricorrono nel racconto La persona depressa. C’è una linea di sofferenza nel leggere David e la tortura e il caos intero che doveva contenere dentro di sè, che sfogava a tratti dentro la scrittura e poi col suicidio.
Credo, inginocchiato dietro la cucina, con mia zia che si accovaccia a posarmi una mano sulla spalla, che mi faccia paura assolutamente tutto ciò che esiste. (Da una parte e dall’altra)
Non l’ho capito immediatamente DFW, forse non l’ho ancora capito: ci vorrà del tempo per decifrarlo per bene, come le cose più misteriose, come Robert Zimmerman. Non pretendo di capirlo, in verità, perché le cose più misteriose in realtà non vanno capite ma sentite. Io penso che questo scrittore che può parere completamente folle per certi versi, e per altri geniale, vada sentito piuttosto che decifrato; penso che – tuttavia – si butteranno fiumi di inchiostro e lettere sugli schermi dei pc alla ricerca di una chiave di interpretazione completamente inutile. Chiave di interpretazione di Infinite Jest, e manuali di spiegazione, diatribe accademiche e scrittori che si improvvisano critici. Non è sempre questa la strada per la verità: lasciati andare, leggilo, ma non cercare salvezza, speranza, interpretazione. Stiamo parlando di un uomo, in fondo.