Come detto nel report partorito dopo i necessari giorni di ripresa psicofisica, il Salone del Libro è un’occasione per correre, districarsi tra un incontro e l’altro del fitto programma fuori e dentro i padiglioni del Lingotto, ma anche un prezioso momento per fermarsi e parlare. Confrontarsi vis à vis con persone fino a quel momento conosciute solo tramite social, ma anche con scrittori le cui opere sono ormai diventate familiari e hanno intessuto con te un rapporto che va oltre le normali coordinate che descrivono le relazioni. È quello che succede con me e Nona Fernández – classe 1971, figlia del Cile, in Italia per le presentazioni di Fuenzalida recentemente pubblicato da gran vía – con cui finalmente chiacchiero in un locale esattamente di fronte la libreria Trebisonda che la ospiterà da lì a poco.
Fuenzalida, così un po’ tutte le opere della produzione di Fernández, gioca con temi cari all’autrice: la commistione tra realtà e immaginazione, l’accavallarsi del tempo, le relazioni umani e lo spettro di una dittatura che nessuno può concedersi il lusso di dimenticare. Questa sua opera, ultima solo per la pubblicazione italiana, segna un altro altissimo punto nella riflessione tra letteratura e memoria; con una penna che brilla ancora una volta per delicatezza ed eleganza.
Le parole di Nona hanno sempre un qualche strano e magico effetto ristoratore, è stato così anche dal vivo – spero si legga in questa trascrizione delle sue risposte.
In Fuenzalida assistiamo, come in altre sue opere, all’alternarsi di più piani temporali. Da cosa viene questa scelta di far dialogare continuamente il passato con il presente?
Mi piace lavorare con la temporalità. Dare ai romanzi un’idea del tempo confusa, perché credo nel fatto che il tempo sia una materia confusa, dai limiti porosi e che il presente sia continuamente contaminato dal passato. Il futuro in ugual modo è contaminato dal presente e dal passato; la linea del tempo è solo un’invenzione utile per ubicarci, sapere dove collocarci. Trovo quindi interessante che nei libri ci sia questo tempo così frammentato e questi piani temporali che si possano combinare in una sorta di atemporalità. In questo libro ho lavorato su questo, ma anche sull’asse tra finzione e realtà.
La protagonista di Fuenzalida è una sceneggiatrice di telenovelas. In un passaggio del libro avvicina la scrittura a una menzogna, chiedendosi “cos’è scrivere se non questo?”. Quanto considera vicino questo pensiero?
Io credo che scrivere voglia dire inventare un nuovo punto di vista sulle cose, inventare una finzione. Prendere materiale dalla realtà e lavorare su questo materiale. L’immaginazione è la radice fondamentale della scrittura.
La tua letteratura è dominata dal tema della memoria: qual è il tuo rapporto con il passato? Quello di una storia maestra di vita o piuttosto – sembra – quello di un corpo che dialoga in maniera incessante con noi?
Credo che il passato sia uno spettro. E credo che il presente non esista. Tutto è passato, compreso quello che ti sto dicendo ora: è già parte del passato. Il passato quindi è l’unico strumento che abbiamo per definire il presente.
Oppure, vedendolo da un altro punto di vista, può essere che il passato sia solo un’inquietante dimensione del presente. Ripeto: il tempo è poroso, così come i suoi limiti, e quindi per me il passato è un elemento fondamentale per questo motivo. Tutto ciò che ho scritto nella letteratura è legato a questi pezzi di memoria, che può essere personale o collettiva; ricordi che possono essere di altre persone o miei. Mi piace prendere questi elementi e lavorarci.
In Fuenzalida ha un ruolo importante anche il figlio della protagonista: una sorta di nuova generazione che diventa, alla fine, quasi come collante tra il suo presente e il suo passato. In che modo le nuove generazioni possono e devono imparare a conoscere il passato?
Credo che la trasmissione della storia – come se il ricordo fosse una staffetta che si passa di mano in mano – sia fondamentale affinché le nuove generazioni possano definire il proprio presente e il proprio futuro. Ogni generazione dovrebbe, secondo me, custodire e registrare il proprio vissuto per poi lanciarlo a chi viene dopo. Nel mio lavoro in qualche maniera ho fatto proprio questo: ho registrato il mio presente e il mio passato, li ho messi in un libro, che è una sorta di capsula spaziotemporale, e li ho lanciati al futuro affinché le nuove generazioni abbiano un documento, un archivio a partire dal quale definire il proprio tempo.
Il passaggio della memoria è un lavoro collettivo che dovremmo fare tutti quanti.
Quando ci sono dei vuoti nel tuo passato – come la protagonista che non sa chi è suo padre -, questo fa sì che l’identità sia confusa, inquietante. Manca una parte importante.
Nella vita di una persona è importante la traccia del passato, così anche per la collettività. Avere chiaro da dove uno venga, anche nel passato recente. Sapere chi sono i nostri nonni, sapere l’eredità che ti porti dietro e che circola dentro di te. Credo sia importante anche a livello sociale: la società dovrebbe sapere qual è l’eredità che circola dentro di noi.
Lei ha parlato di buchi neri, in Chilean Electric la scrittura invece è proprio un faro su questi punti oscuri della storia. Il suo lavoro da scrittrice è sempre stato spinto da questa sorta di “missione”?
Sin dall’inizio, se ripenso al mio lavoro come scrittrice, organicamente e senza volerlo, ho iniziato subito a fare questo esercizio, a mettere a fuoco spazi grigi, non chiari e pezzi di storia non risolti. Chilean Electric è il momento in cui l’ho capito, in cui come autrice ho capito cosa stavo facendo e a cosa stavo lavorando. Non sempre noi scrittori lo sappiamo: lavoriamo e piano piano si capisce dove si vuole arrivare.
Non sento di avere una missione, ma sento piacere nel farlo – è questa la mia passione.
Lei è un’autrice cilena. Il Cile, come l’Italia, ha conosciuto anche se in tempi più recenti l’orrore della dittatura. L’Italia oggi è uno degli epicentri europei – l’abbiamo visto anche con il caso della casa editrice al Salone – di una certa forma di fascismo di ritorno. E’ possibile immaginare che paesi come i nostri possano un giorno vivere dimenticando l’orrore del passato o saranno per sempre costretti a tenere alta la guardia?
E’ molto curioso come in generale, a livello mondiale, si stia facendo un ritorno al passato – ai momenti peggiori del passato. Si stanno risvegliando questi movimenti… in Cile, penso al Brasile; anche in Spagna dove c’è un movimento Vox, molto vicino a Franco come ideologia.
Questo è un allarme molto chiaro per farci capire che non possiamo dimenticare così rapidamente, dobbiamo sempre stare attenti, in guardia. Bisogna ricordare questi momenti feroci, per quanto spiacevoli e dolorosi che siano, affinché non si ripetano, e condannarli fortemente. Non avrei mai immaginato che potessero tornare nel mondo movimenti del genere, però stanno tornando, sta succedendo. E proprio in questo tipo di scenari la memoria diventa molto più rilevante.
Tornando a un altro suo libro, La dimensione oscura nasce proprio per rispondere, affrontare o risolvere un nodo nato nel periodo dell’adolescenza. Qual è la possibilità di fuggire dai condizionamenti di un’età così fertile e quanto invece siamo obbligati a confrontarci sempre con ciò che ci ha formato?
Mi aspetterei che a un certo punto ci possiamo liberare da questi condizionamenti, ma per esempio il fascismo, e il ritorno dei movimenti di cui abbiamo parlato prima, mi fa pensare che non si possa scappare dagli orrori della storia. La cattiveria, la malignità sono sempre vivi e stanno sempre girando – diciamo così. Tra l’altro è una sensazione molto vicina al passato. Ne La dimensione oscura volevo mettere a fuoco la responsabilità civile, chi erano le persone che effettivamente avevano contribuito, come la società aveva permesso potesse succedere una cosa del genere e quale fosse la complicità dell’uomo medio. Mi interessava molto perché spesso ci sentiamo come se non fossimo liberi, come se non avessimo responsabilità dato che non abbiamo incarichi politici importanti, e invece volevo mettere a fuoco come la responsabilità sia qualcosa di condiviso.
Per lo stesso motivo, questo dovrebbe farci pensare che non è facile liberarci, anche se siamo adulti, siamo persone grandi e viviamo una vita normale, abbiamo comunque una responsabilità storica. E questa responsabilità storica sta nel ricordare e ricordare; condannare e condannare. La storia stessa ci chiede di farlo.
Una domanda più leggera: questa edizione del Salone del Libro, di cui lei è ospite, si apre sotto il simbolo e un chiaro riferimento alla letteratura cilena. Quanto il paese in cui è nata e vissuta è stato importante per la sua formazione come persona e anche come scrittrice?
Credo che lo scenario dove nasciamo e cresciamo determina completamente chi siamo. Non riguarda solo noi scrittori scrittori, ma anche tutte le persone. Vivere in Italia è diverso dal vivere in Cile. Naturalmente ci possono essere dei punti in comune, però ogni città, ogni spazio, ogni territorio ha le sue logiche e le sue problematiche, e sono proprio queste problematiche che chiamano gli scrittori.
Il mio paese mi ha sempre chiamato e non concepisco una scrittura che non sia legata al territorio di cui parla. A volte guardare e parlare del proprio territorio ti fa guardare anche ad altre cose e creare dei collegamenti con altri territori.
Quando uno parla del proprio popolo, la sua specificità può avere un respiro universale e collegarsi con luoghi completamente diversi.
Per esempio io leggevo i russi con tanto interesse perché in qualche modo riconoscevo nella loro scrittura dei tratti del Cile, quindi sì, mi vedo completamente determinata dal territorio.
La lingua ospite di questa edizione del Salone è lo spagnolo. Si sente di consigliare un paio di autori, anche giovani, di lingua spagnola?
Certo! Vorrei consigliare autori che sono tradotti qui in Italia, così potete leggerli. Penso a un autore portato in Italia da gran vía che è Julian Herbert – che ha pubblicato due libri con gran vía ed è un autore fondamentale della letteratura messicana. Penso a Lina Meruane, autrice cilena della mia generazione pubblicata da La nuova frontiera. Poi Diego Zuñiga, Paulina Flores, Emiliano Monge, Liliana Colanzi. Gran vía ha pubblicato varie antologie di racconti dedicate alla letteratura di vari paesi: c’è Cuba, la Bolivia, il Cile. Sono i migliori racconti per ogni paese ed è un ottimo modo per introdursi a quella letteratura.
C’è anche un’altra scrittrice pubblicata da Edicola e che è anche lei qui per il Salone, Maria José Ferrada. Edicola pubblicherà anche un nuovo libro di un autore cileno che è Pedro Lemebel: un libro di cronache che si chiama Di perle e cicatrici. Pedro è stato un grande autore cileno.