Nelle scorse settimane è uscito in italiano un breve saggio di Jonathan Franzen che distrugge le nostre speranze residue di salvarci dall’apocalisse climatica: “abbiamo bisogno di ammettere che non possiamo prevenirla”, ci dice senza tanti giri di parole. La catastrofe è dietro l’angolo e quello che possiamo fare – nel frattempo – è semmai provare a migliorare la qualità del nostro tempo mentre la nave va a fondo. Franzen butta giù un po’ di idee per provarci: garantire elezioni eque, chiudere le macchine dell’odio sui social, combattere le disuguaglianze economiche, e potrebbe andare avanti all’infinito ma al fondo il messaggio è che non ci sia scampo dalla distruzione. Un’altra cosa che possiamo fare nell’attesa dell’apocalisse è leggere dell’apocalisse, un po’ come spiare dal fortino l’arrivo dei pirati – anche se stavolta pare proprio che non possiamo nasconderci. Persino in Islanda, terra brada e poco popolata dai nascondigli perfetti, non ci si può nascondere – tuttavia in Islanda se ne può sicuramente scrivere, non fosse altro perché si tratta di un osservatorio privilegiato sul futuro. È lassù che si possono osservare i ghiacciai, immensi ghiacchiai come l’Okjökull che a poco a poco si sciolgono, e intuire le direzioni che prenderanno le cose. Anche per questo Il tempo e l’acqua dello scrittore islandese Andri Snær Magnason – uscito per Iperborea nelle scorse settimane – è una lettura interessante a proposito del caos climatico.
Con lo stile archeologico di chi vuole lasciare al futuro una traccia del presente in diretta, Magnason racconta mescolando la forma di diario e saggio (condendo tutto con immagini e vecchie fotografie) le dirette conseguenze di quello che potrebbe/sta per succedere. Lo fa passando in rassegna storie di antenati che hanno il sapore di vecchie gite sui ghiacciai e futuri indicibili già raccontati ai figli, e ancora aneddoti che sembrano già miti, incontri con il Dalai Lama e diatribe di pensiero tra nichilismo e filosofie d’Oriente, appunti sparigliati sul potere di Facebook e della Cina, fantasmi sempre più presenti nelle nostre vite. Dal tempo dei miei nonni abbiamo sprecato troppo, sembra dirci Magnason, anche se la storia dell’uomo ha trovato una forza motrice proprio in energie come il carbone o il petrolio – che “ci ha dato la possibilità di creare bellezza” – perché quell’energia ha avuto l’effetto di mettere in moto cucine a gas, wc e docce, e che momento meraviglioso doveva essere per chi era vivo ai tempi vedere quell’energia liberarsi, esplodere, ridurre almeno un pochetto le spropositate differenze nella vita di tutti i giorni, far suonare Beethoven a chi prima non poteva suonarlo; ma d’altro canto abbiamo pure finito per consumare eccessivamente e sprecare, creare troppa immondizia. E sappiamo bene qual è la parte di mondo che è autorizzata a consumare e qual è invece quella che regge solamente il sistema di spreco dell’altra parte, e in fondo la grande energia ha anche reso le differenze ancora più enormi. Noi siamo qui a sprecare immondizia, gli altri a raccogliere le scorie. Noi qui a leggere Franzen, gli altri forse a imparare l’alfabeto da cui nascerà la poesia futura.
“Il consumo di petrolio è un aspetto fondamentale delle disuguaglianze nel mondo”: Magnason lo mette nero su bianco, un ottavo del genere umano non ha ancora accesso al petrolio e all’elettricità, posti dove la grande rivoluzione industriale non ha mai davvero acceso il motore. Il racconto del futuro si mescola alla realtà di una fetta di umanità ancora esclusa, d’altro canto l’avvenire che ci lascia immaginare Magnason è fatto di una nuvola scura, ghiacchiai che si sciolgono, inondazioni e migrazioni di massa dei sempre più numerosi profughi climatici, eppure e a un certo momento scrive: “Non ho scelta: devo credere che la soluzione ci sia” – ed eccolo lì all’improvviso, risucchiato dall’ottimismo di Candido, Magnason non arriva mai a dirci di buttare via le speranze e armarci per l’apocalisse. Quello a cui ci chiama è una lotta, anche filosofica e interiore, che sia per individuare il problema, provare a estirparlo con appelli che chiamano al futuro, o estenderci nel tempo attraverso tutta l’immaginazione umana per vedere spiragli. E del resto Magnason è lo stesso uomo che ha scritto la sua lettera al futuro da un ghiacciaio disciolto: l’invito è lo stesso, guarda avanti e immagina le vie di scampo.
Questo quaderno di bordo arriverà al futuro, e chissà come invecchierà, chissà come e se verrà letto. Adesso sembra uno di quegli oggetti preziosi, un reperto d’epoca, che porteranno testimonianza del punto in cui ci troviamo – un punto minuscolo rispetto all’intera storia dell’universo e alle sue ere di glaciazione, ma comunque sia un puntino, qualcosa a metà tra la rivoluzione industriale e l’apocalisse. Come scriveva il poeta, “ho misurato la mia vita in cucchiaini di caffè” – e d’un tratto ci rendiamo davvero conto che quei cucchiaini potrebbero essere relativamente pochi, un colpo di tosse rispetto alla storia dell’uomo. Magnason ci fa sentire piccolissimi, ma ancora speranzosi nella nostra epopea tutta umana, e in fondo di speranze ne abbiamo sempre bisogno. Lì fuori i ghiacciai si stanno sciogliendo, con tutte le conseguenze che conosciamo e le belle gite avventurose che non potremo più fare (Magnason te lo fa sentire con le sue storie ultra-generazionali che arriverà pure il tempo in cui non potrai più andarci lassù tra i ghiacciai), ma quello che cerchiamo è una porta, una via di scampo da immaginare nell’inverno di Islanda. Ed è bello perdersi in questo diario nel mezzo del caos.