Avremmo potuto rubare le parole di Artaud e tracciare quella sottile linea che separa il dolore necessario alla scena dall’estensione più cupa e autoinflitta. È fra le sue pieghe, probabilmente, che nasce l’orrore di cui Capovilla vuole farsi narratore. Dalle galere mai frequentate o dalle coincidenze che ti rendono eroe per un giorno il quarto album de Il Teatro degli Orrori sposa due linee di narrazione distaccate e che tendono a non ricongiungersi perché, dopotutto, non basta essere arrabbiati o disillusi per rappresentarne il sentimento da cui provengono.
Le parole di Capovilla affondano le radici nella contemporaneità, nelle sue parti più malate e marce, cercano di smuovere gli animi ma finiscono per diventare un’ironica testimonianza di tutto quello che cercano di combattere. Succede in Lavorare Stanca o ne Il lungo sonno, lettera aperta al Partito Democratico in cui il colpo inferto è profondo ma non supera il primo sangue e si rimargina in fretta. Ma la questione non è questa. Lo stile della scrittura è rimasto pressoché immutato, rimane valido come un tempo e chi lo ha apprezzato in passato, certamente, continuerà a farlo. A essere cambiato è il rapporto con la musica, come se le Direzioni diverse di A sangue freddo si fossero trasformate in una durissima realtà. Più aspro rispetto all’album precedente, la ricerca musicale ritorna alle origini in maniera matura e sensata, trovando, effettivamente, una sua dimensione indipendente come mai prima d’ora. Il problema è che, come già detto, non si tratta di un disco strumentale né di un reading poetico e quel fragile equilibrio si è forse infranto per l’ultima volta. Emblematica in questo senso è Slint e il suo ricercare i dischi apprezzati una vita prima. Il richiamo alla memoria di Capovilla è la lettura di un testamento che non si legge quasi più ma che continua a farsi pressante. È facile spiegare, così, il motivo per cui gli elementi caratteristici della band dei primi due album riemergono costantemente ma, come un ricordo sbiadito, finisco per scomparire nell’aria.
Qualcosa è cambiato nella band, Capovilla prosegue nel suo percorso stilistico e letterario, come già Obtorto Collo del 2014 aveva sottolineato, facendosi più radicale e arrabbiato, come se i riferimenti da cui proviene inizino a farsi ingombranti, quasi ne fosse imprigionato. Attingere dalla contemporaneità senza freni o censure è, senza dubbio, l’aspetto che rende la sua poetica un valore aggiunto nel nostro piccolo mondo ma che, alla lunga, rischia di rimanere fine a stessa o che, sfiduciata, strabordi nell’intellettualismo che cerca di combattere. Musicalmente, invece, parliamo di qualcos’altro. Il suono sembra avere definitivamente abbandonato le strette di mano con compromesso e mercato, privilegiando una libertà espressiva che sembrava essersi, almeno in parte, ridotta. Ci troviamo, dunque, davanti a un punto di non ritorno in cui non si comprende ancora se quella linea artaudiana, da cui eravamo partiti, sia stata superata o meno, e se tutto questo orrore non sia finito per fare paura solo a se stesso e ai suoi creatori.
La Tempesta dischi, 2015