Il Teatro degli Orrori @ Casa della Musica

Foto: Alfredo "Alph" Capuano

Mozziconi di sigaretta si consumano l’uno dopo l’altro sul palco della Casa della Musica di Napoli in una fredda serata di primavera (aprile è il mese più crudele soprattutto quando la primavera tarda ad arrivare). Il gruppo che occupa il palco è Il Teatro degli Orrori, l’uomo che continua a fumare tra una risatina da clown, un violento urlo dissacrante e un salto in piedi, è il frontman, tutto nero vestito, cravatta al collo, e accenno di barba incolta e bionda: tremate ragazzini, sembra dire, state per trasudare parole. Il concerto si apre con una Rivendico cantata a cappella, con la batteria che irrompe dopo i primi versi e scioglie la tensione sotto il palco. Si scatena il pogo delirante, tutti cantano e si dimenano, Non vedo l’ora entusiasma e convince del tutto. È un veloce riscaldamento che ci fa presto entrare nell’humus del nuovo disco: quel “Il mondo nuovo” (citazione di un romanzo di Huxley) così contestato si lascia godere sin dal primo vagito, pare più forte dal vivo, e sembra conquistare pure quel pubblico che appariva più scettico sul terzo lavoro del TDO.

Non è vero che il Teatro ha perduto in carica e potenza, e nemmeno nel suo personale delirio d’onnipotenza: i pezzi nuovi arrivano diretti, c’è forza nelle parole e nella poesia di Skopje, Martino (tra le più riuscite del live) e Monica (leggermente sottotono), c’è commozione sulla storia che ti brucia gli occhi e le vene quando dal palco s’intona il lamento per Ion (accompagnato da cori che ne intensificano il sapore funereo).

La formazione originaria al completo dimostra di essere quella più azzeccata, finalmente Giulio Favero è tornato a guidare la band, colmando quel vuoto che aveva lasciato e che, senza troppo successo, i sostituti Nicola Manzan e Tommaso Mantelli avevano provato a contenere. La mano del maestro al basso si sente eccome, al resto pensano gli altri, precisi e potenti. I brani dei precedenti dischi fanno capolino raramente tra quelli nuovi e non riescono a convincere del tutto, i tempi modificati non sono stati assorbiti a perfezione dalla band, che spesso li maneggia in maniera maldestra, è così che canzoni come È colpa mia perdono il loro smalto. Il terzo mondo, E lei venne!, e Compagna Teresa, diventano tre pezzi sparati uno di fila all’altro e ci ricordano invece il disco d’esordio del Teatro, quel “L’impero delle tenebre” che ci ha portato a scoprire la potenza catartica del sound primordiale della band.


Ad ogni modo, Teatro chanson e orrore metafisico, Antonin Artaud sarebbe tra il pubblico pagante a muoversi frenetico, e tutta la banda dei poeti e scrittori di razza defraudati delle proprie parole da PPC non mancherebbero di fare una riflessione sui soldati d’America che dall’Ohio partono per l’Iraq, arruolati chissà perché nelle militanze della morte: è un viaggio in questo senso Cleveland–Baghdad, anche per chi non è mai stato a Cleveland, anche per chi non ha mai messo piede a Baghdad, anche per chi non sa cosa significhi essere un soldato, e quanta fatica ci sia nella distanza.

Non c’è il tempo di riprendersi dai 16 pezzi del live che riparte subito il bis dal palco. Io cerco te scalda l’atmosfera dopo la commovente Dimmi addio, e siamo subito pronti ad immergerci nel pantano dei ricordi ormai dispersi. “Parlami ancora Tom, parlami ancora, dimmi qualcosa” – anche se guardiamo dall’altra parte indifferenti, sembra essersi creata un’attenzione intorno a noi, parte La canzone di Tom ed è come un tuffo in tutto nel rimpianto. In effetti il pezzo è infarcito di ricordi, di senso di vuoto, di tutti i se e i ma della terra: se avessi fatto qualcosa per Tom, qualcosa di vero, al posto di girarmi dall’altra parte, forse sarebbe ancora vivo. Un lontano miraggio di vecchie occasioni, quando le casualità ci portano a perdere e a prendere, a vivere o a morire, a farci biascicare per le strade alla ricerca di una droga perfetta, a farci restare fermi al palo. Ai poeti piace decantare in pubblico, magari ubriachi, pieni di vita da sputare via con rabbia. Ma sempre con una certa eleganza. Ogni volta che Pierpaolo Capovilla urla dal palco verso il pubblico s’incarna il sogno che ha fatto da ragazzo: diventare una rockstar come Majakovskij (‘’perché certi poeti del Novecento erano rockstar’’, direbbe). Rock viscerale, che ti incatena a passi di danza frenetici. E intramezzi di piccole storie quotidiane, che piuttosto ti fanno pensare, riflettere su mondi che sembrano distanti, come quando prima di A sangue freddo (dedicata al poeta nigeriano Ken Saro Wiwa), il nostro racconta a un pubblico che pare addirittura interessato e curioso di sapere, come si vive in Nigeria, sul Delta del Niger.


Buttate via ogni tipo di retorica su questa faccenda dei concerti del Teatro degli Orrori, non c’è bisogno di avvilirvi troppo se non vi piace il personaggio che ne anima il progetto. E’ difficile trovare oggi in Italia qualcuno che abbia da dire qualcosa, qualcuno che abbia da portare avanti un messaggio, qualcuno che in qualche senso sia originale o coerente, al di là di ogni posa che può alimentare piccole invidie, gelosie, antipatie e vattelappesca (citazione dei peggiori traduttori di Salinger). Lezione di musica chiude il live. Le lezioni non piacciono a nessuno, soprattutto quando sono fatte con arroganza, ma non è questo il caso, o almeno ognuno ha la sua idea di arroganza quando parla con qualcuno: qui si è fatta un po’ di comunicazione aperta, quella che manca nei blandi tentativi di costruire i rapporti dentro i social network a volte. Arrivederci al prossimo giro, per chi se lo fosse perduto.

foto di Alfredo “Alph” Capuano

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