Terminato il secondo libro di Paula Fox letto quest’anno, mi è spontaneamente tornata la curiosità e la necessità di rileggere la sua biografia. Sia in Quello che rimane che ne Il silenzio di Laura (entrambi ripubblicati di Fazi Editore quest’anno; Il silenzio di Laura solo settimana scorsa) infatti si respira una pesante cappa di tensione che investe i rapporti familiari, rende indifferenti al bene e insofferenti al compromesso. Talvolta espediente inevitabile in qualsiasi forma di convivenza.
Il tema frequente delle famiglie infelici – ognuna a modo suo – si giustifica facilmente scoprendo il trascorso della Fox. Scomparsa l’anno scorso, alle sue spalle ha avuto tre matrimoni (solo l’ultimo felice), un’infanzia segnata da genitori assenti e una crescita forzatamente accelerata da una figlia avuta giovanissima data poi in adozione. Quella stessa figlia che da grande poi divenne madre a sua volta di Courtney Love, che non credo abbia bisogno di presentazioni.
Una vita, quella di Paula Fox, ben lontana dal rappresentare esempi di relazioni sane e sincere; un susseguirsi di eventi tragici e provanti che solo nella vecchiaia hanno finalmente trovato fine donandole – come da lei stessa affermato – se non ottimismo quanto meno sprazzi di serenità.
Il silenzio di Laura arriva nel 1976, a 6 anni di distanza dalla pubblicazione di Quello che rimane, e nelle sue pagine si dispiega un vero e proprio dramma diviso in sette atti. Alla vigilia del loro viaggio in Africa, i coniugi Laura e Desmond Maldonada Clapper attendono nella loro camera d’albergo i loro ospiti: Clara, la figlia di Laura, avuta dal suo precedente matrimonio; Carlos, l’eccentrico fratello di Laura; e Peter, un melanconico editor nonché amico di sempre. Quello che dovrebbe essere un tranquillo saluto, però rivela immediatamente più di qualche incrinatura.
Dall’ambiente chiuso della stanza d’albergo fino alla sala del ristorante in cui si sposteranno i cinque, Laura è il catalizzatore di ogni nervosismo: enigmatica e imperscrutabile ma incapace di frenare la lingua in direzione di tutti i presenti. Tutto ruota e si consuma intorno al suo atteggiamento e a una violenza verbale che, come il titolo stesso rivela, nasconde il seme di un malessere taciuto.
Quasi come in un’opera teatrale i personaggi si muovono in un ambiente costrittivo pronti a cimentarsi in un copione denso di stilettate, l’uno contro l’altro. Ogni capitolo aggiunge un tassello e la storia evolve e si completa anche grazie alla pluralità di punti di vista in gioco. L’abbondanza di scambi nella forma del discorso diretto rende frenetica la lettura, rivelando però quanto, nel fiume riversato di parole, la genesi del risentimento possa essere proprio il non detto. L’incapacità di creare un contatto anche quando fisicamente vicini.
Purtroppo questo tipo di ponte manca tra i personaggi e spesso anche nell’esperienza del lettore. Se in Quello che rimane il morbo della protagonista era in grado di suggestionare profondamente anche chi si trovava a focalizzarlo attraverso le pagine, ne Il silenzio di Laura è veramente difficile sviluppare empatia nei confronti dei personaggi. La Fox lavora di sottrazione privandoli, soprattutto nella prima parte, di una profondità e di una caratterizzazione a mio parere necessari in opere di questo tipo. Solo nella seconda parte, quando le carte vengono svelate, il romanzo trova una sua forma più definita e approfondita. Si fa un passo indietro: dai dialoghi secchi e taglienti all’introspezione e i personaggi trovano rotondità in un passato che in parte giustifica le loro azioni, ma che neanche alla fine riesce a essere conciliante.
Pur nelle sue carenze, quest’opera si innesta in un percorso da scrittrice che ha fatto della fragilità dell’animo umano, riversata poi inevitabilmente nelle relazioni, uno dei suoi temi più cari. Più che un messaggio, nei libri riconosco spesso delle confessioni; chissà se è vero e chissà quanto era voluto. E’ un peccato non poterglielo più chiedere, oggi.