Qualche mese fa sono andato ad un concerto di Crosby, Stills and Nash, a Padova, per l’esattezza. Prime impressioni: le luci abbaglianti delle decorazioni natalizie all’interno del PalaGeox e il classic rock sparato dagli speaker quasi fosse un trailer, o piuttosto allo scopo di rassicurare che sì, potete godervi la vostra birra tranquilli, stasera non succederà niente di nuovo o inaspettato: garantisce la direzione.
E poi, ovviamente, il merchandising di dubbio gusto, venduto a prezzi altrettanto discutibili ad avventori di regola sovrappeso e stempiati, che per l’occasione hanno pensato di rispolverare il loro lato ribelle sepolto 20 anni, 30 chili e, in alcuni casi, due bypass fa, salendo faticosamente in soffitta e recuperando dagli scatoloni quella maglietta acquistata a uno dei primi Umbria Jazz, quelli selvaggi degli anni ’70 in cui i concerti potevano saltare perché l’orchestra di Count Basie non riusciva ad arrivare al palco, tanto era il pubblico. Mica come oggi, tutti seduti a guardare Liza Minnelli sperando di incrociare lo sguardo di George Lucas o De Niro seduti comodamente in prima fila: quelli sì che erano i bei tempi, eh? Proseguendo in questo che è poco più che un maleducato screening della platea (degno dei cafonal di Dagospia), un discorso a parte lo merita una seconda categoria di magliette, quelle su cui campeggiano magari gli stessi nomi delle loro controparti vintage – Santana, Neil Young, Bob Dylan, Pearl Jam – ma che appaiono palesemente più recenti, anche ad un profano della moda. Non occorre infatti essere spettatori accaniti di QVC per capirlo: la percentuale di tessuti sintetici sull’etichetta, i colori ancora vivi, la linea, più adatta alla pancia sporgente di un sessantenne che al fisico nervoso di un giovane, e, più banalmente, la data riportata sulla schiena ricurva parlano chiaro: quelle magliette simboleggiano l’appartenenza alla gang degli ascoltatori dell’Adult-Oriented Rock. Se tollerate l’ostentazione dei braccialetti dello Sziget per fini bassamente ludico-riproduttivi da parte dei vostri amici, allora dovrete coerentemente fare lo stesso anche con i vostri genitori, anche per le indiscutibili proprietà omeopatiche di queste pratiche nel combattere la crisi di mezz’età.
Il concerto sta per iniziare, le luci lampeggiano come fossimo a teatro e, lentamente, ci si avvicina ognuno alla propria poltroncina di velluto, con un’eccitazione ordinata e spasmodica allo stesso tempo, tipica di chi sta facendo qualcosa di non-ordinario, ma sempre entro i confini della rispettabilità, circondato da propri simili consenzienti. Le luci si spengono, i dispenser di liquori chiamano l’ultimo giro e si avvicinano all’uscita. Ecco salire sul palco CSN e la loro band, attaccando, ancora una volta, come previsto, con Carry On/Questions. Una versione inaspettatamente tirata e bella, in cui la batteria di Russ Kunkel sorregge la voce traballante e la chitarra sguaiata di Stephen Stills, uno dei più scostanti e sottovalutati di quell’epoca (da recuperare il blues afro-cubano di Manassas), in bilico tra assoli eccellenti e stecche plateali, come è giusto che accada a chi, a settantacinque anni, non si sta limitando ad eseguire una partitura già scritta. Queste imperfezioni, Younghiane, danno vita nuova al brano, allontanandolo dalla perfezione, quasi fastidiosa, della versione in studio, in favore di un approccio più emotivo e trascinante.
Il pubblico è attento, conosce bene ciò che sta ascoltando (ha avuto 45 anni per digerire Deja Vu, d’altronde) e gradisce la cosa, ma nessuno batte il tempo con il piede, nessuno sembra avere voglia di ballare. Mi rendo conto che il mio agitarmi sulla poltroncina rossa sta disturbando la visuale di chi è seduto dietro me, e che la mia aspettativa di vita si sta riducendo secondo dopo secondo sotto i colpi delle sue maledizioni. Mi alzo e mi metto da un lato, per il mio bene e per la serenità del servizio d’ordine. Da qui osservo il pubblico applaudire a tempo, come a Mattino in Famiglia, e capisco che, al contrario di quanto voglia farci credere Virgin Radio, il rock per come lo intendevano i nostri genitori è condannato ad estinguersi, ed è forse giusto che sia così.
Due musicisti di estrazione molto diversa come David Byrne e Wynton Marsalis hanno affrontato nei loro libri – rispettivamente, Come funziona la musica e Come il jazz può cambiarti la vita – il tema dell’inesorabile decadimento della musica, della condanna all’irrilevanza culturale che, irrimediabilmente, sembra aleggiare trasversale e impalpabile su tutti i generi e gli artisti. L’ex cantante dei Talking Heads spiega in particolare come la musica classica si sia evoluta dall’essere un genere popolare, spesso ascoltato distrattamente in piedi o nel mezzo delle danze nei teatri, alla realtà ingessata e seduta a cui l’associamo oggi. Il trombettista più odiato degli ambienti crossover, per via di un’ingiusta accusa di conservatorismo, associa la distanza attuale tra il pubblico giovanile ed il jazz alla fine della funzione sociale e meramente ricreativa di quest’ultimo all’interno delle comunità, avvenuta negli anni ’80, questa è la sua tesi, per mano dei teorici del free e della fusion più sperimentale, à là Allan Holdsworth, per intenderci. Da simbolo di libertà di pensiero, nonché di movimento, il jazz si è anch’esso seduto, abbandonando i club fumosi e economici, e l’eterogenesi dei fini (sesso, droga, relax, alcol) dei loro avventori, in favore di un ascolto più concentrato e rispettoso, indubbiamente, ma al contempo meno fisico e sentito. Questa tesi trova conferma in uno dei fenomeni più interessanti dell’anno appena trascorso, ossia il ritorno del jazz ad essere concepito come qualcosa di hip: forse anticipato dal revival swing del Grande Gatsby cinematografico, il 2015 è stato sicuramente l’anno di artisti come Flying Lotus, Kamasi Washington, Thundercat, i quali, anche grazie al successo più mainstream del loro comun denominatore Kendrick Lamar, hanno ripreso un approccio tipicamente jazz, improvvisato alla loro musica, meticciandolo con gli stilemi contemporanei dell’elettronica. Un’idea accomunabile, con sfumature più o meno decise, ad altri artisti black emergenti come Christian Scott, Hiatus Kaiyote, Donnie Trumpet, The Internet, o a jazzisti già affermati come John Scofield, Medeski Martin & Wood e Roy Hargrove, che non a caso collaborano spesso tra loro.
Se non è forse questa la risposta in cui Wynton Marsalis sperava per preservare il suo ideale di jazz, quantomeno sarà contento di averci visto lungo: se il genere è ancora vivo e vegeto, è proprio perché ha saputo rialzarsi, nel senso letterale del termine, e tornare ad abitare gli stessi locali fumosi e malsani dove era nato: nuova gestione, nuovo pubblico ma stessa sostanza. Resta ora da capire se il cosiddetto classic rock avrà la medesima forza per uscire da questa fase di declino, che lo accompagna ormai da vent’anni, almeno. Nel volerci illudere dell’esistenza di una seconda ondata di musicisti capaci di tenere viva la fiamma del rock, dai Foo Fighters ai Pearl Jam, ci siamo forse nascosti la vena profondamente decadente e malinconica intrinseca alla loro musica: forse distratti dalla disperata ricerca di approvazione da parte dei padri, questi artisti hanno involontariamente permesso al pubblico, coperto dalle urla di Rocking in a free world, di trasformarsi in platea, hanno abbassato i volumi, alzato i prezzi dei biglietti e adattato gli orari delle proprie esibizioni alle dinamiche del trasporto urbano. Da questi simboli, un po’ retorici, emerge chiaramente che il rock stava e sta perdendo giorno dopo giorno la sua freschezza, incapace di riciclarsi e infilarsi altrove, soccombendo alla brutale forza della demografia. Due vecchie volpi del settore, Bruce Springsteen e Prince, l’hanno capito prima di tutti: il primo posiziona gli schermi in modo tale che siano visibili solo al pubblico più lontano dal palco, per mantenere alta la partecipazione delle prime file, rigorosamente non sedute, mentre il secondo pretende di suonare solo di fronte ad un pubblico in piedi, seppur ai prezzi astronomici che conosciamo. Se la storia ci insegna qualcosa, insomma, è che una musica è viva e vegeta finché il suo pubblico fa altrettanto, già per il semplice fatto che gli spettatori defunti sono per definizione non paganti.
Come previsto, Crosby, Stills e Nash concludono il loro concerto suonando Suite: Judy Blue Eyes, incisa nel 1969. Il falsetto di Stills traballa dignitoso e il pubblico, prevedibilmente anch’esso, si affanna per avvicinarsi al palco armato di cellulari di alta gamma. Questa corsa è uno stanco rituale, una disperata richiesta di aiuto o un flebile segnale di vita? Me lo chiedo ancora oggi.