C’è ancora speranza per il rock o parliamo di un genere spacciato? È la domanda che ho provato a farmi ascoltando il nuovo disco di Mark Lanegan, Somebody’s Knocking. L’ultimo mese in fondo ha visto i grandi ritorni di tanti vecchi eroi di un’era felice del rock. Kim Gordon è rientrata prepotentemente con il disco di esordio solista No Home Record, dove si è lasciata rapire dalla vena di sperimentare con incursioni avanguardistiche-elettroniche. Nick Cave e i suoi Bad Seeds hanno celebrato una messa oscura con Ghosteen, tirando fuori una vera e propria opera tenebrosa e oltre-rock. Neil Young con Colorado è tornato a indagare il suo lato più country-rock, armonica alla bocca – ed è sempre piacevole perdersi nel suo mondo. Gli Swans con Leaving Meaning si sono lasciati andare a una registrazione lunghissima, di oltre 90 minuti, infarcita da decadenti ossessioni e parabole apocalittiche da urlarci. Sulla carta il disco più rock in senso classico restava proprio quello di Lanegan, che nell’ultimo decennio non si è mai davvero fermato: ha tirato fuori quattro album, più i due in collaborazione con Isobell Campbell e Duke Garwood. Album diversi – Imitations raccoglie cover di vecchie ballate famose – ma sempre mai domi, laneganiani, con la voce di Mark a farla da padrone. Ad ascoltarlo però Somebody Knocking, la sensazione è quella che Mark Lanegan ne esca fuori leggermente sfiancato, e non è solo l’effetto delle basi elettroniche – che restano comunque ruvide e battagliere – che sentiamo agitarsi in sottofondo. C’è qualcosa che forse sfugge anche a noi che ascoltiamo.
Probabilmente parte della risposta è da ricercare nella natura stessa della parabola del rock’n’roll. Del resto nei Sessanta o Settanta la ricerca di sonorità e originalità offriva un’offerta quasi illimitata – c’era da aspettarselo che progressivamente sarebbe andata esaurendosi. Che saremmo arrivati al punto di celebrare la ripetizione. Quando su The Red Hand Files Nick Cave ha scritto a un fan di avere la sensazione che la musica rock viva una fase di sofferenza, una certa stanchezza, confusione e debolezza, che il rock non possieda più quella capacità di combattere le grandi battaglie, che ci sia in giro veramente poco di nuovo e autentico, e che tutto sembri più nostalgico e cauto (sì, cauto) – ecco probabilmente quando ha scritto queste parole Nick Cave ha lasciato una traccia su cui riflettere. Dov’è andata a finire la trasgressione del rock’n’roll? e perché dovremmo aspettarcela ancora una volta da Kim Gordon o Mark Lanegan, artisti che hanno già dato il loro contributo? Perché non sono gli artisti più giovani a tirare fuori i denti?
La risposta che sembra andare per la maggiore è quella che vede la nuova ondata di ribellione e l’esplosione di libera creatività migrare dal rock verso altri generi come la trap – si tratterebbe quindi semplicemente di una migrazione. Eppure sopravvive ancora un pubblico latente che reclama il rock, i suoi suoni, le sue chitarre. Forse ricordiamo con un pizzico di nostalgia canaglia quel momento degli anni zero in cui è esploso l’indie-rock con la sua sferzata di chitarre, e tutta quella generazione di band animate da una certa dose di pazza creatività: gli Strokes, gli Interpol, i National degli esordi, con un Berninger che possedeva il carisma e l’ubriachezza necessari per regalarci ballad-rock ossessive prima di calarsi in mezzo al pubblico durante i concerti. In un certo senso si trattava ancora di un momento fecondo per il rock, anche nelle sue derivazioni più commerciali – mentre le canzoni di Karen O degli Yeah Yeah Yeah finivano dentro le pubblicità – si riusciva ancora a suonare liberi e audaci. Negli anni dieci i nuovi cantori del disagio venivano dall’hip hop, dove si aprivano praterie libere e incontaminate, e la colonna sonora della contemporaneità arrivava addirittura a ripescare dentro il jazz, tanto che persino l’elettronica cominciava a esserne contaminata.
Dal suo canto il rock viveva il suo decadentismo – che non è per forza una brutta parola. Dopo aver osato tanto e aver portato all’estremo la provocazione, messo in moto agitazioni e speranze al ritmo di puro rock’n’roll per poi esplodere nel punk, nel post-punk, nella new e no wave, forse è arrivata pure una certa naturale spossatezza. Il rock deve tornare a essere trasgressivo per tornare alla sua autenticità, ci ricorda Cave. Già, perché parallelamente anche i tempi erano cambiati (qualcuno lo cantava decenni fa che i tempi cambiano) – ed è difficile essere pericolosi e audaci in un mondo che ha messo un po’ la retromarcia. Affollati come siamo da provocazioni disordinate, pare che il rock si sia rifugiato nell’essere più avveduto, sommerso da cautela e paura. In un mondo che ha eletto i tweet di Mr President a simbolo di trasgressione, forse abbiamo finito col mettere la museruola alla dose di creatività necessaria al rock. I vecchi eroi non sembrano essere stanchi, continuano a tirare fuori i loro album, il nuovo capitolo delle Desert Sessions di Josh Homme è ancora gustoso all’ascolto, eppure non sarà una reunion dei Sonic Youth a salvare il rock, ma la nuova gioventù sonica. Audace, creativa e libera. (In fondo, scavando nel sottobosco, ci sono già band pronte a esplorare direzioni coraggiose)