Il racconto della sera | Una strana ragazza

Lo spazio indiependente di racconti inediti continua, e stavolta è il turno di Erica Cassano e del suo racconto Una strana ragazza – una storia che ha l’atmosfera di una murder ballad immersa in un giardino di rose fantasma. Buona lettura, e grazie a chi ci sta inviando contributi. Per inviare una proposta di racconto puoi scriverci a lindieracconti@gmail.com

In quel periodo lavoravo fuori città. Ogni giorno varcavo la soglia di casa mia per uscire mentre tutto era ancora nel silenzio. Mi sentivo sempre a disagio quando mi trovavo nel bel mezzo di un’alba, mi sembrava di violare il momento più intimo del mondo che stava rinascendo e io lo infrangevo con la mia incoerente presenza di essere umano che fendeva l’aria col solo camminare, e che l’aria consumava con i suoi polmoni malati di fumo. Mi infilavo in macchina con la sigaretta che già mi pendeva tra le labbra come una funesta protuberanza e lasciavo che la cenere si spargesse nel vento come i poveri bambini di Auschwitz. Odiavo quei paragoni che la mia testa faceva automaticamente, ma non potevo farci nulla e ghignavo tra me e me perché mi faceva ridere la mia cattiveria immotivata delle sei del mattino, mentre premevo l’acceleratore come un automa e la macchina cominciava a prendere velocità – come se la strada pendesse e io fossi una palla da biliardo liscia che per intrinseca ribellione si rifiuta di aderire alle leggi dell’attrito. Arrivavo a lavoro, lavoravo, maledicevo la vita che mi costringeva a lavorare per mangiare, e, soddisfatto come un bambino che recita bene la poesia di Natale, risalivo in macchina e nuovamente ripercorrevo le arterie che mi riconducevano al cuore pulsante della mia esistenza.

La casa che dividevamo io e quella donna, che malauguratamente aveva al dito la fede che io le avevo messo trent’anni prima, era una villa bassa e senza troppe pretese. A me andava bene perché la domenica mattina potevo stendermi al sole in quel piccolo ritaglio di prato che stava davanti alla porta, ma a mia moglie no, perché tutti avevano un giardino più grande del nostro e non c’era posto per le rose. Avevamo smesso di discutere sulle rose un bel po’ di anni prima, e potevo dire con soddisfazione che io e lei non discutevamo più, anzi, forse non parlavamo nemmeno, in quel momento non me ne accorgevo, solo non sapevo più chi fosse quella donna, probabilmente c’erano stati giorni in cui l’avevo amata, poi lei se l’era presa perché non riuscivamo ad avere un figlio e anche per le rose, ma non ricordavo per cosa lei si fosse indispettita prima. Probabilmente il bambino non voleva venire in un giardino in cui non c’era posto per le rose o forse nel giardino sarebbe stato stretto persino quel neonato inesistente, che con la sua inesistenza aveva pesato così tanto in quello che era stato per qualche momento un matrimonio strano ma felice. Lei era molto più alta di me e agli amici questo faceva ridere, faceva ridere anche lei ed è forse per questo che aveva accettato di avermi nella sua vita in quella che mi sembrava una vita passata.

Lavoravo fuori città e tornavo a casa mia alle quattordici, un orario in cui c’è sempre il sole e il mondo si surriscalda. A quell’età mi era già capitato altre volte di vedere qualcosa di strano e mai ci avevo fatto caso, avevo sempre fatto spallucce davanti ai fenomeni che non riuscivo a spiegarmi, ma in quel periodo iniziai a notare ogni giorno alla stessa ora qualcosa che sarebbe rimasto a lungo nella mia testa come quelle domande che ti poni senza alcuna motivazione e iniziano a risiedere nei tuoi pensieri fin quando per caso e senza volere non trovi la risposta. Arrivato a quell’angolo sospeso tra la strada principale e il viottolo che conduceva alla villetta dal giardino (troppo piccolo e senza le rose), dovevo svoltare e puntualmente mi trovavo a dover inchiodare le ruote sull’asfalto con una brusca frenata perché – preso dalla sigaretta – non pensavo a rallentare, dunque maledicevo quasi costantemente quel piccolo pezzo di marciapiede che si intrometteva tra me e il mio bisogno adrenalinico di velocità, finché, da un certo giorno in poi, sarà stato marzo, vi trovai ogni giorno piantata una certa ragazza con gli occhi per aria e iniziai a maledire anche lei. Maledicevo tante cose in quel periodo, ma quella tizia l’avrò maledetta più di tutte le altre. E la definirei strana, propriamente strana, la rivedevo ogni giorno e mi sembrava sempre più strana. La sera, a letto, mentre voltavo le spalle a mia moglie, ripensandoci, mi dicevo, quanto è strana, maledetta lei, che cosa avrà tanto da guardare, qualcosa di strano quanto lei, sicuramente, e, giorno dopo giorno, aggiungevo all’immagine da maledire un dettaglio in più del suo aspetto. La prima cosa che avevo notato erano stati gli occhiali dorati, forse perché sotto il sole luccicavano e solo dopo un paio di mesi mi resi conto che gli occhi sotto le lenti erano verdi e bagnati, solo dopo un anno che costantemente le scorrevano due lacrime sul volto come piccoli e sciocchi fiumi. E ogni sera, pensavo, che avrà da guardare, quella là, è proprio strana.

 

Where the Wild Roses Grow

Morì la donna con cui dividevo il letto, in un giorno qualsiasi. Tornai da lavoro e la trovai sul divano con la testa reclinata e la lingua in gola, e i medici mi dissero si è uccisa, e io, forse ha fatto bene, pensai, andrà in un posto con un grande giardino e molte rose, se è vero che per ciascuno di noi esisterà un paradiso diverso costruito con i propri desideri, forse nel suo ci sarà anche un bambino e io non ci sarò. Al funerale ghignavo tra me e me, ero quasi felice di non avere più il fastidio di qualcuno che pesava nella mia solitudine, in chiesa non smisi di fumare, mi giustificai dicendo che il mio tremendo dolore di vedovo mi costringeva alla sigaretta anche all’interno di quel luogo immotivatamente sacro e il prete mi guardò teneramente, nonostante io avessi usato lo stesso tono con cui un tempo avrei raccontato una barzelletta, e sembrò comprendermi, anche se in verità volevo solo continuare a fumare e basta, il dolore non c’entrava nulla, c’entrava forse solo il ghigno che volevo nascondere. Poco prima avevano trasportato il feretro in una di quelle auto lunghissime che hanno dei grandi vetri e che io maledico perché vanno sempre troppo piano e fanno fatica negli spazi stretti. Fece fatica anche quella in cui c’era mia moglie, che si trovò in difficoltà a dover svoltare l’angolo in cui c’era, puntuale a fissare il suo punto, quella ragazza strana. Mi sorprese quel giorno, abbassò lo sguardo e notò il feretro, chissà perché i morti incutono sempre così tanto rispetto – fece un passo indietro e quella cosa che ti insegnano da piccoli quando entri in chiesa, il segno della croce, sempre con la destra, perché la sinistra è del diavolo.

Dopo un po’ di settimane iniziò a mancarmi quella donna che aveva tanto vissuto accanto a me e che io non avevo abbastanza amato e alla quale non avevo dato spazio per le sue rose e smisi di fumare e smisi di andare a lavorare e smisi di vivere, pensando, chissà se lei mi ha voluto nel suo paradiso, e, mi dicevo, probabilmente no. Controllavo ogni giorno alle quattordici, dalla finestra, se la strana fosse lì, e passavano i mesi e passavano gli anni e quella ragazza era puntualmente lì, immobile, sempre a fissare lo stesso punto, gli occhiali continuavano a luccicare al sole e le lacrime a scorrere. Avevo iniziato a cronometrare il tempo che passava in quella posizione, ogni giorno compreso tra una trentina di secondi e un minuto, un’infinità, pensavo. Poi andava via, in maniera semplice e chiara, il suo passo era una voce squillante e il volto quello di una persona infelice. Un giorno, era di nuovo marzo, mi avvicinai a lei, non parlai e lei andò via. Ripetei questo gesto per molti giorni, poi mi decisi a capirci qualcosa di quello che faceva. Sapevo che lei mi avrebbe capito perché eravamo uguali, io e lei, fuori luogo, e se io l’avevo a lungo giudicata strana era perché ancora non ero rimasto solo. Le chiesi, cosa guardi e lei mi rispose, cerco una persona morta, poi si allontanò. Rimasi interdetto e tornai a casa. Il giorno dopo le chiesi dove cercasse quella persona morta e lei mi rispose, nella mia memoria, poi si allontanò. Qualche giorno dopo prima di andare via mi indicò una finestra ritagliata nel muro di una casa gialla. Si stagliava nera nella desolazione della parete uniforme, i vetri riflettevano stralci indistinguibili del mondo esterno, sarebbe stato impossibile vedere chi vi si muovesse all’interno. Aspetto di veder tornare un amore passato, disse, non scherzava, davvero sperava che vedendola da quella finestra il suo amore passato sarebbe tornato da lei – non sapeva forse che il passato è un luogo troppo simile alla morte e che la fine di un amore è la fine di una vita, entrambi eventi inspiegabili, punti di non ritorno. Qualcosa in entrambi i casi si spezza e finisce in quella strana dimensione in cui siamo immersi ma che ci è irraggiungibile che è il ricordo. Tutto quello che era finisce per essere separato da noi da un sottile vetro impenetrabile che diventa lo schermo del nostro rimpianto e si pensa molto alle ultime volte, ai momenti di vita insignificanti che all’improvviso si ricoprono di preziosità e si rivivono costantemente e costantemente si vogliono rivivere, con la cattiva illusione di poter cambiare le cose, di poter impedire che il caso malvagio si prenda gioco delle nostre fragili, misere, incontrollabili esistenze. Invece siamo impotenti, come in ogni cosa, siamo impotenti e condannati nell’inferno della nostra vita, all’eterno contrappasso del rimpiangere le parole non dette e le azioni non compiute, costretti ad assistere costantemente, unici spettatori nella nostra testa, a quello che è stato, nella straziante consapevolezza che non sarà più.

Le dissi, aspettiamo insieme, ché tanto entrambi sappiamo che nulla arriverà. La strana ragazza annuì e per la prima volta si asciugò le lacrime, mentre io piantavo gli occhi sulla finestra chiusa della mia camera da letto, sul muro bianco della villetta bassa e dal giardino senza le rose. Un’auto sfrecciò davanti a noi. Qualcuno, alla guida, ci maledisse.


Erica Cassano ha 22 anni e studia lettere moderne a Napoli, dove si sta specializzando in filologia moderna, arricchendo il suo percorso con studi di sceneggiatura cinematografica. La scrittura è una delle sue più grandi passioni.
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