Il punk trentenne dei Fast Animals and Slow Kids

E se a un certo punto, dopo oltre 10 anni di amicizia, strimpellate in sala prove, album, camicie strappate tuffandosi tra il pubblico, locali esplosi e urla, semplicemente uno scegliesse di fregarsene? Non è forse questo il vero punk, quello dei grandi? E se facendolo, con una chitarra in mano che si scopre saper dare il meglio di sé anche in acustica, si riuscisse addirittura a intercettare le scalpitanti esigenze di una generazione? A questo punto conta davvero se qua e là spuntino parole come “sorriso”, “abbraccio” o “amore”?

I Fast Animals and Slow Kids con Animali notturni ti costringono a chiedertelo. A domandarti se non sia giunto il momento di superare l’idea che l’anticonformismo, quello del ribelle e arrabbiato, sia ancora solo prerogativa del grezzo. E così loro, il poker perugino composto da Aimone Romizi, Alessandro Guercini, Alessio Mingoli e Jacopo Gigliotti, suonano fregandosene. Dei loro ascolti esterofili in un Paese musicalmente autoreferenziale, dei loro testi self-terapeutici ben lontani dalla coscienza sociale dettata dal momento storico, del loro amore per la chiacchiera fancazzista post concerto nell’epoca del mistero alla Liberato e della loro spontaneità nella vita e sul palco nonostante siano oramai stati benedetti nel segno della Warner Music.

Lo fanno con un inno alla libertà, al coraggio e, perché no, alla speranza. Perché con questo disco, a due anni da Forse non è la felicità, è come se ci fosse tutto da rischiare. E loro, al bivio, hanno scelto di farlo aggirando l’hype alimentato già con Non potrei mai. Scegliendo di non stare al gioco di cercare coerenza e rigidità strumentale a tutti i costi, ma scoprendosi. Senza spaventarsi di risultare anche fragili. Ma salire sul palco ed essere un artista, non demandando quella scelta al mondo fuori. Perché non ci sono più oramai abbracci così grandi da proteggerti, come le mura di una cameretta. 

E se qualcuno si stia chiedendo dove sia finita la rabbia, o se abbia solo cambiato forma, nessuna delle due. «Questo è un disco dei Fask dall’inizio alla fine. Percepiamo la rabbia la cupezza e la speranza – assicura Aimone Romizi – anzi è tra i più oscuri che abbiamo scritto. Cerchiamo di essere sempre più chiari nei messaggi e manifestare quel che abbiamo dentro. Ma evidentemente non basta se non si percepisce rabbia e oscurità». Perché forse è lo sguardo che va cambiato, quello di non ricercare per forza con un microscopio le molecole Fask in ogni urlo o parola. Bensì lasciarsi smontare e, solo dopo qualche ascolto, rimettere insieme i pezzi. O almeno lo assicurano: «È che noi facciamo ancora dischi dischi, quelli che iniziano, hanno uno sviluppo e una chiusura, che ascolti di notte bene e fai sedimentare». 

Ci sono le paure più recondite dei trentenni di oggi, e si percepiscono già dalla title-track Animali notturni. Di essere in ritardo, di tornare nel bar dell’adolescenza, guardarsi intorno e trovarsi soli. Amici, parenti, quotidianità… “ma dove sono finiti tutti quanti?/Eravamo almeno venti, almeno venti/E mi sembravano già tanti/E adesso che si contano gli impegni (…)/ Ed ho paura che sia tardi/Se la vita è un lampo/Io non l’ho visto/Vorrei soltanto avervi accanto”. Uno stile che già nelle prime note e parole detta i temi e sound di una ricerca affannata per non farsi sopraffare. 

Una ricerca che passa attraverso la nostalgia di Cinema«una canzone pesantissima, mi viene da piangere ogni volta che la canto», svela Aimone – e la consapevolezza di essere e basta de L’urlo. Un brano che altro non è che un inno a se stessi, a quella montagna che sembrava troppo alta da scalare – e ognuno nella vita ne ha avuta una – finché si è sulla punta. Soli. E si torna a respirare, consapevoli che ostacoli e soddisfazioni restano impressi sulla pelle. Quindi senza perder tempo, bisogna andare avanti, riprendere fiato, zaino in spalla e si riparte. Per i palchi per le platee, per la musica, per la via. “Per primo io e dopo gli altri /Ti chiedo scusa per gli errori che ho davanti”. 

Non potrei mai è un pugno nello stomaco, quello di qualcosa che finisce e non può tornare indietro, se non solo nella memoria. Singolo che – inutile negarlo – sin da subito ha alzato l’asticella (l’hype per capirci) e ha spinto tanti ad andare oltre il primo ascolto del disco. Perché c’è qualcosa che nonostante i paradossi apparenti di parlare di amore, dei suoni springeesteniani, del tocco del produttore dei Thegiornalisti nonché esperto di pop, Matteo Cantaluppi, che funziona. E anche tanto. 

E se non si è ancora convinti la tripletta decisiva arriva tra gli sbagli di Dritto al Cuore, le riflessioni di Canzoni Tristi e i brindisi al dolore di Un’altra ancora. Confermano che la scelta di dare voce a se stessi ha saputo toccare delle corde giuste. E lo ha fatto in un flusso di coscienza che entra nel vortice dei mostri di Demoni, nell’ammissione di essere artisti al di là della tentazione del compromesso e del sogno dei consensi mainstream di Radio Radio e va già dritto fino a Novecento. È l’ultima, «la canzone manifesto», un finale aperto su un percorso fatto con il peso di grandi incertezze e la speranza di nuovi orizzonti.

«Se dovessimo pensare a chi ci ascolta saremmo fottuti, sarebbe finita la nostra musica. L’importante è che i pezzi piacciano a noi quattro, se sentiamo quel brividino li pubblichiamo. Se poi riescono a metterci in connessione con il pubblico è il sogno, ma in termini artistici è sbagliato riferirsi a esso». E quindi se suonare punk o fare un revival di Alaska «ci renderebbe anacronistici», come assicura Alessandro, loro scelgono di andare avanti e raccontare ciò che sono oggi.

Dando voce alla «nostra realtà chiusa, di noi che ci vediamo al baretto», e quell’amicizia stretta nel  segno del Patto Rem «dividiamo tutto per quattro, abbiamo litigato per singole parole. Ed è una bella rete di salvataggio, se Animali notturni non fosse stata una scelta condivisa, avremmo rischiato di sputtanarla. Se sei solo cedi molto più facilmente alle pressioni e alle etichette, così non ci muovi. Alla Warner siamo arrivati con un disco già chiuso, il lavoro è stato fatto sugli arrangiamenti e questa qualità non l’avevamo mai raggiunta».

Ora tutto inizia però perché c’è la grande sfida del palco, prima si chiuderanno in sala prove per giorni. Nelle vesti di veri nerd della musica come hanno sempre fatto. Perché bisogna rassicurare il pubblico che anche quell’aspetto intimo e personale dei Fask amiconi, con cui prima poghi e poi fai serata e ti sfoghi confidando i retroscena degli ascolti dei loro brani – e negli instore se ne sentono storie di tutti i colori – c’è ancora tutto. Nonostante il meno tempo, l’etichetta e i sold-out, perché «speriamo che riesca a trasparire con il live, nel disco ci sono i Fask e in concerto riporteremo in auge la nostra cifra stilistica».


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