Il portiere di notte, i 50 anni di un film incompreso e attuale

Nella primavera del 1974 esce nelle sale italiane dopo una lunga storia di censure ministeriali Il portiere di notte di Liliana Cavani, un film molto difficile e osteggiato oggi ormai considerato a tutti gli effetti oggetto di culto. La critica mainstream lo svaluta ma allo stesso tempo grandi critici come Tullio Kezich e Callisto Cosulich o anche personaggi del calibro di Alberto Moravia e Eduardo De Filippo si battono nel difenderlo strenuamente, sottolineandone l’alto pregio artistico e intellettuale.

È negli Stati Uniti che le reazioni sono più violente, il leggendario critico Roger Ebert lo bolla infatti come una “soap opera”, un “detestabile tentativo di titillare sfruttando le memorie di persecuzione e sofferenza” e non è l’unico a suggerire che abbia aperto al filone del nazisexploitation, nel quale rientrano quei film erotici di serie B che utilizzano il nazismo e l’Olocausto per mettere in scena spettacoli sessuali scabrosi solo per il gusto di eccitare lo spettatore.

Ma di quale trasgressione si macchia effettivamente l’opera di Cavani? E perché ancora oggi, più di cinquant’anni dopo, si fa ancora fatica a cogliere l’attualità di un film così complesso?

 

 

Cavani, di famiglia antifascista, dopo una laurea in lettere classiche si avvicina al cinema diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia. I primi anni di lavoro li passa in Rai tra documentari e video inchieste che le permettono di approfondire la storia contemporanea alla luce degli eventi della Seconda guerra mondiale. Gira quindi Anni D’Europa – Storia del Terzo Reich, in onda in parti tra il 1962 e il 1963, il quale racconta organicamente per la prima volta in Italia la storia del nazismo. Nel 1965 è autrice de La donna nella resistenza, un acclamato documentario che celebra il fondamentale contributo femminile nella lotta al fascismo.
La prima opera di finzione della regista è Francesco, miniserie del 1966 sulla vita del patrono d’Italia, interpretato dal nevrotico protagonista de I pugni in tasca Lou Castel. Cavani esordisce poi al lungometraggio nel 1968 con Galileo, dove tratta alcuni episodi biografici dell’astronomo toscano, riflettendo su un certo integralismo religioso e sulla condizione dell’intellettuale sotto la Chiesa, iniziando a plasmare quella che sarà un po’ la sua poetica, il suo interesse nei confronti delle figure controverse e soprattutto la messa in discussione del potere nelle sue infinite declinazioni. Dopo I Cannibali e L’ospite il 1974 è un anno prolifico per la regista, escono infatti Milarepa e qualche mese dopo Il portiere di notte.

Il contesto culturale di questi anni è quello dove si afferma la nuova ondata di registi nata negli anni Sessanta come Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, una generazione di autori giovani e antifascisti in grado di cogliere in modo più innovativo gli spunti della controcultura affrontando il nuovo e tumultuoso se non più violento decennio dei Settanta. Ora più che mai risulta di fondamentale importanza la riflessione sul ritorno del fascismo in un paese democristiano terrorizzato dal comunismo che a trent’anni dalla fine della guerra ospita in parlamento il Movimento Sociale Italiano.

Liliana Cavani decide di ambientare Il portiere di notte nella Vienna del 1957, in un’epoca in cui l’Europa è ancora in fase di riorganizzazione dalla distruzione portata dalla Seconda guerra mondiale, tentando di fare i conti col proprio recente e nefasto passato. Proprio nella capitale austriaca sono appena state ritirate le truppe sovietiche d’occupazione e sembra che tutto sia stato lasciato alle spalle. Anche nel dopoguerra Vienna rimane il centro glamour della cultura mitteleuropea e tra gli sfarzi dell’Opera e il culto di Mozart risulta anche la città con più alta concentrazione di ex nazisti, ormai re-inseriti nelle fila dell’alta società. Questo problema naturalmente non è un’esclusiva austriaca, tutta l’Europa soffre infatti del fallimento dei processi di epurazione, dove molti criminali del regime si sono riversati impuniti negli ordini della polizia e della magistratura, in una continuità che la guerra fredda ha contribuito a solidificare come testimoniano diversi testi storici, come quelli di Mimmo Franzinelli. C’è quindi tutta un’Europa del sottosuolo che nasconde e protegge i criminali di guerra ed è proprio questo contesto uno dei propulsori del film del 1974.

Il lavoro di ricerca storica come documentarista alla Rai diviene dunque in questi anni un’occasione preziosa per collezionare informazioni e spunti per Il portiere di notte e per le vicende attinenti al secondo conflitto mondiale. A tal proposito l’autrice ricorda spesso due toccanti interviste fatte a due sopravvissute ai campi di concentramento, donne borghesi italiane non ebree internate per motivi politici. La prima è una piemontese che racconta alla regista di andare ogni estate a Dachau per passare alcune settimane in vacanza, incapace di spiegare il motivo che la spinge a ritornare nel luogo dove si è consumato il suo trauma. La seconda, originaria di Milano, tornata dal lager dopo un primo tentativo di reinserirsi nella società dichiara di aver scelto di passare il resto della sua vita in una casa dismessa alle porte della città. Questa spiegava a Cavani che non riusciva più a condurre la stessa vita di prima poiché scioccata di come il mondo fosse andato avanti con tanta disinvoltura, più concentrato a dimenticare quanto successo. Questa tendenza di chi la circondava a voler scacciare il pensiero dell’Olocausto la faceva piuttosto sentire di troppo, come la prova tangibile di qualcosa che gli altri non volevano vedere né sentire. La donna aggiungeva inoltre che la cosa peggiore di cui aveva fatto esperienza nel campo di sterminio era aver compreso profondamente la natura umana, capace di fare del bene ma soprattutto del male, sia per quanto riguarda i carnefici che le vittime, le quali spesso, aggiunge, non sono poi così innocenti.

 

 

Lucia Atherton, la protagonista de Il portiere di notte, a ben vedere ha molto in comune con queste due donne: sopravvissuta a un lager nazista e ora inserita nell’alta società come moglie di un direttore d’orchestra, Lucia si trova in viaggio a Vienna per alcuni concerti del marito. È quando arriva nel sontuoso albergo che rincontra dopo anni Max, soldato-medico delle SS che l’aveva presa di mira durante la prigionia, ora portiere notturno.  Da questo incontro il film si svela attraverso analessi atte ad approfondire il passato di Max e Lucia e quindi il rapporto tra i due. I flashback si insinuano nella narrazione come stralci di brevi incubi che tormentano tanto l’uomo quanto la giovane donna.

Nell’albergo vanno e vengono vari personaggi noti a Max, ex-camerati tra cui l’avvocato Klaus che si occupa di preparare il portiere all’imminente processo per la sua partecipazione allo sterminio durante la Guerra. L’intreccio tra passato e presente mostra due vie di risposta all’epurazione dal nazismo, quella di Klaus, Hans e Berth, ex ufficiali scampati a Norimberga e reinseriti nella società sempre in nome di quella continuità già citata, e quella di Max e Lucia, il primo tormentato dal passato personificato da Lucia e incapace di lavorare alla luce del giorno, la seconda impossibilitata a tornare alla sua vita borghese dopo il trauma, proprio come la donna milanese intervistata da Cavani.

Quello delineato dal film è uno sguardo su una società postbellica fallimentare nella quale i sopravvissuti più deboli, le vittime, ma anche carnefici come Max, sono incapaci di trovare nuovi ruoli, finendo per riprodurre le stesse gerarchie di potere ormai estinte, proprio perché è impossibile per loro dimenticare. La regista definisce infatti i suoi protagonisti come degli eroi tragici, poiché mancanti di una reale collocazione nel nuovo mondo ormai nelle mani di una élite potente che trama nell’ombra, dove Max e Lucia sono ancora incastrati nella dinamica di aguzzino e prigioniera. Cavani va oltre dichiarando che la guerra è il “detonatore del sadomasochismo che c’è latente in ciascuno di noi”1, dove il conflitto armato normalizza l’idea di una gerarchia tra oppresso e oppressore, vittima e assassino.

 

 

L’autrice statunitense Susan Sontag nel suo illuminante Fascinating Fascism scrive che tra il fascismo e il sadomasochismo c’è un legame naturale, in quanto l’ossessione per il controllo e la sottomissione e lo spettacolo sfarzoso delle masse riunite attorno a un oggetto centrale dominante sono parte integrante della sua estetica. Questo spunto su una gerarchia sessualizzata apre anche a un’altra questione, quella del potere nazista come metafora delle dinamiche di gender, nel rapporto tra maschile e femminile.

Teresa De Lauretis, una delle maggiori studiose nel mondo di semiotica e di approcci femministi al cinema in un numero di Film Quarterly del 1976 dedica un articolo molto interessante al film di Cavani. La sua prospettiva da storica e accademica femminista italiana è fondamentale per sciogliere i principali nodi de Il portiere di notte. La studiosa si rende conto in primis che la critica statunitense ha una visione del tutto parziale sia del panorama del cinema femminile in Italia, sia soprattutto delle vicende storiche conseguenti alla Liberazione. De Lauretis legge l’opera di Cavani proprio come un woman’s film, nell’accezione di film che racconta in maniera viscerale e stratificata l’esperienza femminile.

“Non è l’esperienza di Lucia […] a servire come metafora per l’infamia perpetrata dai nazisti nei confronti del genere umano, quanto piuttosto è il nazismo e le atrocità da questo commesse nei campi che creano la cornice allegorica scelta da Cavani per indagare la dialettica del rapporto uomo/donna nella società contemporanea post nazista”

Non tutte le critiche femministe però hanno la stessa interpretazione e il film subisce dei giudizi impietosi per il suo tentativo di esplorare la complessità psicosessuale di una dinamica di morte e violenza dall’origine storica. L’accademica statunitense Rebecca Scherr, per esempio, in un numero di Other Voices del 2000 approfondisce la rappresentazione della sessualità nel cinema dell’Olocausto parlando anche de Il portiere di notte. Nell’articolo la studiosa condanna il film di Cavani, rimproverando il fatto che Lucia e il suo corpo fungono solamente come mezzo di sfruttamento sessuale, respingendo l’opera come un mero tentativo di “rendere sexy” l’Olocausto mettendo vittime e carnefici sullo stesso piano e presentando Lucia come inerte e complice in tutti i sensi.

Scherr esclude così in toto il background storico delle mancate epurazioni, giudicando addirittura offensiva la messa in discussione dello schema manicheo nella dinamica vittima/carnefice. Naturalmente Cavani non paragona mai Lucia e Max, quanto piuttosto sottolinea come l’eccezionalità del trauma storico renda i sopravvissuti gravati da una medesima colpa, presunta per Lucia e reale per Max. È proprio nel periodo postbellico che nascono infatti le teorie sulla survivor’s guilt, la colpa provata dal sopravvissuto ad un trauma che lo ha messo a contatto col male più profondo.
In questo senso Lucia è doppiamente un’eroina tragica, schiacciata da un sistema di oppressione antico che è per De Lauretis metafora della condizione femminile nella società e dalla quale non c’è scampo.
La complessità del film è tanto psicologica quanto politica e resta davvero difficile poter credere che lo spettacolo del corpo emaciato di Rampling abusato dall’algido Dirk Bogarde possa essere messo in scena per suscitare eccitazione nello spettatore, soprattutto nel contesto di un cinema italiano dove la nudità e la rappresentazione della sessualità femminile, pur perversa, è ancora raro che vengano messe in scena da una donna.

De Lauretis in più sottolinea che il processo psichico di ripetizione nella riproposizione dei vecchi ruoli da parte di Lucia e Max ha naturalmente a che fare con le conseguenze del trauma. Il mondo del lager per molto tempo è stato l’unico mondo che entrambi hanno conosciuto, pertanto lo spaesamento attuale porta a riprodurre l’esperienza traumatica anche con effetto catartico. È certo che la catarsi nel film non avviene mai del tutto, se non attraverso la morte sacrificale che arriva al culmine di un logorante percorso di passione distruttiva, dove i ruoli di vittima e carnefice si ribaltano, si sfumano e si confondono nel rivivere una situazione di privazione e di clandestinità. Se l’obiettivo di Klaus e gli altri è quello di eliminare le tracce delle nefandezze commesse durante la Guerra, Lucia e Max come testimoni riluttanti a dimenticare vanno epurati, non prima di aver messo in scena il rituale del fascismo come spettacolo teatralizzato alla maniera di Jean Genet.

 

 

La denuncia politica che mette in scena Liliana Cavani è dunque spietata e rivolta a tutte le istituzioni, interrogando una società contemporanea corrotta e complice, infestata dai germi del fascismo.
È paradossale, dunque, che i problemi del Ministero della Cultura nella distribuzione del film fossero più legati all’aspetto grafico della rappresentazione sessuale, piuttosto che alla sua polemicità politica.

Lo spettatore contemporaneo potrebbe storcere il naso rispetto alla reputazione dell’opera in oggetto come controversa e dissacrante quando non ci sono né scene di nudo né di sesso esplicito. I documenti contenuti nell’archivio di Cine Censura riguardo le tre revisioni del film risultano di fondamentale interesse per comprendere gli aspetti considerati più scomodi dell’opera, della quale apparentemente non si osteggia il messaggio accusatorio. Gli elementi che offendono il pudore riguardano momenti dove i protagonisti “si accoppiano carnalmente in posizioni diverse”, i quali portano alla risoluzione di eliminare “quasi totalmente le scene della sequenza in cui Rampling appare sopra Bogarde in atto amoroso”, oppure di cancellare rappresentazioni di “coito tra due uomini completamente nudi” o una “sequenza di ragazzo in albergo che porta mutande”. La questione dunque legale starebbe nella nudità, comprensibile nell’Italia democristiana degli anni Settanta, ma come in più punti si legge nei documenti di difesa dei legali di Cavani ci si chiede provocatoriamente come mai certi tagli non sono applicati ad altri film più smaccatamente erotici e di exploitation.

Il portiere di notte è un film che indaga le colpe di una società ma allo stesso tempo offre anche tanti spunti per la riflessione sulla memoria storica. Max riprende spesso con la videocamera Lucia, uno sguardo violento che spoglia, vìola e degrada la vittima, ma l’immagine è centrale anche nelle carte del processo al portiere di notte, inchiodando i testimoni da individuare ed eliminare, una lente che diventa strumento di morte. E qui ancora ci viene incontro la riflessione di Sontag che analizzando l’opera di Leni Riefenstahl ricorda dell’importanza per il nazismo di testimoniare, di riprendere, di imprimere su pellicola tanto i propri fasti che i propri misfatti come dei trofei, documenti che oggi ci aiutano a comprendere il passato attraverso la riflessione sullo sguardo e sul dispositivo ancor di più considerando che Cavani stessa è cresciuta negli anni Cinquanta, un periodo in cui in Italia in realtà ancora non è facile parlare di memoria storica della Resistenza.

Ad oggi dunque Il portiere di notte risulta un’opera dalla complessità magistrale che va analizzata con attenzione nella sua capacità di portare all’attenzione le ombre di un’Europa espressionista e deforme, colpevole, aprendo anche all’ambiguità dei motivi psicologici in una società compromessa e corrotta dal male. Il portato storico dell’opera risulta quantomai attuale, spingendoci a riflettere sulla memoria e sul fallimento dell’epurazione da un Male dal quale tuttora è difficile liberarsi, in ricordo di un cinema italiano libero, realmente contraddittorio e immortale.

 

1. L. Cavani, Il portiere di notte, Einaudi, Torino 1974 p. X

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