Cosa succede quando, a trent’anni, dopo una laurea e poi un’altra non si riesce a trasformare i propri sforzi in qualcosa di stabile e definito, di cui sentirsi pienamente soddisfatti? Quando si cambia nazione pur di inseguire un futuro da non trasformare in solo rimpianto e poi restare comunque con la mente divisa tra città, realtà, opportunità dietro l’angolo? Ce lo racconta Cecilia Ghidotti nel suo esordio letterario Il pieno di felicità, pubblicato meno di un mese fa da minimum fax. E lo racconta nel modo più autentico possibile: mettendo in gioco sé stessa tra le pagine di un libro dal linguaggio contaminato dall’inglese e da citazioni musicali. Con la consueta attenzione che riserviamo alle opere prime, l’abbiamo intervistata per scoprire cosa c’è dietro e dentro e il suo libro – togliendoci anche un paio di curiosità sui suoi gusti musicali e lo stato dell’editoria.
Il pieno di felicità è il tuo esordio letterario. Quanto tempo hai impiegato nella sua stesura e come sei arrivata a minimum fax?
Si è trattato di un processo piuttosto lungo che ha attraversato diverse fasi. Il nucleo iniziale esiste da circa tre anni. La fase della stesura effettiva è durata poco più di un anno. A minimum fax sono arrivata grazie ad Alessandro Gazoia, un editor che aveva letto alcuni miei racconti in rete.
Nei ringraziamenti citi Violetta Bellocchio e il suo progetto Abbiamo le prove, a cui hai partecipato pubblicando dei racconti. In cosa è stato importante per te? Ha in qualche modo influenzato il tuo percorso da aspirante scrittrice?
Abbiamo le prove è stata un’esperienza molto importante, direi fondamentale. Io sono stata sempre stata molto attratta dalle scritture autobiografiche ma, per varie ragioni, avevo un po’ messo da parte la possibilità di poter scrivere in maniera scopertamente autobiografica. Invece Abbiamo le prove era proprio basato sull’intuizione di dare spazio a quel tipo di scrittura. Questo ha dato a moltissime ragazze la possibilità di raccontarsi e ALP ha rappresentato una specie di narrazione collettiva declinata alla prima persona singolare ma che rifletteva una dimensione più ampia, un humus condiviso, un atlante delle esperienze che stavamo tutte attraversando, insomma una geografia di esperienze familiari.
Quello che rendeva ALP diverso da un blog – allora ce n’erano ancora parecchi – non era solo la qualità della scrittura ma anche il fatto che il progetto fungesse da corazza. Tu andavi là fuori, raccontavi una storia molto personale ed eri sicura che questa sarebbe stata curata e protetta da una solida armatura e, nello stesso tempo, sapevi che avrebbe incontrato delle lettrici affini e già disponibili che magari avevano come te letto Bianca Pitzorno o Roald Dahl da bambine.
Nella prefazione all’antologia “Quello che hai amato” (UTET, 2015), nata proprio da Abbiamo le prove, Violetta Bellocchio scrive: “Scrivere in prima persona è comunque una forma di liberazione. Non sono gli altri a parlare di te; sei tu a raccontare te stessa […]”. Anche tu hai vissuto la scrittura nella sua funzione catartica? E cosa ti ha portato a scrivere e, nello specifico, al racconto autobiografico?
Per moltissimo tempo io ho pensato che la scrittura scopertamente autobiografica andasse evitata a tutti i costi, che il valore letterario stesse soprattutto nella capacità di un testo di trascendere il dato meramente referenziale per riuscire ad approdare, attraverso lingua, stile, trama a un racconto dei mondi che attraversiamo che non fosse una semplice riproposizione della realtà, ma ci mettesse uno iato per assumere così un valore universale. Io non credo di aver cambiato del tutto idea su questa cosa – per quanto vorrei essere in grado di riconoscere con più precisione come questa concezione della letteratura sia probabilmente il prodotto di un canone di valori e giudizi che è stato codificato nel tempo da parte di alcune forze che avevano più potere istituzionale di altre (maschi, bianchi, occidentali, tipo) – tuttavia ho imparato che io non scrivo così. E che questo non vuole necessariamente dire che non potessi scrivere tout-court.
Quindi autobiografia come forma di liberazione nella misura in cui mi sono scrollata di dosso, – con l’enorme privilegio di avere un editor e una casa editrice che mi dicevano, anche un po’ estenuati: VAI AVANTI! – un po’ di questa sovrastruttura, ho messo da parte il pudore e ho scritto di una cosa che conoscevo benissimo e che avevo a disposizione: la mia esperienza.
Se sia stato un processo catartico non saprei dire, se non sbaglio la catarsi dovrebbe presupporre una specie di calmo approdo finale e, per quanto io sia soddisfatta di essere arrivata in fondo, non credo che descriverei in questi termini il processo di scrittura e il suo esito. Un’amica ha usato il verbo esorcizzare per descrivere la funzione che il libro ha avuto su di lei. Ecco se questo libro funzionasse, anche solo un pochino, come un esorcismo collettivo in cui buttare fuori tante delle cose che ci hanno fatto soffrire, condizionati e paralizzati negli ultimi anni sarebbe una cosa meravigliosa.
Per quanto riguarda genere e stile, hai riferimenti letterari? Se sì, quali autrici e autori ti hanno influenzata di più?
Domanda gigante. Se la prendo in astratto rimango paralizzata e rischio di mettermi a fare l’elenco dei miei autori preferiti conditi con quelli che mi sento di dover citare per forza se no “signora mia questa cosa pretende di scrivere senza aver letto [insert autore che dovrei aver letto e non ho letto e fingo di aver letto]”.
Di conseguenza baro e parlo di alcuni moltissimi libri che sono stati con me negli ultimi anni e che con Il pieno di felicità, c’entrano. Sicuramente Clothes, Clothes, Clothes. Music, Music, Music. Boys, Boys, Boys che è, guarda caso, un memoir. L’autrice, Viv Albertine, è stata chitarrista delle Slits, un gruppo punk inglese di inizio anni Ottanta, del giro dei Clash. Io vivo a Coventry in Inghilterra e il libro racconta quella terra desolata che è l’Inghilterra di inizio anni Ottanta con una precisione tale che mi ha restituito dei pezzi di passato dell’Inghilterra che me l’hanno resa più comprensibile, il tutto nella cornice di una storia di formazione di ragazze che volevano suonare (purtroppo non è stato tradotto in italiano). In maniera simile funziona Caitlin Moran, che è anche in esergo del mio libro – con una frasetta che ne rappresenta la chiave e parla dello slancio che ci vuole per cavarsi di dosso un certo tipo di cinismo che ci portiamo addosso come una corazza. Insomma, Moran ha scritto un paio di romanzi di formazione divertentissimi e feroci come tutte le storie di formazione ben scritte che hanno protagonista una teenager che vuole fare la giornalista musicale (che è poi la sua storia). Questi sono ambientati nelle Midlands non troppo lontano da dove vivo io, tra anni Ottanta e Novanta, a questo punto possiamo concludere che mi interessa qualsiasi cosa parli di Inghilterra in quel periodo lì. Zadie Smith, NW per il discorso fortissimo sulle traiettorie di classe sociale in Inghilterra e Swing Time per il focus sull’amicizia e perché, relativamente al tema dell’amicizia, mi è perso una specie di riscrittura del ciclo della Ferrante, che io amo molto. Come amo qualsiasi cosa abbia scritto Domenico Starnone.
Un altro libro all’apparenza lontanissimo, che sta dietro e dentro Il pieno di felicità, è Piove all’insù di Luca Rastello. Rastello, che purtroppo non c’è più, era uno scrittore e giornalista talentuosissimo, una persona incredibile, uno che all’inizio degli anni novanta organizzò il trasferimento, durante l’assedio di Sarajevo, di non so quanti profughi a Torino e che, nonostante questo, mantenne sempre una posizione di critica feroce nei confronti delle buone pratiche della beneficienza di tante delle associazioni del settore: I buoni è tutto su questo tema e infatti non fu ricevuto benissimo all’uscita. Ad ogni modo sto cercando di arrivare a Piove all’insù, che è probabilmente uno dei romanzi più densi e profondi sugli anni Settanta italiani. È un libro che non ha uno sviluppo narrativo forte ma, tra le molte cose che fa, procede seguendo delle tracce molto tenui che dovrebbero contribuire a spiegare come mai la generazione cui anche lui apparteneva, che aveva fatto del rifiuto del lavoro e dello scardinamento di un certo tipo di relazioni sociali una bandiera, finì poi, nel corso degli anni Ottanta con lo sconfessare completamente, almeno nella sua lettura, questi presupposti (o con l’abbracciare un destino ancora peggiore: l’eroina o gli ultimi fuochi della lotta armata). Rastello porta avanti questo percorso attraverso il racconto di episodi che non sono ordinati cronologicamente e il suo sguardo cambia continuamente fuoco tra passato e presente. Io, più o meno verso la metà della stesura del mio libro, mi sono resa conto che stavo facendo una specie di calco molto meno brillante di quella struttura.
Celati per il suo sguardo sul paesaggio padano. Verso la foce racconta di un vagabondaggio dell’autore verso la foce del Po, un itinerario lento di intoppi e seccature piccolissime ma fastidiose come le vesciche ai piedi, di paesaggi, ad esempio la zona intorno a Rovigo, che su di me esercitano un fascino incredibile perché sono casa. Per dire, ad un certo punto lui usa l’espressione villette geometrili per raccontare un preciso modulo abitativo che infesta la pianura, io mi esalto tantissimo per questo modo di vedere e leggere lo spazio. E sempre in riferimento all’esplorazione dello spazio padano: Padania Classics. Partito come pagina facebook, Padania Classics ha finito poi con il produrre L’atlante dei classici Padani un meraviglioso catalogo fotografico di capannoni, rotonde e centri commerciali che costituiscono l’ossatura del territorio che va da Torino a Trieste, almeno. Questi posti per me sono uno spazio familiare perché è quello in cui sono nata e che paradossalmente ora mi manca e quindi ho fatto di tutto per mettere almeno un po’ di capannoni e centri commerciali nel libro.
Infine: Zerocalcare di Macerie Prime per il discorso sulle cose da salvare e sulle armature da levarsi, Giulia Sagramola con Incendi Estivi per la storia di formazione e la provincia e Tiphaine Riviére con Diario di una Dottoranda, probabilmente il primo testo che mi ha autorizzata a pensare che una storia autobiografica su un dottorato di ricerca poteva funzionare.
Sei tu la protagonista del tuo libro. Accompagnata però anche da altri giovani adulti, non esclusivamente italiani, spesso plurilaureati, costretti a spostarsi e/o reinventarsi in altri campi della comunicazione.
Il pieno di felicità è un libro intimo e personale, ma che prende inevitabilmente anche le sfaccettature del romanzo generazionale. Volevi fosse così?
Può sembrare una contraddizione ma pur avendo sposato in maniera sfacciatissima una postura autobiografica, io tenevo tantissimo che questo libro avesse una dimensione collettiva. Ora io credo che l’aggettivo generazionale sia un tantino problematico perché, tra le altre cose, è stato usato in maniera un po’ dispregiativa per definire tutte quelle scritture che sono proliferate in maniera incontrollata dopo che Tondelli lanciò l’iniziativa Under25 negli anni Ottanta. Siccome lì c’erano tanti giovanissimi su cui gli editori si sono lanciati un po’ a pesce, in seguito definire un libro generazionale significava soprattutto che dire era interessante solo per una fascia molto ristretta di lettori e che si sarebbe dimenticato in fretta. Io spero che questo ovviamente non sia il destino di questo testo, che non sia significativo solo per le mie coetanee e i miei coetanei.
In realtà volevo provare appunto a parlare non solo di me ma anche di storie limitrofe alla mia, di altri modi che si trovano di fare i conti col presente. Per molti di quelli che mi circondano il presente è una prospettiva assolutamente precaria e il futuro è sfocatissimo, ma nello stesso tempo mi andava anche di far vedere che ci sono quelli che invece sono rimasti meno paralizzati e stanno costruendosi un futuro attraverso dei compromessi e delle scelte secondo me estremamente coraggiose, per cui non c’è nessun giudizio nel mio sguardo, e nemmeno invidia, stiamo facendo tutto quello che possiamo date le condizioni strutturali di questo tempo.
Un’ultima cosa su generazionale. Io uso questo aggettivo all’interno del libro per definire il disco d’esordio de Le Luci della Centrale Elettrica, dico che è oscenamente generazionale e, anche se oscenamente non è un aggettivo positivo, in realtà io quel disco l’ho amato moltissimo per la freschezza, per la vicinanza che sentivo con il progetto. Per cui se una cosa è oscenamente generazionale nel senso di scopertamente, spudoratamente generazionale e arriva con quella forza lì, ben venga il generazionale.
Al di là delle difficoltà affrontate, la Cecilia del romanzo trova spesso modo di ritrovarsi, di ricordarsi che tutto va bene. Nel tuo libro dici e poi fai negare l’affermazione: ci hanno rubato il futuro. Te lo richiedo: secondo te, ci hanno rubato il futuro?
Anche questa domanda è gigantesca. Là fuori c’è tutto un contingente di studiosi che si occupa che so di sociologia, di critical theory che saprebbe rispondere molto meglio di me. Bifo, ad esempio, ha scritto tantissimo a proposito dell’esaurimento della nozione di futuro e delle prospettive che questa condizione apre. Ad ogni modo per come la vedo io, noi siamo figli e in qualche caso nipoti di persone che, generalizzando, hanno avuto a disposizione delle traiettorie esistenziali relativamente lineari. Hanno studiato, magari sono stati i primi della famiglia ad andare all’università, hanno trovato lavoro, si sono sposati e hanno fatto dei figli. Spesso è stato proprio l’aver studiato più dei loro genitori a rendere possibile questa cosa. Questo itinerario che per un certo periodo – diciamo dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, sto parlando sempre del contesto italiano ovviamente – sembrava potesse essere il destino di tutti, ad un certo punto si è inceppato e ha rivelato la sua natura di contingenza storico sociale. È diventato per certi versi inaccessibile. Quindi, mi verrebbe da dire, non siamo nemmeno noi con la nostra “assenza di futuro” ad essere l’anomalia, quanto piuttosto erano un’anomalia le traiettorie abbastanza lineari dei nostri genitori di classe media che hanno consentito loro di stipulare mutui trentennali offrendo come garanzia stipendi a tempo indeterminato. Quelle circostanze erano il risultato di decenni di movimenti sociali e lotte, conquiste che sono state poi sistematicamente smantellate da politiche molto precise. Noi ci troviamo a fare i conti con le conseguenze. Anche qui conviene leggere altro per approfondire, mi viene in mente ad esempio: Non è lavoro, è sfruttamento di Marta Fana.
Poi un altro movimento che secondo me c’è da fare, e che io provo a fare in un passaggio piccolissimo nel libro, è smettere di concentrarsi sulla scomparsa del futuro e guardare a quello che c’è da fare. Stiamo viaggiando a velocità vertiginosa verso la fine di questo pianeta compiendo tutta una serie di turpi cose nel durante. Quella è la scomparsa del futuro di cui dovremmo preoccuparci in maniera più urgente di tutte. Certo anche questa prospettiva è completamente paralizzante e a parte documentarsi, leggere, studiare e scendere in piazza quando si può io non so che suggerire.
Il tuo libro riflette una generazione non soltanto per i temi affrontati, anche per il versante musicale, che – lasciami dire – si avvicina molto ai gusti de L’indiependente. Vasco Brondi, The National; ma anche la partecipazione a festival come il Primavera e lo Sziget. Hai citato spesso versi di canzoni nel testo, nei momenti di riflessione ma anche in quelli più sereni. La musica ha avuto un ruolo importante anche nel tuo processo creativo?
Sono felice che sulla musica ci troviamo! Qui c’è anche una playlist di canzoni del libro.
Io ascolto musica più o meno tutto il tempo: a seconda dei periodi ci sono due o tre album che ascolto costantemente mentre lavoro, però devono essere album che conosco benissimo perché se no mi distraggo troppo. Carrie&Lowell di Sufjan Stevens e Not to disappear di Daughter sono stati la costante durante la stesura, e infatti il secondo è pure citato. La musica e i concerti sono importanti anche perché – oltre a fare da contrappunto alle mie giornate, a essere materia di chiacchiere e letture e ottima ragione per fare dei viaggi- a me esalta moltissimo poter riutilizzare dei brandelli di canzoni che amo. Mi piace pensare che funzionino un po’ come un catarifrangente: i testi hanno un loro significato, io li prendo e li metto a reagire in un altro contesto rispetto a quello per cui erano stati originariamente pensati. Allo stesso modo mi piace pensare che chi legge avesse già associato un certo significato a certi passaggi quindi, magari, ci sono diversi significati che vanno a stratificarsi su una stringa di 4-5 parole che magari l’autore ha buttato giù anche un po’ a caso.
Nel tuo libro nomini la Scuola Holden di Baricco, che hai frequentato personalmente, e un progetto di ricerca legato alle scuole di scrittura. Credi quindi che la scrittura possa essere qualcosa che è possibile imparare? E che consigli daresti ad altri giovani aspiranti esordienti?
Quella delle scuole di scrittura è una vexata quaestio non solo in Italia, come potremmo credere, ma a livello pressoché globale. C’è questo tabù grandissimo sulla possibilità di insegnare a scrivere. Ci sono istituzioni tipo il famosissimo Iowa Writers’ Workshop che se la cava con uno stratagemma piuttosto paraculo ma tutto sommato onesto. Sul loro sito scrivono che “writing cannot be taught but talent can be developed.” Penso soprattutto la seconda parte sia vera, che il desiderio di scrivere possa essere coltivato, nutrito e sviluppato e probabilmente sta in quello l’insegnare a scrivere. Per compiere questo processo di crescita le scuole, che si tratti di un corso a tempo pieno o dei molti corsi e laboratori serali che si trovano ovunque tenuti spesso da ottimi scrittori, sono indispensabili per moltissime ragioni. Provo a citarne alcune: il confronto con gli altri che serve a misurare quanto quella predisposizione o desiderio di scrivere regga la prova di una lettura esterna; le letture che possono dare gli insegnanti che solitamente ne sanno di più degli aspiranti autori; un’espansione dei propri orizzonti di lettura a autori e narrazioni che prima non si conoscevano.
Quindi sì, io credo le scuole di scrittura abbiano senso di esistere e che il dibattito sulla loro legittimità sia abbastanza demenziale. Questo detto, le scuole non rappresentano l’unico veicolo di accesso all’ambiente letterario, anzi quasi mai c’è un passaggio diretto dal corso alla pubblicazione, sono processi che richiedono parecchio tempo e altrettanto di frequente chi frequenta una scuola di scrittura, anche se rimane nell’ambiente della produzione culturale, magari finisce a fare un mestiere limitrofo a quello dell’autore. Poi a parte tre o quattro nessuno campa davvero di scrittura in Italia.
Per gli esordienti: Matteo B. Bianchi ha realizzato di recente un podcast straordinariamente preciso e utile che in sei agili puntate vi racconta moltissimo di quello che un aspirante autore dovrebbe sapere per iniziare a muovere i primi passi nell’ambiente editoriale. Si chiama appunto Esordienti. Andate, ascoltate, e ringraziate Matteo B. Bianchi perché ha messo a disposizione una risorsa preziosissima.
Ne Il pieno di felicità è presente un riferimento anche a un rifiuto ricevuto in passato, durante il quale è stata usata l’espressione “femmina piangiolina”. Pensi che nel modo di percepire la letteratura ci siano delle discriminazioni di genere?
La prima cosa che questa domanda mi fa venire in mente è quante e quali sono le autrici donne che ho studiato a scuola. Io non ne ricordo nessuna. E non è che all’università siano significativamente cambiate. In Sociologia della letteratura ricordo una certa varietà. Ma per il resto dov’erano? Dove sono?
Soft revolution, che purtroppo ora non c’è più, ma il cui archivio rimane per fortuna accessibile, ha dedicato molti articoli a questo tema tra cui questo che riflette in maniera molto sensata sull’assenza delle donne nel canone della letteratura italiana, al netto di alcune eccezioni, e conferma che l’assenza che ho sperimentato nel mio percorso formativo è tutt’altro che un’eccezione.
Per tornare alla domanda, sì penso che ci siano delle fortissime differenze nella maniera in cui autori e autrici vengono percepiti, tempo fa Giulio Mozzi ha compilato un micidiale decalogo intitolato “Dieci cose che se uno scrittore le fa vanno bene; se le fa una scrittrice, no.”. Che appunto fa venire voglia di piangere o in alternativa andare là fuori e fare a brandelli i presupposti che reggono questi ragionamenti. Ad esempio Carolina Capria con L’ha scritto una femmina ci sta provando, sta facendo un lavoro meraviglioso e collettivo nello sradicare l’idea profondamente radicata secondo la quale gli scrittori scrivono per tutti, mentre le scrittrici scrivono solo per le donne.
E già che ci siamo: un’altra cosa che personalmente detesto è legata al disprezzo nei confronti delle lettrici. Lo sappiamo tutti che le donne leggono più degli uomini. Di conseguenza rimango perplessa e dispiaciuta quando su testate molto rispettate come Le parole e le cose mi imbatto, nel contesto di un articolo sulla trasposizione televisiva del ciclo della Ferrante, in parole di esplicito disprezzo nei confronti delle lettrici, descritte come agguerrite e quindi incapaci di cogliere le strutture narrative profonde del testo che invece il critico comprende benissimo in virtù del suo, vien da pensare, maschio distacco e di conseguenza procede a spiegare a noi femmine.
Infine, il discorso della piangiolina è all’interno del libro un po’ più circostanziale di quanto appaia se si estrae quell’episodio dal contesto: per buona parte della stesura abbiamo lavorato per modulare in maniera efficace un tono lamentoso che in origine era davvero predominante e rischiava di diventare eccessivo. Per cui in quel passaggio ho messo insieme due cose diversissime: l’episodio un po’ romanzato del rifiuto e un interrogarsi su cosa vuol dire assumere la postura della vittima, alla ricerca di una via che metta insieme la consapevolezza di un torto subito, il dispiacere che comporta ma anche la costruzione di una reazione, che è poi una delle tensioni che ho cercato di mettere in atto nella seconda parte del testo
In ogni caso, il tuo libro è stato finalmente pubblicato in una veste meravigliosa. Avrai modo di stare in Italia per farlo conoscere?
Con l’unicorno è stato amore a prima vista: rosa, glitteroso, pop e, nello stesso tempo, inconfondibilmente decapitato. Insomma, secondo me dice in maniera molto chiara quel che c’è dentro il libro, senza essere didascalico.
I complimenti vanno indirizzati a Patrizio Marini e Alice Pagliarini, autori della copertina e della veste grafica.
Ho iniziato a portare in giro l’unicorno, finora sono stata a Bologna, Brescia e Torino. Altre presentazioni seguiranno in marzo. Per restare aggiornati ci sono i soliti modi: Minimum Fax sui loro canali, io invece sono su twitter e instagram come casamammolo.