Los Angeles, fine anni ‘60: in una nebbiosa mattinata invernale, Joni Mitchell e Graham Nash fanno colazione in un deli. Poi, passeggiando sul Ventura Boulevard, Joni nota un vaso esposto in una vetrina: “Prendilo se ti piace” – le dice Graham. Una volta tornati a casa, Joni pone dei fiori nel vaso appena comprato, mentre Graham accende il fuoco nel caminetto. Ispirato, Nash si siede al piano e in un’ora scrive quella che diverrà una delle sue canzoni più celebri, Our House.
In quel periodo, Joni Mitchell e Graham Nash formavano una delle coppie più famose sulla scena musicale di Los Angeles. Lui faceva parte del trio Crosby, Stills & Nash (con occasionale aggiunta di Neil Young), nato dai detriti di Buffalo Springfield e Byrds; lei aveva già pubblicato tre album di successo che l’avevano resa nota tra gli amanti del folk. La relazione tra Joni e Graham era però destinata a concludersi; e se in Our House, Nash aveva raccontato un momento felice del rapporto, sarà Joni a cospargere di note la loro separazione. La fine della storia con Graham aleggia infatti come uno spettro tra le canzoni di Blue, quarto album della Mitchell dopo Song to a Seagull, Clouds e Ladies of the Canyon. Uscito nel giugno 1971 e acclamato fin dalla sua pubblicazione, Blue, con le sue atmosfere derivanti dal folk rock californiano alternate agli umori più cupi dei brani al piano, è un disco scritto per essere ascoltato in una di quelle giornate che procedono incerte tra nuvole e sole.
Il Blue del titolo non è soltanto il colore che inonda la foto della cantante in copertina, ma quello stato malinconico che spesso si impossessa di noi. Joni sembra conoscerlo bene quando nella title track intona “Well there’s so many sinking now, you gotta keep thinking, you can make it through the waves”; o quando in Little Green allude alla messa in adozione di una figlia avuta a 21 anni, da cui fu costretta a separarsi a causa dei pregiudizi. In The Last Time I Saw Richard, un’amara ballata al piano in cui il Richard del titolo è un marito disilluso che trascorre le serate davanti alla tv, la Mitchell dipinge una storia tagliente come quelle incontrate nei racconti di Raymond Carver. “Only a phase, these dark café days” sentenzia Joni.
Una frase dal tono inequivocabile, che sintetizza l’umore di un’intera generazione. All’uscita di Blue, c’era ancora stupore e rammarico per l’oscuro epilogo dei sixties. Negli anni del flower power, Los Angeles aveva visto sbocciare una ricca scena musicale dominata dal rock dei Doors e Buffalo Springfield, ma anche dal suono più addolcito di Byrds e The Mamas & the Papas. I musicisti trascorrevano le giornate nell’ambiente libero di Laurel Canyon, mentre al calare della sera si dividevano tra il Troubadour e il Whisky a Go Go. Sul finire della decade però, quella che era apparsa come una realtà ideale, iniziò a mostrare anche i suoi lati d’ombra; nel 1966 una serie di scontri tra giovani e polizia animarono le notti sul Sunset Strip (episodio che ispirò il brano dei Buffalo Springfield For What It’s Worth). Nell’agosto del 1969 gli omicidi di Cielo Drive e i fatti del concerto dei Rolling Stones ad Altamont sconvolsero l’opinione pubblica; anche la Guerra in Vietnam continuava e con essa le proteste. I sixties, con i loro ideali di pace e amore, non avevano lasciato che polvere.
Avendo osservato da vicino certi eventi, Joni Mitchell tentò di esorcizzarli attraverso la musica. È quanto avrebbe fatto normalmente qualsiasi artista, ma i risultati ottenuti in Blue non sono certo comuni. Quando Joni confessa il suo straniamento, noi siamo pronti ad ascoltarla perché le sue emozioni sono anche le nostre. Come non riconoscersi nell’incipit di All I Want, “I am on a lonely road and I’m travelling” o nell’implorazione in coda a California, “Will you take me as I am?”. Una traccia che si apre con la protagonista a Parigi intenta a leggere notizie poco rassicuranti sui giornali: “They won’t give peace a chance, that was just a dream, some of us had”. California è un pezzo brillante, basato sulla nostalgia provocata dall’incessante girovagare del nostro corpo e della nostra anima. Uno dei temi ricorrenti in Blue è la separazione, che sia da un figlio, da una terra, o da un amante. Joni scrisse alcuni brani durante una vacanza in Europa, e quel misto di eccitazione e smarrimento che nasce dal trovarsi in un ambiente sconosciuto si infonde nei suoni e nelle parole di California e Carey.
Il leitmotiv principale dell’album è indubbiamente l’amore. Oltre a River e My Old Man, composte in seguito alla rottura con Graham Nash, anche This Flight Tonight e la delicata melodia di A Case of You sarebbero ispirate da relazioni; la prima con James Taylor, la seconda con Leonard Cohen.
L’amore di cui canta Joni è caratterizzato dalla solitudine; gli amanti sono sfuggenti, non le offrono ciò di cui bisogno, e lei cerca in qualche modo di sopravvivere alla sua vulnerabilità: “I could drink a case of you, I would still be on my feet” afferma nel famoso chorus di A Case of You.
Blue non è un disco immediato. Serve tempo per capirlo; occorre aver vissuto certe situazioni e avere migliaia di chilometri alle spalle; in altre parole, è necessario conoscere un poco la vita per entrare in sintonia con le canzoni di questo disco e la sua interprete. Non perché il linguaggio sia musicalmente complesso come lo sarà in Don Juan’s Reckless Daughter; tutt’altro. Gli arrangiamenti, costruiti su piano, chitarra, e dulcimer, sono ridotti all’essenziale; ma la voce di Joni e le parole donano a questi brani una sincerità con la quale non è facile confrontarsi. Era stata la stessa Mitchell ad ammetterlo in un’intervista con Cameron Crowe:
“Nell’album Blue, difficilmente c’è una nota disonesta nella voce. In quel periodo della mia vita non avevo difese personali. Mi sentivo come un involucro di cellophane su un pacchetto di sigarette. Non avevo assolutamente nessun segreto e non potevo far finta di essere forte. O felice. Ma il vantaggio fu che anche nella musica non c’erano difese”.
Ascoltare Blue è un po’ come osservare l’autoritratto che Pablo Picasso dipinse nel 1901, dove l’intensità negli occhi dell’artista è tale da costringerci, di tanto in tanto, a scostare lo sguardo. Quando però troviamo la forza di guardare, siamo ripagati da un’esperienza profondamente umana. Joni Mitchell fa qualcosa di simile: tratteggiando un autoritratto di cui non risparmia difetti e incrinature, riesce a farci sentire dolorosamente vivi.