Erano davvero tantissimi anni che l’elezione della canzone vincitrice del Festival di Sanremo non scaldava così tanto gli animi. A distanza di una settimana dalla vittoria di Alessandro Mahmood con la sua Soldi non si accenna a placare l’onda lunga delle polemiche.
Al centro, come vi avevamo raccontato, c’è il “ribaltone” ad opera dalla sala stampa e dalla Giuria di qualità che ha portato sul gradino più alto del podio il giovane talento milanese premiato nella sfida finale a tre da una percentuale minima del televoto rispetto a Ultimo, secondo classificato e ai ragazzi de Il Volo che hanno conquistato il terzo posto. Ma se i tre giovani tenori pop – abituati ormai alla gloria dei palcoscenici internazionali – l’hanno presa con incredibile eleganza e uno spirito quasi da veterani – bellissimo il buffetto di Ignazio Boschetto al vincitore incredulo – Ultimo in sala stampa, preda del nervosismo, ha scatenato con la complicità della platea di giornalisti una polemica capace di tenere tuttora banco.
Partiamo da una considerazione semplicissima: in ambito artistico poche cose sono odiose come le gare. Allo stesso tempo però concorsi, manifestazioni, festival ci sono sempre stati e ci saranno ancora in futuro perché restano un formidabile trampolino di lancio per chi vi prende parte, in termini di visibilità e di guadagno. Dai premi letterari a quelli cinematografici, passando per manifestazioni canore popolari come il Festival di Sanremo ogni verdetto non è certo il frutto di un giudizio divino ma di dinamiche umane e di personali gusti che restano però insindacabili di fronte all’accettazione delle regole.
La forza, il peso delle giurie non popolari – ma sarebbe meglio definirle non televisive – nasce oltretutto dal bisogno di bilanciare il peso impari che il televoto nelle scorse edizioni ha avuto sui ragazzi usciti dai talent, peso che talvolta – come in una legge del contrappasso – ha visto i termini della questione ribaltati. Come nel caso della finale 2017 di X Factor quando, nell’unica puntata aperta anche al pubblico generalista, i Måneskin si videro incredibilmente scippati della vittoria a vantaggio invece – corsi e ricorsi – del tenore pop Lorenzo Licitra.
Il nocciolo della questione è tutto qui: in come cambia la percezione che si ha della musica in funzione del proprio medium di riferimento.
La frammentazione della proposta – e per riflesso dell’ascolto – operata dalla rete ha sempre più spinto l’acceleratore verso una parcellizzazione dei gusti musicali creando, in definitiva, un sistema di vasi incapaci di comunicare e di parlarsi. Se, infatti, prima dell’avvento di un ascolto casalingo così diffuso, capillare e autonomo, la diversità aveva il volto riconoscibile di chi in un bar del paese sceglieva un pezzo o girava con un vinile sotto il braccio o, ancora, frequentava certi posti identificabili facilmente con una corrente musicale ben precisa, negli ultimi anni – fin da Napster e da Myspace – una certa pigrizia, la mancanza di curiosità e il venir meno di un interesse verso le pubblicazioni di settore – ormai sempre più in difficoltà e per questo spesso costrette a inseguire il click garantito dal cantante più famoso o dalla polemica quotidiana – hanno prodotto delle vere e proprie riserve indiane che passano il tempo a concentrarsi sul proprio settore ignorando tutto ciò che gli è esterno. È solo per casi contingenti – il Nobel a Dylan, il Pulitzer a Kendrick Lamar, un Festival o una tragedia terribile come quella di Corinaldo – che diversi mondi s’incrociano all’improvviso, finendo con il collidere in maniera aggressiva e violenta dietro a uno schermo – neutro ma non certo innocuo.
Nella polemica seguita immediatamente alla vittoria di Mahmood al Festival sono emerse duplici arroganze. Da una parte quella “popolare” incarnata nel proletariato di Ultimo, ragazzo di appena ventidue anni, romano di San Basilio, decisamente avanti nelle preferenze del televoto, dall’altra quella bollata in maniera francamente inspiegabile come elitaria, rappresentata dalla sala stampa e dalla Giuria di qualità e – per estensione – dagli esperti di musica di ogni ordine e grado che affollano il paese e rischiano di assomigliare sempre più alla vituperata specie degli allenatori dal divano di casa.
La storia è come sempre più complessa di quello che ci viene raccontato. Fermo restando la non eleganza di Ultimo sul palco e in sala stampa, è vero anche che arrivare all’ultima votazione consapevole di avere quattro volte i voti del tuo rivale e vederlo vincere grazie ai voti degli stessi giornalisti che per giorni te l’hanno tirata dandoti del favorito sa più che di beffa – le regole erano chiare – di presa in giro. Dall’altra parte “il ragazzo” Mahmood si è trovato, suo malgrado, al centro di una strumentalizzazione che lo vuole ad ogni costo come l’”arabo” vincitore sotto il governo xenofobo gialloverde. Così Ultimo si è visto strappare via – certo con sue evidenti responsabilità (che come da lui stesso dichiarato “non sa gestire” in una settimana contraddistinta da una sorta di via crucis fatta di scuse e precisazioni, la cui onestà è un discorso che riguarda la sua sola coscienza) – il ruolo disegnatogli addosso dagli stessi giornalisti appena lo scorso anno: quello del ragazzo di strada in un quartiere difficile, capace di ribellarsi a un destino criminale grazie al talento e alla musica. Mentre oggi – non prima del Festival – si decide di andare a scavare tra le sue amicizie neofasciste e di estrema destra – ma davvero? E che vi aspettavate che frequentasse un gruppo di salesiani?
Alessandro, invece, nato e cresciuto nel Gratosoglio di Milano, si è visto subito costretto a dichiarare – dall’altra sponda della strumentalizzazione – di “sentirsi italiano al 100%” per sfuggire alla morsa mortale della propaganda politica. Lui che in fondo in tutto il bellissimo EP Gioventù Bruciata dimostra la forza autentica delle radici che sottendono la sua storia – ascoltate il brano che dà il titolo all’EP per capire quanto talento si nasconde dietro lo sguardo malinconico di un ragazzo di ventotto anni che in questa settimana si sta dimostrando come l’unico personaggio serio di tutta questa storia – che è anche la storia di un padre egiziano, come ognuno di noi potrebbe raccontare di un’appartenenza a un sentire, a una comunità, a un sogno, a un’idea che non necessariamente debba coincidere – come in un terrificante sogno di purezza – con i confini del proprio paese.
I tempi che corrono, la spaventosa direzione di xenofobia, intolleranza e odio per l’altro verso cui si spinge il paese negli ultimi anni hanno gettato le basi per la tempesta perfetta. Ma i post del Ministro dell’Interno Salvini che vengono rilanciati a tutta stampa – in un meccanismo che ormai vede confondersi il diritto di cronaca, l’ossessione del trend topic e l’amplificazione di una propaganda implacabile – le assurde richieste d’intervento sul regolamento del Festival fatte il giorno dopo dal Ministro del Lavoro Luigi Di Maio in costante affanno nell’inseguimento dell’agenda dettata dal suo ben più abile alleato di governo – come anche la proposta leghista di aumentare il numero di canzoni italiane nelle radio (quindi di canzoni del milanese Mahmood) – fanno assumere alla storia più che le dimensioni del dramma quelle di un’autentica farsa. È certamente un soffiare sul fuoco – ed è un fatto estremamente grave – ma più che un allarme diretto contro Mahmood o l’ennesimo attacco verso un presunto universo che farebbe capo al PD – come se i più attenti avessero dimenticato la sconcertante ritirata sullo ius soli o le politiche sull’immigrazione dell’allora ministro Minniti – appare come una chiamata alle armi rivolta all’interno delle proprie fila, attraversate dalla sensazione strisciante di combattere una battaglia che nel migliore degli esiti – della loro prospettiva – può solo rimandare una resa nei confronti di un paese reale – non partitico – che, nonostante i pesi pesanti che porta alle caviglie, prosegue la sua strada verso il futuro.
Resta però la frattura in cui tutto questo è stato reso possibile. La colpa di Mahmood è di aver portato al Festival una musica “degenerata” accompagnata da una serietà e da una compostezza che a differenza di un Achille Lauro non gli permette di essere etichettato nella categoria – in fondo rassicurante – del weird o del freak, del fenomeno reso innocuo dal suo stesso eccesso (la lista festivaliera è lunga e spesso nobile: dalle movenze di Celentano allo pseudo punk di una bellissima ragazza di origini albanesi di nome Anna (H)Ox(h)a, fino all’effetto cartoon di Elio e le Storie Tese).
Mahmood è incredibilmente pericoloso perché meravigliosamente normale. Perché ha una voce bellissima, un falsetto incredibile, un timbro riconoscibilissimo e una tecnica che non ha mostrato cedimenti su un palco che ha fatto anche vittime illustri. Perché ha alle spalle una produzione eccellente grazie a Charlie Charles (trattenete istinti nazionalistici contro un’invasione britannica o peggio ancora yankee: all’anagrafe fa Paolo Alberto Monachetti da Settimo Milanese) il ragazzo che sta ridisegnando – piaccia o meno – il panorama musicale italiano e che sta dietro il successo di Sfera Ebbasta, Ghali e la Dark Polo Gang. Soprattutto Mahmood è pericoloso perché la sua vittoria è assolutamente reale, specchio di un paese che la musica la ascolta e la compra. Soldi è il singolo più venduto secondo la classifica Fimi, quello più ascoltato nelle radio (classifica EarOne che vede al secondo posto proprio I tuoi particolari di Ultimo), il singolo italiano più ascoltato di sempre su Spotify, sia nell’arco di ventiquattro ore che in quello di una settimana di rilevamento con finora oltre dieci milioni di stream, e ingresso più alto di sempre di un artista italiano nella Top50 Global (posizione 40). Il suo è un successo talmente grande da spingere la casa discografica ad anticipare addirittura l’uscita del disco al 22 febbraio.
E allora cos’è successo al Festival e di cosa diamine stiamo parlando? È successo che in gran parte a partecipare al televoto – giudizio televisivo, non popolare – sia stata una fetta – ampia quanto si voglia ma minoritaria – il cui rapporto con la musica è mediato da media, in primis quello televisivo, in maggioranza superati dall’evoluzione tecnologica. Che nel preciso istante in cui – per scelte comunque coraggiose della direzione artistica – si sono trovati davanti a un Festival diverso dal solito hanno percepito un assedio di barbari dei quali non conoscevano né il successo né la portata. Al momento della collisione ecco allora subentrare un senso di smarrimento, di estraneità, di disagio.
Il problema è – e resterà sempre – la reazione davanti alla diversità, all’estraneità, all’altro da noi. È qui che c’è – più che nelle reazioni spropositate dei politici di professione – il vero dato politico di questa 69° edizione del Festival: la nostra reazione davanti a ciò che non ci rassicura perché ignoto. È da questa reazione, dai possibili diversi approcci alla diversità che si giocherà la partita sull’identità del nostro paese.
I melodici – i popparoli li avrebbe chiamati Demetrio Stratos – assuefatti al culto della Pausini, degli Antonacci, dei Ligabue, dei Ramazzotti, dei Tiziano Ferro e del Vasco più innocuo, non hanno nemmeno gli strumenti per comprendere un tipo di musica differente perché ignorano un universo sonoro del quale non conoscono le coordinate. Dall’altra parte del campo – va però detto con onestà – in chi invece ascolta una musica lontana dal mainstream c’è spesso e volentieri un’incapacità di comprendere quali corde vengano toccate in presenza del tormentone e del grande successo ed è proprio questa distanza, questa incapacità di cogliere un’emotività diversa dalla propria – degradata a facile sentimentalismo – ad attirarle l’accusa di élite nella sua accezione negativa.
In entrambi i campi esiste una spocchia che porta inesorabilmente alla presa in giro, allo sfottò, alla denigrazione fino a forme più estreme di avversione, d’intolleranza, di odio.
Non è un caso se, in effetti, negli ultimi due anni abbiamo assistito al fiorire dell’itPop. Genere piombato sul mercato proprio come un ibrido realizzato in provetta, capace di unire in parte i due mondi, contraddistinto com’è da una scrittura – che emerge pienamente nel lavoro di Calcutta – che ha una maggiore messa a fuoco ma è sporcata da uno spostamento laterale rispetto allo schema classico da classifica e che non rinuncia – pur dentro soluzioni musicali certamente meno scontate – a quell’ossessione – e specularmente quella capacità, perché provateci a voi a farlo – verso il ritornello orecchiabile che contraddistingue il pop anche degli autori più detestati.
Ma al di fuori del fenomeno itPop esiste, dunque, una frattura netta tra l’ossessione per la melodia, per l’orecchiabilità e finanche per il bel canto (che è quello che tiene vivo Il Volo) e la ricerca di un altro suono, di un’altra strada, di un’altra possibilità musicale. Ed è all’interno di questa frattura che si è consumato lo psicodramma sanremese: tra melomani e non melomani, con i primi incapaci di realizzare la distanza imbarazzante che emerge tra i punti di riferimento classici del genere e la qualità della scena pop attuale e i secondi incapaci di vedere oltre il margine spesso troppo ristretto del loro steccato.
Il successo di Mahmood dimostra però che la scelta di una cosiddetta élite – che si è contrapposta, almeno in parte a un verdetto che è meramente televisivo, lecito quanto si voglia ma né rappresentativo né popolare – è stata totalmente in linea con i gusti del paese reale, di quello che ascolta, che compra, che scarica, che ascolta la musica dal vivo.
La vittoria di Mahmood è il bambino che grida che il re è nudo, che il Festival è una manifestazione che non ha più nulla di nazionalpopolare perché non sono più tempi di nazionalpopolare ma che, oltre ogni previsione, è riuscito a rinnovarsi, facendo scoprire un’Italia migliore perché più curiosa, più aperta a ciò che i giovani hanno da dire, a un linguaggio – non solo musicale – più fresco e nuovo. E davvero non è poco.