Il nostro meglio di Alessio Forgione: avere vent’anni non è il parco giochi che direste

Se mi chiedessero di riavere vent’anni, non accetterei. Lo penso con una certa convinzione. A vent’anni non avevo la minima idea di chi fossi, e questo basta. Perciò quando lo scrittore Alessio Forgione parla con le persone del suo ultimo romanzo Il nostro meglio (La nave di Teseo editore) e dice che i vent’anni non sono un’età aurea, lo comprendo. Ci sono le aspettative degli altri, ci sono le strade da imboccare, ci sono il divertimento e tutto quel fuori (dove si va? che si fa?) perché il dentro è un gran casino. Me lo ricordo com’era, me lo ricordo quanto mi sono divertita, ma mi ricordo anche quanto fossi incasinata.

Il romanzo di Forgione, che arriva dopo quella meraviglia di Giovanissimi (candidato al Premio Strega 2020) e l’esordio sorprendente con Napoli mon amour, è il racconto di un diciannovenne, Amoresano, che frequenta Scienze politiche, suona con gli amici, ricerca libri introvabili a Port’Alba e sa che la nonna – una donna fondamentale per la sua crescita e alla quale è molto legato – morirà da lì a qualche mese per un tumore ormai intrattabile. Ma è anche il racconto di Amoresano bambino, che vorrebbe non andare a scuola per trascorrere più tempo con i nonni e andare a fare la spesa in giro nel quartiere di Bagnoli. Il bambino e il ventenne si inseguono, si guardano e sono entrambi sensibili, dispettosi, affamati di storie, guardinghi e capaci di riconoscere la bellezza. Gli anni spensierati – quell’infanzia tra mercati, giochi di carte, case affollate – sfumano nel presente narrativo che è quello in cui Amoresano fa i conti con una separazione sempiterna, implacabile. Il tempo bastardo che attraversa è fatto però anche di legami: quello con Angelo, l’amico sensibile, che un giorno assediato dalla noia e dalla prospettiva di finire prigioniero nel negozio del padre, parte per Londra. Quello con Mariarosaria, che manda avanti la tabaccheria di famiglia e stringe con Amoresano un profondo rapporto di amicizia con i discorsi, i silenzi, i film e molti libri. Quello con Anna, per certi versi affine a Mariarosaria (entrambe schive, entrambe eleganti d’animo), ma di un’altra estrazione sociale. Fa la barista in un locale del centro storico e l’intesa con Amoresano è una gita al mare perenne.

 

La malattia della nonna è un ago della bilancia, un peso sulla testa, sull’anima; un evento che vincola movimenti, pensieri, relazioni. È una condizione fagocitante, che non lascia spazio alla spensieratezza, presente invece nell’infanzia di Amoresano. Napoli è la geografia: Bagnoli e Soccavo sono i quartieri in cui avvengono le azioni, con zoomate sul centro storico, su Fuorigrotta. Anche questa volta Alessio Forgione traccia la sua città: per niente goliardica, popolare, melanconica, inquieta. La musica, la letteratura (Nizan, Pavese, Ortese, Morante e tanti altri) sono presenze nella storia, in questa più che nei precedenti lavori di Alessio Forgione. I libri, i dischi, i concerti sono sguardi, esercizi di immedesimazione, evasione: Amoresano è ciò che ascolta, ciò che legge e questo stato di cose è buona parte del percorso emozionale del protagonista, materiale per la sua voce narrante.

Chi ha letto Napoli mon amour sa che Amoresano era il protagonista di quel romanzo. Alessio lo riabbraccia ma senza alcuna connessione con quel libro: sono due storie indipendenti e non interconnesse, se non nella ricerca letteraria. Mi spiego meglio: la continuità tra i lavori di Forgione è nel tentativo di raccontare l’essenza, le piccole grandi verità del quotidiano, senza mentire. Napoli mon amour, Giovanissimi e Il nostro meglio sono una trilogia della giovinezza e non si somigliano. A differenza che in Giovanissimi, dove le parole, le frasi erano lampi o sassi che emergevano dal racconto quasi distaccandosene, ne Il nostro meglio la scrittura è più diluita nel flusso della narrazione, meno impressionante ma sempre laconica, incisiva, agile. La voce di Alessio è pavesiana e il suo sguardo sulle persone, sulle cose è interrogativo. Forgione è un ottimo paroliere, non ha paura di nominare il dolore e di farlo attraversare al lettore, non consola ma domanda. Ha ancora tanto da svelarci, da dirci e questo emerge chiaro, nonostante una produzione letteraria già intensa.

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