Guardate come sono belli e sorridenti i volti degli attori in copertina: è il cast di Pulp Fiction al suo massimo splendore nel 1994. Sono passati 24 anni.
This is Why Uma Thurman is Angry è l’articolo del New York Times con cui l’attrice americana Uma Thurman ha scelto di rompere il silenzio, unendosi al coro di voci che hanno denunciato le molestie del produttore americano Harvey Weinstein. La Thurman racconta e scava la storia di un intero sistema di potere che va avanti da anni, una storia fatta di silenzi, coperture, ammiccamenti e complicità, e che ha finito per risvegliare anche il senso di colpa del regista Quentin Tarantino, che pochi giorni dopo la denuncia della Thurman confiderà alla stampa di aver preso sempre sottogamba certi modi di Weinstein, di non aver fatto abbastanza, di sentirsi “complice” (- in realtà i dissapori tra Quentin e la Thurman sono molto più profondi del puro affaire Weinstein).
Il racconto delle molestie e degli assalti sessuali ad opera di Weinstein negli ultimi mesi non si è mai fermato, diventando quasi una speciale narrazione di sottofondo per le nostre giornate. Ogni nuovo particolare ci faceva fare i conti con la verità della macchina dei sogni che è Hollywood, e con quel micro-sistema che è il cinema. Anche se poi, a dire il vero, presto il raggio delle denunce si è allargato, travalicando i confini del cinema e raggiungendo realtà diverse, dall’arte alla piccola azienda produttrice di scarpe, assumendo le pose di un’endemia. La storia di Uma Thurman è – anche – la storia di un’attrice americana che nel 1994 raccoglie un larghissimo successo con il film Pulp Fiction, firma di Tarantino, produzione di Weinstein. Ma quella di Uma Thurman non è l’unica vicenda. È interessante allora entrare in quello che chiameremo post-Weinstein, ovvero come mai la frattura nata dalle prime denunce a Weinstein abbia avuto una forza così devastante, talmente devastante da riuscire a penetrare le nostre menti e creare un vero e proprio cambio di paradigma. Come mai l’era post-Weinstein ha dato coraggio a tante donne, ha stimolato discussioni accese, ha travolto la vita di tanti protagonisti, accendendo persino un dibattito nel sottobosco tra arte ed etica? Come mai il post-Weinstein ha agito come forza distruttiva e innovatrice allo stesso tempo? Per farci un’idea dobbiamo andare agli inizi di questa storia.
Una storia di abusi di potere
Lo scorso 5 Ottobre il New York Times porta alla luce il caso degli abusi e assalti sessuali di Weinstein – e sembra subito chiaro che parliamo soprattutto di una storia di abuso di potere e silenzi che si è protratta per anni, per convenienze e connivenze vere e proprie nel sistema del cinema americano. Harvey Weinstein è a capo della Miramax e della Weinstein Company, ha finanziato film dalla vena più indipendente come quel Pulp Fiction di Tarantino che è diventato un cult generazionale – nessuno di voi è esente dalla visione della sua filmografia. È stato, inoltre, finanziatore del Partito Democratico americano, ha finanziato le campagne della Clinton e di Obama. Tutti hanno una foto con Weinstein, tutti sembrano amarlo, tutti i personaggi in vista posseggono un ricordo che li lega al produttore americano. Eppure – da questo momento Weinstein diventa solo.
Pochi giorni dopo il New Yorker continua ad approfondire gli scenari dell’inchiesta che riguarda Weinstein, riportando le testimonianze di attrici che hanno subito abusi sessuali dal produttore, e che per anni hanno vissuto nell’imbarazzo e nel terrore di non poter raccontare nulla. Ma c’è di più. Come scrive Ronan Farrow, almeno quattro attrici (tra cui Mira Sorvino e Rosanna Arquette) hanno confidato di sospettare di essere state messe in condizione di non lavorare dopo aver rifiutato le avance di Weinstein. Quello che emerge allora è un vero e proprio sistema di potere messo in piedi dal produttore hollywoodiano, dove il messaggio di sottofondo è: o accetti le avance e le proposte o la tua carriera cinematografica ne esce fuori a pezzi. Non è solo una storia di abusi sessuali, è una storia che solletica l’antico pregiudizio popolare sul sistema Cinema, tant’è che c’è chi si dichiara per niente stupito dall’inchiesta. Quello che ne esce fuori è un grande romanzo americano sull’abuso di potere, che chiama i vertici a rapporto, e tutti i silenzi che si sono rincorsi per anni nelle ramificazioni di quei vertici. Perché i Clinton hanno una collezione di foto con Weinstein – è possibile che non ne sapessero nulla? Perché tutti hanno coperto il sistema? – E anche, come mai lo stesso genere di accuse non viene preso in considerazione quando riguarda Donald Trump?
Tra le voci che hanno denunciato quello che chiameremo per semplicità “il sistema Weinstein” c’è quella dell’attrice italiana Asia Argento, che racconta al New Yorker la sua personale esperienza di abusi subiti dal produttore americano all’età di 21 anni. La storia di Asia non è molto differente dalle altre testimonianze che sono uscite fuori a riguardo di Weinstein, dai racconti il quadro è quello di una sorta di sistema standard con la complicità dei collaboratori del produttore: si lasciava solo Weinstein con l’attrice di turno, e da lì cominciava tutto. Asia Argento ha raccontato di essere stata costretta al sesso orale da Weinstein. All’epoca era giovane e di fronte aveva uno dei più grandi magnati dell’industria cinematografica del mondo: Weinstein da uomo esperto sa quanto sia vincente la psicologia del ricatto che continua indisturbato a portare avanti da tempo. Le vittime sono tutte giovani, forse alla ricerca di una carriera cinematografica, sono portate a pensare che è così che vada il mondo e che denunciare un grande magnate come lui sarebbe una rovina che gli metterebbe contro l’intero sistema americano.
Eppure al momento della denuncia della Argento (e delle altre attrici) qualcuno non riesce a nascondere i propri dubbi. Perché aspettare così tanto tempo per denunciare Weinstein? Perché lasciar passare decenni prima di raccontare cos’è successo? Il pruriginoso victim blaming scorre sotterraneo allo scoperchiamento di un sistema di potere: la Argento e le altre attrici – rompendo il silenzio – contribuiscono a una grande inchiesta che scava dentro il potere americano, e ci fa fare i conti con una storia di ricatti, silenzi e complicità andata avanti per decenni. Eppure il dito indice popolare si scaglia contro le soubrette e le attrici che hanno ceduto (non tutte), e che hanno parlato solo quando la loro carriera non era andata come prevedevano andasse.
In realtà tutto questo non ci interessa. Quel che sappiamo da qui in poi è che la miccia è stata appena accesa, e sta per smuovere tutto.
L’amplificazione social e #metoo
Difficile ignorare che viviamo nell’epoca della viralità, e sarà banale ribadire come internet abbia aperto a una grande connettività tra gli esseri umani. Ricordate la Primavera Araba, e quanto twitter sia stato fondamentale a connettere le persone e nel dare una spinta ulteriore a quei moti? È solo una premessa necessaria per comprendere quanto l’aspetto puramente tecnologico abbia contribuito alla viralità di un movimento e di un sentimento che si è fatto largo dopo le denunce a Weinstein e al suo sistema di potere. Se ne è parlato come di un cambio di paradigma, di una presa di coscienza collettiva dal retrogusto femminista, di una nuova sensibilità: ma senza i social network – e la base tecnologica che ha contribuito a diffusione e amplificazione del messaggio, tutto questo non sarebbe stato possibile. Il racconto del sistema Weinstein ha stimolato uno dei più grandi “ripensamenti” globali su larga scala – dove la grande storia americana di harassement e ricatti era solo la punta dell’iceberg di un sistema molto più grande, che su tutti i livelli raccontava le piccole storie quotidiane di ogni donna alle prese con abusi e ricatti. È sull’onda di quel sentimento che è nato l’hashtag #metoo, così virale da diventare un vero e proprio movimento del tempo, e da attrarre intorno a sé storie quotidiane, tra denunce di esperienze sul posto di lavoro e nella vita di tutti i giorni.
Si era aperta una voragine, che coinvolgeva e comprometteva tutti. Chi ha memoria di quelle calde giornate in cui si susseguivano racconti di molestie, stupri, ricordi di gioventù, epifanie remote riemerse dal passato, saprà di essersi fermato – anche solo per un attimo – a “ripensare” se stesso, e il proprio rapporto con gli altri. Quanto eravamo anche noi vittime di un sistema di potere e abusi, quanto eravamo anche noi carnefici, quanto eravamo anche noi complici, quanto eravamo stati zitti, e quanto eravamo responsabili? – giacchè per scardinare un sistema di potere così complesso, ramificato e occulto, bisogna ripensarsi anche in qualità di responsabili.
Il disegno che si andava costruendo poco a poco era quello di un sostanziale squilibrio di potere tra uomini e donne, laddove troppo spesso le donne erano state storicamente e culturalmente messe in condizione di “accettare” abusi, ritorsioni, ricatti, fino a vere e proprie molestie. Naturalmente nella grande narrazione social si mescolavano storie diverse, e per un attimo anche il linguaggio sembrò avere un momento di smarrimento e ripensamento, stordito nella ricerca dei significati autentici delle parole. Per esempio, qual era davvero l’ampiezza e il raggio della parola molestia? – che significato dovevamo attribuire a quella parola? Fino a che punto dovevamo essere in buona fede nel credere a tutte le storie che si inseguivano sui profili social delle persone? Come potevamo scongiurare il pericolo che si creasse una sorta di contro-potere basato sul contro-ricatto? Perché volendo essere onesti, in questo mondo imperfetto, è difficile credere a tutti.
In quel clima che abbiamo definito come un grande ripensamento inizia a farsi largo una ramificazione di quel dibattito, che sarà evidente quando la rivista francese Les Inrockuptibles dovrà pubblicare un comunicato redazionale in cui si scusa con i lettori per la scelta di aver dedicato una copertina del mese di Ottobre al cantante Bertrand Cantat, ex leader del gruppo rock francese Noir Désir, ma anche colui che ha messo fine alla vita dell’attrice francese Marie Trintignant. Il sotto-dibattito è partito già in quel momento, al ritmo della domanda se sia giusto separare arte ed etica, o se possiamo permetterci di ascoltare musica, godere di opere d’arte e leggere libri senza essere ossessionati dalla vita e dalle implicazioni biografiche e morali di chi quelle opere le ha create. L’arte è ideologica, morale, o racconta la vita in quanto tale – nel classico senso di art pour l’art? Il caso di Roman Polanski riesplode, rinnovato dalla nuova linfa del tempo, nel post Weinstein. Asia Argento ha un’improvvisa nuova epifania dal passato, e dichiara di essere pentita di aver firmato una petizione a favore di Polanski in gioventù – non lo sapevo, ero giovane.
Parallelamente, nei giorni della grande narrazione, l’equivoco che potesse essere una storia solo al femminile viene spazzato via dalle storie di abusi e ricatti che riguardano anche il mondo maschile, in particolare omosessuale. Si tratta comunque di episodi minori, una parte esigua della narrazione, in cui il caso più eclatante a venire alla luce è stato quello di Kevin Spacey – accusato di abusi nei confronti di diversi ragazzi per tutto il corso della sua carriera. Gli costerà caro, verrà cacciato dalla serie House Of Cards, ed entrerà nella famosa comunità di recupero per sesso-dipendenti dove è finito anche Weinstein dopo le denunce. Intorno a loro, tutti i silenti co-protagonisti che in questi anni hanno assecondato e compiaciuto Weinstein e Spacey (produzione Netflix compresa), continuano il loro mestiere. Ma questa è un’altra storia, e chissà se un giorno verrà raccontata.
Tra riscatto e puritanesimo
L’11 Dicembre il New Yorker pubblica un racconto che diventa virale (se volete capire il mondo in cui viviamo tenete sempre presente la parola – virale). L’autrice è Kristen Roupenian, che probabilmente non si sarebbe mai aspettata che quella storia potesse diventare il simbolo di un intero movimento che era nato nel post Weinstein. Cat Person – questo il nome del racconto – diventa l’epicentro di quella nuova sensibilità contemporanea che potremo chiamare neo-sensibilismo. Molte donne condividono il racconto, sentendosi emotivamente vicine alle vicende della protagonista. Già – ma di cosa parla Cat Person?
Qui troverete una brevissima sintesi – potete naturalmente verificare la veridicità della sintesi leggendo il racconto in questione, potete fidarvi, oppure potete passare al paragrafo successivo. Margot ha 20 anni, Robert 34, si incontrano, sembrano piacersi, iniziano a scambiarsi qualche messaggio sui mezzi di comunicazione che ben conoscete, flirtano – nel senso autentico che ha questa parola -, ovvero sono entrambi audaci, ammiccanti, e interessati a comunicare. Dunque decidono di incontrarsi, per un vero appuntamento. A questo punto è già ovvio che a ognuno di voi sarà capitato qualcosa del genere, al di là dei particolari: da un lato la ventenne che vede nel trentaquattrenne il fascino di libertà e indipendenza che lei ancora non ha realizzato, dall’altro il trentaquattrenne che vede nella ventenne l’occasione di continuare a restar giovane e irresponsabile, e anche una bella avventura sessuale – perché no. Naturalmente entrambi sono consenzienti, decidono liberamente di incontrarsi, finché non finiscono a casa di Robert – dove la magia per Margot d’improvviso si rompe. Il fascino del 34enne si scontra contro la realtà dell’arredamento della casa di Robert, e contro il fisico poco atletico che finalmente lei riesce a vedere sotto la maglietta. A lui lei continua a piacere, e per Robert sembra naturale continuare, non ha il minimo sospetto di cosa si agiti nella testa di Margot, e del resto lei non comunica di aver cambiato idea. Dopo essere stati a letto, con prospettive diverse – a Margot non piace e avrebbe voluto fermarsi, a Robert sì, e non ha la minima idea che a Margot non piaccia – si lasciano andare ognuno alle proprie vite. Peccato che Robert creda ci sia qualcosa in più, e provi a ricontattare Margot, che invece decide di scomparire. Non dice niente, semplicemente scompare. Okay, a questo punto Robert avrebbe probabilmente dovuto intuire che un flirt interrotto è una decisione, invece va a cercarla nel bar dove sa di trovarla, e lì affronta la verità di vederla insieme a un altro. A questo punto le manda il messaggio della discordia in cui la definisce: whore/puttana.
Con Cat Person il paradigma del post Weinstein sembra allargare ulteriormente il suo discorso, riuscendo a comprendere in un sol colpo un problema linguistico (la parola “puttana” è offensiva e fa parte di un retaggio culturale e del sistema di potere di cui si parlava più su?, oppure è un semplice sfogo umano di rabbia e passione?), un problema comunicativo (in che modo possiamo scongiurare il pericolo della mancanza di comunicazione durante l’atto sessuale, che ci impedisce di comprendere chiaramente quanto sia volontario quell’atto? – davvero dovremmo affidarci ai contratti di consensualità in scenari futurabili?), e il problema dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità post-weinsteiniana. Cat Person diventa il racconto perfetto per l’America post-weinsteiniana, dove la vita si appiattisce sul bianco e nero delle letture ideologiche di testi e opere.
Eppure – persino un materialista storico come Slavoj Žižek, ci avvisa dei pericoli di un cambio di paradigma del genere nell’economia dei rapporti umani, e di come il politicamente corretto possa avvilire il discorso del consenso sessuale. Quel che dimentichiamo quando parliamo di sesso è che sia vita, con tutte le sue belle o tristi vicende di corteggiamento a corollario, una parte della vita da cui non possiamo aspettarci nessun genere di contratto. Un’altra prospettiva interessante che ci invita a guardare Žižek è come il movimento #metoo possa essere solamente un riflesso conservatore di ritorno dopo l’ondata liberatrice del Sessantotto, una sorta di glorioso rinculo della storia. Siamo così andati avanti nella libertà sessuale da avere un irrefrenabile bisogno di stabilire delle regole? Di creare nuove definizioni di confine intorno al concetto di harassment? Tutto in fondo è attribuile – al solito – alla flessione culturale di una sinistra che ha perduto la sua vena progressista? La sua vocazione liberatrice?
In questo clima nasceranno le prime applicazioni per il consenso sessuale, giacché bisognerà anche prender nota della congiuntura tra ciò che è trendy e l’economia globalizzata oggi. Le app e le proposte di legge per il consenso sessuale, sono soltanto lo specchio di un movimento che si propone come cambio di paradigma e sensibilità. Uno spazio di riflessione che è così alla ricerca di sé da prendere parodistiche pieghe. Prendiamo il caso dell’intervista a Jonathan Franzen sul primo numero della nuova Repubblica in cui racconta come sia difficile – per lui – separare arte ed etica nell’opera di un’artista. Non è solo Jonathan Franzen, è come se una grande cappa conservatrice ne fosse uscita fuori rinnovata nel rapporto con l’opera d’arte. Quello che questo significa potremmo dirlo in modo più semplice così: niente film di Polanski e Woody Allen, togliete dalle librerie i libri di Pier Paolo Pasolini, nascondete le tele di Caravaggio, e smettetela con quest’osannare la donna libera protagonista di Kill Bill. Viene in mente una poesia di Bertolt Brecht dove il poeta scopre un gran rogo di libri che vengono bruciati, e si appella così: Non lasciatemi fuori! Bruciate anche me.
Time’s Up for Catherine Deneuve
In una lettera aperta a Le Monde del 9 Gennaio, 100 donne francesi firmano una petizione che denuncia le derive da caccia alle streghe del movimento #metoo. Tra queste la più famosa a sottoscrivere è l’attrice Catherine Deneuve, a cui toccherà il ruolo scomodo di diventare volto e simbolo di un contro-movimento. La Deneuve viene duramente attaccata in Francia e oltre-frontiera dalle portavoci di #metoo, Asia Argento – che nel frattempo si è affermata come paladino del movimento a colpi di tweet – la critica duramente. Ma c’è anche chi prova a salire sul carro di Catherine, da portavoci di movimenti conservatori a Silvio Berlusconi (eh già). La lettera di Le Monde punta il dito contro i pericoli dell’animare uno scontro tra uomini e donne a colpi di #balancetonporc (la versione francese dell’hashtag), e contro una nuova forma di puritanesimo che avvilisce le relazioni umane, a favore di una libertà del flirt e di “importuner”. Il problema sollevato da questa petizione è al solito un problema di delimitazione linguistica e comunicativa: in che modo possiamo circoscrivere con certezza cos’è una molestia? – anche il flirt sul posto di lavoro è una molestia? – questo vento americano globalizzato non rischierà di riformulare il paradigma dei rapporti umani? Tuttavia, venendo fuori in un clima fortemente esasperato e ideologizzato, la petizione non ottiene l’effetto di stimolare un dibattito sano, ma viene rispedita alle mittenti in un terribile gioco di fraintendimenti.
Qualche giorno dopo la Deneuve è costretta a scrivere una nuova lettera in cui spiega la scelta di aver firmato l’appello. Lo fa – strategicamente – scegliendo il giornale della sinistra francese, Libération, che le dedica la sua copertina con un ritratto dell’attrice in posa da donna libera con la sigaretta tra le dita (foto che – neanche a dirlo – verrà criticata dalle associazioni antitabagiste). La Deneuve scrive che non vuole diventare la bandiera di nessun simbolo, né attirare speculatori intorno al suo nome: ribadisce di essere contro un certo sistema di silenzi e potere, e si scusa con tutte le donne molestate che sono si sono sentite offese dalla lettera di Le Monde. Spiega – inoltre – come mai abbia deciso di firmare la petizione: il pericolo di una purga nelle arti. Inutile dire che per le arti ai tempi dei social sono momenti difficili. In quelle giornate si diffondono foto denigratorie della Deneuve tratte dai suoi film (tipiche scene alla Bella di giorno) che non sembrano fare molto onore alla causa che si pretende di sostenere. Il sottotesto è semplice: Catherine Deneuve è la rappresentante di una vecchia generazione di donne che fa il gioco della cultura maschilista. Peccato che la Deneuve abbia firmato petizioni anche con Simone de Beauvoir, autrice – nel tempo libero tra un tweet e l’altro – de Il Secondo Sesso.
Nelle stesse calde, imprevedibili giornate di Gennaio, anche l’attrice Scarlett Johansson inizia a ricevere qualche critica soffusa per l’adesione al movimento Time’s Up. Scarlett si becca dell’ipocrita: è un’amica di James Franco e ha recitato nei film di Woody Allen. Time’s Up – il tempo è scaduto! – è un’organizzazione fondata a inizio anno a difesa delle vittime di molestie sessuali, che ha messo su un budget da oltre 13 milioni di dollari per pagare le spese legali di ogni cittadina che voglia denunciare una molestia. Da Natalie Portman a Steven Spielberg, molti attori e personaggi dell’industria cinematografica hanno finanziato il progetto, e intanto si avvicinava la seconda edizione di quella marcia per le donne che aveva unito gli americani nel segno di una grande protesta contro il neo-Presidente eletto Donald Trump, e che diventava una grande occasione per lanciare una piattaforma come Time’s Up all’attenzione di tutti. Per farvi entrare nel cuore della vicenda diciamo subito che questa è anche una storia di spillette di Time’s Up, di James Franco che indossa la spilletta della discordia ai Golden Globe, di James Franco che viene accusato di molestie qualche ora dopo, di Scarlett Johansson che in occasione della marcia delle donne decide di cimentarsi in un’arringa contro James Franco che si conclude con un finale a sorpresa: ridacci la spilletta.
Naturalmente l’arringa non risparmierà la Johansson dalle critiche di ipocrisia. Uno dei punti deboli del movimento che è venuto fuori è infatti il clima da bianco o nero che sembra essersi creato. È difficile riuscire a stimolare un dibattito sano e salutare quando si respira un’aria così impermeabile alle critiche. Da un lato il movimento ha avuto un effetto innovatore e prorompente, perché ha stimolato un necessario dibattito sul bisogno di repulisti interno a un sistema di potere – e qui siamo sempre a favore dello scavare per la verità, e contro ogni genere di abuso. Dall’altro questa forza è stata anche distruttiva, e ha creato un clima di sospetti e diffidenze.
Donne, uomini, umanità
È passato del tempo da quando Simone De Beauvoir ha scritto che la donna è un soggetto e non l’oggetto riflesso di una società organizzata sui due cardini socialmente costruiti di mascolino e femminino, rivoluzionando le infinite possibilità creative dell’essere donna, dell’essere uomini. Il prossimo passo a cui guardare è l’umanità, in tutta la sua meravigliosa varietà. Stare dalla parte dei deboli non vuol dire stare dalla parte del presunto sesso debole, vuol dire stare dalla parte di chi subisce un sopruso, un abuso, un ricatto. Se questo ripensamento globale servirà ce lo dirà il futuro, e forse quel futuro sarà un bel giorno di riscatto umano dove la frattura tra il mascolino e il femminino che è dentro di noi, finalmente si risanerà. Nell’attesa, non buttiamo via i libri di Pasolini. Non ci arrendiamo alle app per il consenso sessuale, flirtiamo ancora.
Come aneddoto finale, vorrei ricordare quel mio amico che al liceo chiese a una ragazza, ti posso corteggiare? – vero precursore visionario.