Alla televisione italiana serve Il miracolo. Una statuetta della Madonna piange sangue. Una statuetta anonima, tale e quale alle tante disseminate nelle edicole di mezza Italia. Braccia accoglienti a benedire i fedeli, sguardo compassionevole rivolto a un orizzonte invisibile. È un miracolo. Un miracolo autentico, in cui trucchi e idiozie del fanatico dell’ultima ora in cerca di attenzioni non trovano posto. Un miracolo che travolgerà, squasserà, cambierà i destini delle persone con cui entrerà in contatto.
La nuova acclamata serie targata Sky Atlantic, Il miracolo, sceneggiata e diretta da Niccolò Ammaniti, è tutta qui. In un conflitto etico – religioso attorno a cui girano le diverse vicende dei destini incappati nelle lacrime porpora della Vergine di plastica. Perché se il tema che trascina l’intera storia è quello di un miracolo, puro e semplice, le vite dei protagonisti che orbitano attorno a questo evento capitale sono dei condimenti necessari. Il pianto sanguigno della statuetta è il centro di gravità, ma i microcosmi che vi roteano attorno assumono vesti significative, divengono imprescindibili e si tramutano in piccole storie a sé che si completano a vicenda. È una tecnica narrativa tanto semplice quanto felice, questa. Un mezzo a cui lo sceneggiatore e regista della serie non è nuovo e su cui, anzi, ha costruito la propria carriera. É così che noi spettatori possiamo cambiare prospettiva, seguire punti di vista differenti che rivelano pezzi inediti della stessa trama. Risultati dei giochi di luci e ombre che sono le vele della nave di Ammaniti, strumenti con cui lavora già per i suoi romanzi. Da Come Dio comanda, premio Strega 2006, a Fango. Tirando le somme, la formula tanto cara allo scrittore romano, questa coralità del ventunesimo secolo, ha preso vita anche sul piccolo schermo.
Se però tecniche narrative tanto distinguibili sono ravvisabili chiaramente nella serie, è il mero stile di Ammaniti che manca e che ci manca. Quello stile crudo, da Cannibale della letteratura che schiaccia, spreme, punge e debilita, capace di fagocitare ogni cosa e che rende una storia irta di aculei sicché il lettore/spettatore non possa sedercisi. Quello stile che fa stare scomodi. Ecco, quello: manca. Ne Il miracolo non c’è. È assente. Del tutto. Ed è un peccato. Un vero peccato. Certo, lo stile di Ammaniti, se si guarda alla sua produzione nell’insieme di romanzi e sceneggiature, non è omogeneo. Anzi. Tra il comico e il drammatico, i suoi lavori hanno sempre un sapore agrodolce che rende complicata una catalogazione netta. Una sorta di marchio di fabbrica che, tuttavia, rende possibile una scissione tra le opere più propriamente ironiche e quelle più dure. Ti prendo e ti porto via, nel primo caso, dove, nonostante tutto, l’autore riesce a strapparci una risata, un risolino, un sorriso, un ghigno. Io non ho paura, nel secondo, dove ogni allegria e positività è sacrificata sull’altare di un neorealismo del tutto ammanitiano, che guarda solo alla drammaticità degli eventi.
Il miracolo, interamente ideato e sceneggiato da Ammaniti, è una via di mezzo. Né carne né pesce, come si suol dire. Sta al crocevia. Al bivio tra mondi antagonisti. Universi paralleli. Quel che non è chiaro è se si sia trattato di una scelta consapevole o se piuttosto, data la novità del progetto, il romanziere non abbia proceduto col freno a mano tirato. Impaurito. Preoccupato. Spaventato – Niccolò, ma non eri un Cannibale? – da un possibile risultato ambiguo e poco attinente alla materia raccontata. Nonostante tutto, uno stile c’è. Non è il crudo spiattellare ogni male del mondo a cui ci ha abituato il romanziere romano, ma c’è. Ed è efficace. Dinamico. Adatto alla narrazione dei fatti.
Il miracolo è un primo passo verso qualcosa in divenire. Qualcosa di bello. Una ventata di freschezza nel panorama – stantio, ma non proprio – delle serie tv italiane.
a cura di Mattia Insolia