Cosa vuol dire riuscire ad essere se stessi? Cosa vuol dire emanciparsi dalle aspettative altrui, vivere seguendo la corrente interiore e non il vociare sconclusionato dell’esterno? Tutto questo, attraverso il personaggio di Vi, ce lo racconta Kim Thuy, autrice vietnamita, nel suo Il mio Vietnam, tradotto da Cinzia Poli per Nottetempo (per la stessa casa editrice sono usciti anche Riva e Nidi di rondine).
Vi discende da una famiglia benestante. È delicata, a tratti timida, ma risoluta. Vi ripercorre in prima persona, riavvolgendo le fila del tempo, l’infanzia e l’adolescenza a Saigon, la guerra, la fuga da un paese martoriato, una nuova esistenza in Canada, gli amori, le lotte con la famiglia e la fatica di sentirsi felice.
Eppure, Il mio Vietnam non è solo un libro esistenziale. È anche una zoomata sulla storia di una civiltà che abbiamo conosciuto attraverso i successi letterari di Marguerite Duras, scrittrice originaria di Saigon. Nella voce di Vi ritroviamo quella dei personaggi della Duras: la stessa smania, lo stesso conflitto interiore tra l’appartenenza e il disconoscimento, la curiosità verso il mondo, verso tutto ciò che è diverso dalla propria tradizione sociale e culturale.
Vi cresce in mezzo all’amore, all’esuberanza delle amiche di famiglia e dei fratelli. Forte della sua posizione sociale e della sua intelligenza, si fa largo tra la gente. Legge molto, e leggendo si difende dai dettami materni, dalle ansie di chi vorrebbe vederla accanto ad un uomo rassicurante. Ma Vi rifugge dalle rassicurazioni. Anche gli equilibri casalinghi, che sua madre si sforza di preservare dai colpi del tempo e dei mutamenti, vacillano.
Questo libro si legge come un diario: pagina per pagina Vi racconta un aneddoto, un episodio, conducendoci in un nodo di leggende, eventi, credenze, battaglie personali. Le esperienze di Vi sono quelle di ogni donna incontentabile, di ogni donna che sceglie, pagando il prezzo della solitudine.