«Dov’eri quando è morto Ayrton Senna? Prova a fare questa domanda a chiunque. Ciascuno ti risponderà descrivendoti un luogo, il momento preciso».
Lucio Dalla, Bologna, 1996
Ho pensato a come avrei iniziato questo pezzo su Ayrton Senna e sul bellissimo libro di Giorgio Terruzzi una sera di qualche settimana fa mentre tornavo a casa dal lavoro e un tramonto più bello del solito tagliava come una lama di luce l’orizzonte, unico traguardo di un percorso in autostrada su un’utilitaria vecchia cui prestare ascolto coi suoi brontolii, i suoi malumori, le sue improvvise accelerazioni di entusiasmo. Mentre da dietro una collina di container della zona portuale si stagliavano i grattacieli del Centro Direzionale, ho pensato con chiarezza assoluta che il 1 maggio del 1994 stava alla storia dello sport come l’11 settembre del 2001 a quella delle drammatiche trasformazioni geopolitiche che hanno accompagnato l’inizio del nuovo millennio. Così come chiunque ricorda perfettamente – in un misto d’incredulità e stupore – dove si trovasse mentre su uno schermo televisivo crollava uno dei simboli più identitari del mondo occidentale, allo stesso modo chi, in quel primissimo pomeriggio, era davanti alla tv per guardare il Gran Premio di F1 di Imola ricorda esattamente il momento in cui la monoposto di Ayrton Senna, la Williams che aveva cercato da così tanti anni e che finalmente guidava e che – come tutti i sogni – si stava dimostrando lontanissima dalle sue aspettative, rimbalzò con violenza inaudita contro il muro della curva del Tamburello.
Quando ho sfogliato le prime pagine del bellissimo volume edito da 66thand2nd, Suite 200 – L’ultima notte di Ayrton Senna – pubblicato la prima volta nel 2014 e ristampato in occasione del venticinquesimo anniversario della scomparsa – e ho incrociato la frase di Lucio Dalla, sono stato colto dalla sorpresa della coincidenza e, allo stesso tempo, ho sentito farsi ancora più forte la concezione della morte del tre volte campione del mondo brasiliano come di un grande lutto collettivo, di uno spartiacque imprescindibile nell’esperienza di ciascuno.
Io ero poco più che un bambino, a un passo dall’adolescenza. Ero davanti alla televisione. Nemmeno un mese prima – leggendo Il Mattino in classe – avevo appreso della morte di Kurt Cobain. L’aria a Imola era spaventosamente greve, l’incidente di Barrichello il venerdì, quello mortale dell’austriaco Ratzenberger il sabato. Lo spaventoso impatto sulla griglia di partenza che aveva portato al ferimento di molti spettatori sulle tribune. Quando le telecamere inquadrarono la macchina di Ayrton ferma il primo pensiero – generato da un occhio inesperto o disattento – fu quasi di sollievo: è uscito, non corre, è salvo, è fuori da questa corsa folle, da questo incantesimo malvagio che si è abbattuto su questa pista, in queste notti di maggio / in una terra di pescatori. Poi la tragedia cominciò a farsi strada, la corsa venne sospesa e la tensione iniziò a crescere fino all’impatto devastante di quel lungo, lunghissimo pomeriggio.
Così, quando ci trovammo in mezzo a quel trambusto, mentre avevamo già a che fare con una sequenza inaudita di tragedie, l’adrenalina che spostava e spingeva ciascuno di noi in quel labirinto venne a mancare, per un attimo, di colpo. Un giovane reporter francese si appoggiò a un bidone, un palo, non so. Prese a piangere chino verso il selciato, sembrava stesse vomitando lacrime.
Ovunque si respirava solo incredulità, per giorni si sarebbe detto incontrando amici, persone più grandi, il vicino di casa: “Hai visto Senna?” ma non se ne parlava mai davvero, perché non poteva essere vero. Senna non era mai sembrato un uomo – a nessuno. Senna sembrava appartenere alla schiatta di quei pochissimi uomini che Dio – il suo Dio – avevano davvero creato a propria immagine e somiglianza, mandato sulla Terra per realizzare qualcosa, per indicare una strada, per segnare un percorso. Ayrton, bastava solo quel nome. Era ed è rimasto a distanza di venticinque anni dalla morte semplicemente il pilota più amato di ogni tempo. Chiunque è venuto dopo di lui, anche quel Michael Schumacher che aveva iniziato a vincere proprio in quei primi tre gran premi e a cui fu sottratta la possibilità – e a noi tutti con lui – di vivere una delle rivalità potenzialmente più esaltanti nella storia dello sport, anche lui ha sempre dovuto fare i conti col fatto che nemmeno la sua perfezione gli sarebbe mai bastata per avvicinarsi a colui che andava oltre la perfezione della guida, colui che aveva portato dentro a uno sport fatto di traiettorie, di motori, di oli combusti e di mescole per gomme l’elemento imprevedibile della mistica e della irrazionalità. Quando dopo il Gran Premio di Monza del 2000 un cronista fece notare a Schumi di aver eguagliato il record di vittorie di Ayrton, il tedesco inflessibile, la macchina teutonica programmata per vincere senza mai rischiare, senza quasi mai sorpassi, un iron man che si era fatto tutt’uno con la macchina e la sua scuderia, scoppiò in un pianto a dirotto: quello di un bambino, finalmente umano, finalmente fragile, spezzato. Chissà cosa provò Schumacher in quel momento. Senna era stato un mito anche per lui, ma da Senna non era stato accettato. Certo la sua ostilità era anche il riconoscimento del suo – grande – valore ma a Schumacher Senna rimproverò tanto e di quella macchina – con la quale avrebbe vinto il primo dei tanti mondiali – Senna sospettava un uso proibito dell’elettronica per controllare la trazione e migliorarne in maniera definitiva le prestazioni.
Per vivere le corse in quel modo, del suo fisico aveva tenuto conto in modo approssimativo. E il fisico appariva ben meno solido di una mente a tenuta stagna. Non si accontentava di vincere, pretendeva di lasciare un segno in ogni curva, e a furia di segni una scia luminescente, visibile a una distanza siderale. Ma alla fine di ogni sfida era esausto, accusava un affanno evidente, trattenuto in apnea.
“Ayrton Senna. Un’iradiddio. Un fenomeno” – fin dai tempi dei kart, in Brasile prima e poi in Italia con la DAP, amato come un figlio e come un figlio capace di restituire quell’amore, e poi la Toleman – “la tuta di pelle, una magrezza impressionante dentro una Lotus nera e oro” quella macchina così elegante con cui iniziava a mettersi in mostra anche nel grande circo della Formula 1, sotto la pioggia a correre, a superare dove gli altri si fermavano, rallentavano, esitavano. Poi l’approdo alla McLaren, alla grande famiglia della Honda – i giapponesi come nessuno, l’avevano capito, avevano capito la sua vocazione. Un monaco, un asceta, la cui disciplina era votata al sacrificio e alla conoscenza.
Quando guardavi Ayrton, anche se eri poco più di un bambino, c’era una cosa di cui ti accorgevi, prima di tutte le altre, prima della bellezza, prima della grazia che ne abitava lo spirito, prima della determinazione feroce, violenta; ad attrarre era la tristezza degli occhi, quella malinconia come due laghi perduti anche quando sorrideva, anche quando vinceva, anche quando salutava l’ultimo addetto del paddock. Un Dio, però umile. Non sembrava assomigliare poi tanto alla saudade del suo popolo, era sì nostalgia, ma di qualcosa di più lontano.
C’è una scena bellissima ne La Meglio Gioventù, quando al cimitero di Stromboli, in mezzo alle tombe che guardano il mare, Nicola racconta al figlio di Matteo, che suo padre era come Achille, coraggioso e triste, perché sapeva che gli Dei lo avrebbero presto ripreso con loro, non prima di aver lasciato una traccia.
Ayrton sembrava avere nostalgia di un mondo che aveva conosciuto, un paradiso precedente alla nascita, non successivo alla morte, un luogo cui apparteneva che gli attraversava lo sguardo e che gli aveva lasciato il peso di un’inquietudine, di una felicità irraggiungibile, di un dolore sottile – Una voragine esistenziale sopra la quale stendere vita scintillante e pura, capace di colmare ogni falla, qualunque percezione cupa, senza bisogno di ricorrere ad alcuna tecnica adeguata.
Ayrton Senna da Silva, Senna come sua madre – Donna Neyde, bellissima, di origini napoletane – che gli preparava pasta al pomodoro e lo sentiva cantare mentre mangiava, Donna Neyde che il giorno dopo la morte strinse al petto quel cardigan come una cosa viva. Non riusciva a smettere di piangere. Disse: «Fino a quando vivrò voglio correre. Tanto, senza fermarmi. Fino a quando non incontrerò mio figlio di nuovo». Lei che sempre aveva capito l’irrequietezza di quel ragazzino che – come ricorda l’amata sorella Viviane – andava a dormire triste perché doveva star fermo, lei che aveva presagito prima di tutti il destino che l’attendeva – mentre si china verso di lui, una mano sulla testa, l’altra a trattenere il petto. Lei, preoccupata da quel figlio che non fa che cadere, battersi, farsi male. Lei, l’unica a intuire l’origine di quella foga – che in quel ragazzino gracile e goffo intravede quasi come una premonizione mistica la strada del suo calvario.
Lei che a ricordarlo ancora oggi dice di stare bene tra le cose, gli oggetti di quel figlio prediletto, mentre una lacrima – una sola – scende a cadere dagli occhi a rigarle il viso, a raccontare del solo dolore della vita che è irrimediabile. Ma se la madre era la grazia, il padre Milton Da Silva, artefice della fortuna che aveva permesso ad Ayrton ogni felicità materiale, era l’autorità sudamericana – uomo esigente e duro, una concretezza solida e rispettabile, accompagnata da un sistema di regole non discutibili in termini di educazione, osservanza delle tradizioni, gerarchie – a cui Senna guardava in cerca continua di approvazione. Due figure intorno a lui, sempre presenti, la grazia della madre e la forza del padre, due leggi – quella dell’amore e quella della natura – sempre a combattere dentro di lui.
Lo sa bene Terruzzi e lo racconta divinamente in pagine dense e leggere in cui prova a immaginare l’ultima notte di Senna, nella suite 200, quella dell’Hotel Castello di Castel San Pietro Terme dove passava le notti prima del Gran premio, ogni anno, ennesimo luogo che aveva saputo trasformare in casa. È lì che passa la notte Terruzzi ed è lì che prova a immaginare i pensieri, i ricordi, le paure dell’uomo dietro al campione, è lì che incomincia il suo libro. Sì, certo, lo sappiamo: è un escamotage narrativo per recuperare i momenti importanti di una vita che non conosce soluzioni di continuità tra pubblico e privato, tra l’uomo e il campione – Ayrton era questo, un’incredibile manifestazione di onestà – ma è qualcosa in più, è un tentativo dolcissimo – con Terruzzi che si fa specchio della dolcezza di Ayrton – ed è un liberare il maschio sudamericano dall’ossessione del machismo che pure costò ad Ayrton l’”accusa” di omosessuale nel Sudamerica degli anni ottanta mossa ad arte da uno dei tanti nemici della sua carriera sportiva, quel Nelson Piquet che mai avrebbe accettato la supremazia di un ragazzino che stava cambiando la storia stessa della Formula 1 e che forse primo ma certamente ultimo visse le corse come una missione, con un tentativo destinato a fallire in partenza – e per questo altissimo – di spezzare le catene della politica che opprimevano e opprimono lo sport, la stessa politica che gli tolse un titolo, per darla ad Alain Prost, il professore che in pista non rischiava e si ritrovò improvvisamente a nudo con in squadra il ragazzo brasiliano che danzava nelle curve, che cantava sotto la pioggia, che non era mai solo, che era spinto da un popolo, quello brasiliano certo, il suo, ma non solo. Perché Ayrton era il primo brasiliano che faceva della bandiera un orgoglio, che annullava la distanza tra la borghesia della sua classe e la semplice povertà degli ultimi. E che gli ultimi a ogni angolo del mondo sentivano come qualcuno che finalmente si ricordava di loro.
Da anni destinava cifre enormi, in totale anonimato, a una serie ampia di organizzazioni non governative, persone, medici, centri di assistenza. Una parte molto rilevante dei propri guadagni serviva a chi dei soldi ne aveva davvero bisogno. La Fondazione Ayrton Senna di questo si sarebbe occupata, nel futuro prossimo e in un futuro remoto. Perché, altrettanto segretamente, ogni contratto stipulato conteneva clausole particolari, legate all’eventualità che fosse morto correndo. Poteva accadere, l’aveva sempre considerata una fatalità possibile. Ciò che aveva costruito avrebbe continuato a camminare anche senza di lui.
Il giorno dei suoi funerali, funerali di Stato, con la bara trasportata in prima classe – perché no, Donna Neyde non poteva pensare il suo Beco al buio di una stiva e smosse mari e monti per l’ultima cosa che poteva fare per un ragazzino cresciuto a motori e fumetti – c’era un popolo ad attenderlo, non una folla. Bisogna rivederle quelle immagini per capire – Un corteo lungo trentuno chilometri, centinaia di migliaia di persone che salutano, piangono, lanciano baci, fiori, messaggi, fotografie, nel tragitto dall’aeroporto alla camera ardente, allestita nell’edificio dell’Assemblea municipale di San Paolo – un capo di stato, più di un capo di stato, la sorella Viviane che non sa nemmeno cosa significhi smettere di piangere e non riesce a separarsi dal casco gialloverde del fratello, i genitori presenti ma perduti, altrove, spezzati, gli occhi al cielo di Frank Williams, la tristezza sul volto di Ron Dennis, Gerhard Berger che porta la bara e non lo riconosci perché non ha il suo sorriso, Berger – intelligente al punto da comprendere di avere a che fare con un compagno più forte ma anche con un ragazzo afflitto da una strana sofferenza, al quale poteva insegnare molte cose. Il piacere di vivere, l’importanza di prendersi meno sul serio – che ha smesso di correre pochi minuti dopo lo schianto di Ayrton per un guasto tecnico ufficialmente, ma – come dice Terruzzi – perché ha saputo, perché non puoi correre se Ayrton sta lottando tra la vita e la morte. E poi c’è proprio lui Alain Prost, anche lui a portare quella bara, gli occhi profondi, su quel viso sghembo che è sempre stata una maschera da burattino, intelligente e sardonico e sono occhi vuoti quelli di Alain.
La storia della morte di Ayrton è una storia terribile di segni e premonizioni. Proprio la mattina del 1 maggio, durante il warmup, Ayrton – che sa che Prost sta commentando per la tv francese – dall’abitacolo manda un saluto – “Mi manchi”, gli dice. Cos’è quel saluto? – una carezza concessa a sorpresa non soltanto a Prost, ma a ciascuno di noi – Sì, fa parte dell’uomo Senna, del suo desiderio di armonia, del suo essere sincero ad ogni costo, è l’omaggio al rivale per eccellenza. E allora perché sembra qualcos’altro, perché tutto sembra un addio? Fin dall’incidente del venerdì occorso all’amico Barrichello Ayrton è preoccupato, più del solito. Corre come ha sempre fatto sul luogo degli incidenti – Quelle indagini, perseguite sguazzando nell’angoscia, puntavano a scoprire cosa sarebbe accaduto se qualcosa di altrettanto drammatico fosse capitato a lui. No, non soltanto. Aveva bisogno di osservare da vicino la linea finissima che sta tra il vivere e il morire perché di morire aveva paura. Una paura abissale, segreta e, per questo, spaventosa.
Perché solo gli sciocchi possono pensare che la fede sia consolazione, la fede quella vera, in un mondo oltre questo è il terrore più puro che si possa immaginare, sintesi della vita che non finisce e dell’ignoto più imperscrutabile. E Ayrton lo sa fin da quei cinque giri durante le prove a Montecarlo quando si sente immerso dentro un’esperienza mistica; quando dirà con sincerità – e va da sé con incredibile ingenuità – di aver visto Dio scatenando i commenti ironici di Prost su quell’idea del rischio continuamente accarezzato in virtù di un’immortalità legata alla sua fede. Lo sa quando riesce finalmente a vincere in Brasile sul circuito di Interlagos, anno 1991, guidando per lunghissimi giri con una McLaren bloccata in sesta marcia, uno sforzo sovraumano, le mani, le braccia, le spalle perdute in una contrazione, in un lunghissimo spasmo e quelle grida alla fine sul traguardo che non hanno nulla di umano: gioia, disperazione, liberazione, dolore. Ancora una volta, l’estasi di un mistico. Di un folle in Cristo.
Senna, nell’istante dell’incidente, si trovava nel suo box. Venne informato immediatamente, si avvicinò al monitor, vide le immagini al rallentatore, e scappò via per rintanarsi in un angolo, a piangere in modo convulso. Ciò che accadde da quel momento in poi sta, ancora oggi, in una bolla contro cui i ricordi rimbalzano, faticano a svelare i dettagli, avvolti in un’emotività allo stato brado.
Quel weekend è diverso, il giorno dopo l’incidente di Barrichello l’incidente mortale di Ratzenberger precipita Senna in uno stato che non ha mai conosciuto prima – «È morto davanti a me. Sai una cosa? Non voglio correre» dirà a telefono alla fidanzata – proverà inutilmente a chiedere alla direzione di annullare la gara. «Ayrton, lascia perdere questa vita, non correre domani, ci sono molte altre cose da fare. Hai vinto tre titoli mondiali, sei il miglior pilota del mondo. Non hai bisogno di rischiare ancora. Andiamocene via, andiamo a pescare» gli dirà Sid Watkins, il medico della Formula 1 e, dopo la morte di Ratzenberger, sarà lo stesso Watkins a soccorrere Senna e a ricordare, lui medico e ateo – «Fece un profondo sospiro. Il suo volto era tranquillo. Sembrava stesse dormendo. E mentre mi trovavo lì a soccorrerlo provai la strana sensazione che la sua anima lo stesse lasciando».
Correre contro, correre incontro alla morte per non pensarci più, per non pensarci affatto. Accelerare per riempire una voragine. Il peccato era originale. Stava vivendo un disagio esistenziale precoce: la percezione della morte da contrastare sfidandola.
I segni e le premonizioni sono addirittura ex post. Come quando in un momento surreale Érik Comas, pilota francese senza sapere nulla dell’incidente rientra in pista ritrovandosi davanti al capezzale che si è riunito intorno al corpo di Ayrton. Lo stesso Comas che alla guida della sua Ligier a Spa solo due anni prima era stato vittima di un gravissimo incidente. Ayrton aveva frenato, si era sganciato le cinture, era sceso dalla McLaren e si era messo a correre in mezzo alla pista per verificare le condizioni del pilota privo di sensi. Nessun altro aveva fatto altrettanto. Era stata una reazione istintiva, tipica della sua natura. Comas l’ultimo pilota a vedere Senna ancora in vita deciderà di non correre mai più in Formula 1.
Sul muro del Tamburello era rimasta l’impronta della macchina. Tratti neri come colpi di pennello, una forma composta. Una sindone.
Ayrton, la canzone di Paolo Montevecchi che Lucio Dalla incise è una canzone bellissima ma è anche vero che quel testo è un azzardo. Perché Ayrton voleva vincere, sempre e comunque, perché in quella macchina insieme al suo corpo esanime c’era la bandiera austriaca da sventolare in onore di Ratzenberger. Perché, sì, è vero che Ayrton, portato in ambulanza, con quel telo bianco sembrava la scena di una deposizione, come Donna Neyde una madre composta che piange in una sua privata pietà, ed è anche vero che dopo di lui – l’aveva detto il pomeriggio prima all’ennesima pole conquistata – la Formula 1 non sarebbe stata mai più la stessa ma fare di Senna una figura cristologica è certamente affascinante ma probabilmente lontano dalla realtà.
Eppure, perlustrando i fotogrammi, ripassandoli alla moviola, vedevo soltanto Ayrton Senna che andava a correre, che si apprestava ad affrontare una corsa importante, una corsa che non voleva, forse non poteva, perdere. Era l’inquietudine che stava nell’aria, nella testa di ciascuno di noi a fare da lente, occhiale, interpretazione. Ayrton era preoccupato, era concentrato.
Terruzzi è bravissimo nel raccontare, infatti, tutte le contraddizioni dell’uomo, il suo oscillare tra ambizione e umilità, il sacrificio della passione e la leggerezza con le donne: da Lilian La prima, non la sola. Lilian e poi Xuxa – bella, bellissima, sorridente – e poi Cristine, prima di Adriane – una bambina capace di scartare all’improvviso, mostrando un’intelligenza svelta, una personalità tutt’altro che semplice. Restituendo, così, un ritratto parziale nel racconto come discreto nella scelta dei momenti che sanno raccontare una vita ma che a ogni pagina appare come l’omaggio più fedele, il ricordo più sentito, la restituzione più veritiera di un personaggio affascinante, complesso e sfuggente nei suoi silenzi, nei suoi sguardi, nel suo essere figlio imperfetto, compagno imperfetto, amico complicato e pilota immenso, il più grande, il più geniale, il più amato di sempre.
Questo libro, nato da un sogno. Un sogno in alta definizione, di quelli che restano attaccati alle pareti di casa come poster colorati, incorniciati, protetti da un vetro lindo è oltre che l’omaggio sentito alla ragione stessa per cui Terruzzi seguiva la Formula 1 (oggi è probabilmente la voce più affascinante del mondo dei motori e uno tra i pochi, pochissimi giornalisti sportivi capaci di narrare lo sport secondo traiettorie diverse che si colorano di fantasia ed epica riportando tutti noi alla bellezza dello sguardo di bambini sugli eroi che gareggiano dove noi possiamo al massimo solo sognare di essere) anche il racconto di un’amicizia nata su un aereo.
Così, quella volta, con emozione, riuscii a spiegare ad Ayrton la ragione per la quale mi sentivo vicino a lui. Gli descrissi cosa pensavo di vedere quando lo guardavo. Gli parlai con enorme imbarazzo di una presunta affinità, raccontando qualcosa che riguardava la mia vita, tanto diversa dalla sua. Temevo di aver invaso un àmbito privato. Venni accolto all’istante, preso sul serio subito. La conversazione, inattesa, si fece intima, indimenticabile e segreta.
Ed è dentro questa piega personale, dietro una lacrima, una sola – caduta dal suo occhio destro – a formare una macchia piccola sulle righe del bloc-notes che ognuno di noi può portare la propria storia personale con Ayrton come se questo libro fosse il tentativo riuscitissimo di ricucire uno strappo, di alleviare un dolore, di suturare una ferita dalla quale nessuno di noi è davvero guarito.
«Siamo fatti di emozioni. Cerchiamo sempre delle emozioni. È solo questione di trovare il modo per provarle. Ci sono molti modi per provare un’emozione e c’è solo una cosa particolare che la Formula 1 può fornire. Siamo sempre esposti al pericolo. Pericolo di farsi del male. Pericolo di morire».