Il mestiere dell’editor raccontato dagli editor

Dietro ogni libro, romanzo o saggio che sia, sappiamo tutti esserci due figure. Lo scrittore o la scrittrice e l’editore o l’editrice. In un certo senso, il libro è figlio dei primi e figlioccio dei secondi. L’autore dà la vita allo scritto, l’editore promette di prendersene cura assieme al genitore. C’è però una figura fondamentale che si pone in mezzo ai due, pure se con in mezzo non intendo nel senso più fisico o immediato del termine. Una figura che molti sconoscono e di cui altri sanno dell’esistenza senza però essere del tutto consapevoli di quali siano i suoi compiti. Figura alle volte demonizzata, alle volte minimizzata e alle volte snobbata. Si tratta dell’editor, presente in ogni casa editrice e in ogni testo, romanzo o saggio che sia, appunto, e il cui lavoro è basilare.

Ne ho intervistati tre. Stefano Izzo, editor di DeA Planeta, Cristina Palomba, editor di Ponte alle Grazie, e Chiara Valerio, editor di Marsilio. Con loro ho cercato di scavare per apprendere quanto più possibile su questo mestiere, su questo modo di fare letteratura. Ed ecco cosa ci siamo detti.


Qual è la tua formazione – accademica e professionale? Eri indirizzato/a al mondo editoriale fin dal principio, ambivi già a lavorare come editor, o la strada si è fatta da sé?

Izzo: Non ho alcuna formazione editoriale specifica, ho imparato tutto sul campo, come si dice. Del resto, credo sia l’apprendistato migliore per imparare un lavoro artigianale come questo. Sono sempre stato un forte lettore, peraltro molto focalizzato sul contemporaneo: questa è l’unica base realmente necessaria per lavorare come editor. Leggere sempre, leggere di tutto, leggere ovunque. L’editor è primariamente un lettore, benché particolare. Dopo la laurea sapevo che volevo una carriera in mezzo ai libri. Non avevo la minima idea di cosa si facesse in una casa editrice, ma sapevo che quello era il mio posto. La fortuna mi ha fatto un regalo immenso il giorno in cui ha messo per caso sul mio cammino Stefano Magagnoli, allora alla Mondadori, che mi ha rivolto poche schiette parole e mi ha dato l’opportunità per la quale gli sarò eternamente grato. Ho iniziato con lui in Rizzoli e ho fatto, con orgoglio, la gavetta.

Palomba: Sono partita così: ho fatto due anni di Conservatorio e poi una scuola di ceramica. Leggevo moltissimo, ma non avevo mai pensato all’editoria, non sapevo nemmeno esistesse, questo lavoro. Un giorno, nella mia bottega di ceramista è entrato Luigi Spagnol. Io avevo 23 anni, lui 26. Siamo diventati subito amici perché ci piacevano i libri, certamente, ma soprattutto l’opera lirica. Ho cominciato a fare la lettrice per Longanesi – lui, appena tornato dal servizio militare, lavorava all’ufficio diritti di Longanesi, diretta da suo papà, Mario Spagnol. Ho abbandonato la ceramica, ho cominciato a lavorare come freelance per diverse case editrici e mi sono laureata in Filosofia: dal 1995 lavoro nel gruppo Gems, prima come redattrice in Salani, poi, dal 2000, come editor in Ponte alle Grazie.

Valerio: Ho studiato matematica per molti anni. Non ambivo a lavorare come editor, ma ho sempre scritto e mi è sempre piaciuto leggere. L’editoria per me è stata, in fondo, una conseguenza della scrittura. Ho cominciato a scrivere e, scrivendo, mi sono ritrovata a lavorare in una casa editrice. In realtà, la casa editrice è arrivata dopo altre due, fondamentali esperienze editoriali. La prima è stata Mario Desiati, che nel dicembre 2006, mi ha chiamato a Nuovi Argomenti, e la seconda è stata Radio 3, quando Rossella Panarese, nel 2008, mi ha preso per la redazione a Radio3 Scienza. Nel 2007 sono stata la rappresentante italiana del progetto Scritture Giovani di Festivaletteratura di Mantova e lì, in una maniera che subito mi è parsa molto letteraria e molto divertente, ho incontrato Ginevra Bompiani. Così quando mi sono trasferita a Roma per la radio, Ginevra mi ha chiesto se ero interessata a leggere manoscritti per nottetempo. E dopo qualche mese lavoravo in casa editrice. Ci sono rimasta dieci anni, ho imparato moltissime cose, ho incontrato moltissime persone con le quali continuo a confrontarmi sul lavoro editoriale.

In foto: Stefano Izzo, Cristina Palomba e Chiara Valerio

Come funziona il tuo lavoro? Un testo viene proposto alla casa editrice, a cui suppongo spetti il compito di accettarlo o rifiutarlo, e poi entri in gioco tu?

Izzo: Ogni casa editrice è organizzata in modo diverso, secondo le dimensioni e le necessità della struttura. In generale, esistono le proposte non sollecitate (quelle che arrivano via posta elettronica, solitamente da persone che non conosci) e quelle sollecitate dall’editor (direttamente agli autori, o ai loro agenti). Poi esistono i libri commissionati, specialmente nel campo della varia e della saggistica: la casa editrice ha un’idea e la propone alla persona che ritiene più adatta per svilupparla. Nel mio caso, sono io che ho la responsabilità sia di valutare (personalmente o con l’aiuto di lettori professionali) le opere non sollecitate, sia di andare a caccia delle altre. Ci sono editor che – secondo il modello anglosassone – si occupano soltanto di acquisire i libri, lasciando ad altri la cura testuale; io invece amo (e ho la possibilità di) seguire il percorso del dattiloscritto in ogni sua fase, dalla valutazione all’eventuale “visto si stampi”, anche se questo comporta un dispendio di energie considerevole.

Palomba: Io non entro in scena dopo: parte importante del mio lavoro è proprio scegliere libri e autori, inventare progetti, immaginare nuove collane. Una volta acquisiti i testi, li seguo anche dal punto di vista dell’editing.

Valerio: Io sono la persona che legge i libri, li propone e li sostiene in comitato editoriale, in qualche modo, per utilizzare i suoi verbi, accetto o rifiuto. Una volta fatto ciò, e passato il vaglio del comitato editoriale, il testo viene lavorato da me e, soprattutto, da Claudio Panzavolta (scrive lui pure, il suo secondo libro, Al passato si torna da lontano, uscirà in settembre per Rizzoli).

Perché un romanzo ha bisogno di un editing? Per un fatto commerciale, per renderlo più adatto a una sorta di norma letteraria vigente, o per altre ragioni?

Izzo: La tua domanda deriva da una concezione dell’editing, tanto diffusa quanto errata, come intervento impositivo e snaturante. È il frutto di una sottovalutazione dell’editor (un automa asservito alle logiche commerciali, o del marketing, o di un presunto canone letterario, o di chissà quali altre forze oscure) e, paradossalmente, è anche il frutto di una sopravvalutazione, come se l’editor fosse capace di prendere qualunque cosa e trasformarla in un’altra completamente diversa. L’editing invece è – come dicevo all’inizio – essenzialmente un’esperienza di lettura, che serve all’autore per osservare dall’esterno il proprio testo e quindi per capire dove e come potrebbe esprimere al meglio le proprie potenzialità. È un intervento rispettoso, incardinato su un concetto: il libro appartiene all’autore, sempre. Non ho mai visto un grande scrittore italiano che si facesse dettare da qualcuno il suo capolavoro. Credo – per usare le parole del più grande di tutti, Max Perkins – che “un editor non aggiunge niente a un libro. Al massimo rilascia energia. Il lavoro migliore di uno scrittore viene totalmente da se stesso”.

Palomba: A volte un romanzo non ha bisogno di editing, o molto poco. Non penso mai di cambiare un libro per renderlo più commerciale, penso solo a come renderlo migliore, più efficace, più equilibrato, più potente. Può darsi che questo lo renda anche più commerciale, ma non ne ho alcuna certezza. In ogni caso, il mio obiettivo è sempre tirare fuori al meglio quello che lo scrittore voleva mettere in scena. Con questo non voglio dire che gli editori non pensino a quanto si venderà un libro, ma ci pensano a monte: se crediamo che un libro non sia vendibile, non lo acquistiamo.

Valerio: Io penso che l’editor sia prima di tutto un lettore con cui l’autore instaura un rapporto di fiducia. Penso ai carteggi dei matematici, o anche quelli delle scrittrici e degli scrittori che si confrontavano su testi e formule. E aggiustavano coefficienti e virgole, parlandone, discutendone, accapigliandosi pure talvolta. La figura dell’editor mi pare sia sempre esistita, molto prima che esistesse il nome. Confrontarsi quando si scrive è fondamentale. Avere altri occhi sulla propria pagina, da un certo punto di scrittura in poi, è essenziale.

Che genere di rapporto si instaura tra te e l’autore o l’autrice con cui lavori? Te lo chiedo sia da un punto di vista pratico, per quel che riguarda la gestione del lavoro in sé, sia da un punto di vista emotivo, per quel che riguarda la connessione empatica che credo debba crearsi.

Izzo: Il rapporto tra editor e autore è un rapporto tra due persone qualunque che devono collaborare. Risente quindi del carattere di entrambe. Si può andare d’accordo, diventare amici, litigare, ignorarsi cordialmente, ecc ecc. Ma in questo rapporto credo che l’autore sia un po’ più libero di esprimere la propria personalità, mentre il bravo editor sa di dover fare un passo indietro (a volte più di uno) per mettersi al servizio del suo autore, per creare un dialogo costruttivo e raggiungere gli obiettivi comuni nella maniera più armoniosa possibile. Hai giustamente parlato di empatia: ecco, credo che sia questa la parola chiave, l’abilità naturale da possedere. L’altra parola chiave è fiducia, senza la quale si va poco lontano. Dal punto di vista pratico, invece, si tratta di applicare un certo numero di accorgimenti che non saprei riassumere esaustivamente neanche se facessi cento esempi concreti. Il mestiere editoriale è un “sapere tacito”, non articolato, in cui si sa fare molto più di quanto si riesca a raccontare.

Palomba: Il rapporto che si instaura è quasi sempre di grande intimità. Dico quasi sempre perché a volte non riusciamo a stringere il patto di alleanza. Ci sono anche casi di incontri non riusciti, di incomprensioni. Nella maggior parte dei casi va bene, la relazione funziona, deve funzionare: si tratta per me di mettere le mani sulla creatura/creazione dell’autore. E’ come se entrassi in una zona privata, oscura, nascosta: ci vuole delicatezza, cautela, capacità di ascoltare. L’autore deve fidarsi di me, e io di lui. Altrimenti non andiamo da nessuna parte.Io mi metto a disposizione dell’autore: sono il suo specchio, la sua prima lettrice. Come un giardiniere poto, falcio, semino, annaffio, mi prendo cura. E rassicuro, conforto, a volte contengo. E’ il lavoro della levatrice, aiutare a venire alla luce. Dal punto di vista pratico è difficile riassumere una prassi: è diversa ogni volta, la reinventiamo insieme. Io faccio delle proposte e vedo come reagisce.

Valerio: Fiducia, interlocuzione. Che in questo caso non sono termini metaforici. Bisogna lavorare insieme all’accordatura del testo. Anzi, io di solito dico, mi pare che questa parte pesi troppo e che questa non sia conclusa. Penso che se uno vuole scrivere, le soluzioni linguistiche deve poi trovarle da solo. Io mi fido degli scrittori.

Qual è il confine tra un testo che necessita di un editing pesante e un testo che invece non va bene per la pubblicazione? Voglio dire, come fai a capire che ti trovi davanti a un libro con del potenziale letterario, ma su cui si deve lavorare molto, e non davanti a qualcosa che invece, semplicemente, non è adatto a stare in libreria?

Izzo: Se per “editing pesante” intendi una sostanziale riscrittura, e quindi non un editing inteso nel modo in cui ti dicevo prima, oserei dirti che il testo che necessita di un lavoro del genere va messo nella pila dei non pubblicabili. Quando mi trovo davanti a un libro dal buon potenziale, che però non è espresso a un livello accettabile, provo a dare dei consigli all’autore e gli lascio la libertà di seguirli o ignorarli. Questo è l’editing migliore che posso fare in una situazione di questo tipo: fornire degli strumenti e delle indicazioni utili, senza la pretesa di avere la verità in tasca. È l’autore che scrive, lui che riscrive, lui che ha il compito di raggiungere con le proprie armi la soglia di pubblicabilità – ovunque essa sia.

Palomba: Questa è una domanda difficilissima, perché non so bene quale sia questo confine, lo decido di volta in volta. Posso dire che mi capita di incontrare testi che hanno bisogno di molto lavoro ma che mi attirano perché hanno, secondo me, una cosa nuova o importante da dire. O una grande urgenza. O una forza sconosciuta. Un punto di vista inaspettato. O mi hanno emozionata e penso che possano emozionare anche i lettori. I testi che scarto invece non hanno scatenato alcuna scintilla.

Valerio: Direi che dipende da chi legge e deve acquisire il testo. E questo varia secondo il gusto personale e secondo la casa editrice in cui si lavora. Personalmente, per autori che non sono stati mai pubblicati o che non ho mai letto, non valuto progetti di romanzi, per esempio, ma romanzi, non leggo sinossi, ma testi completi. Un romanzo, come dico spesso, è almeno tre cose: una immaginazione della lingua, una immaginazione del tempo e una immaginazione della storia. Quando ci sono contemporaneamente queste tre cose, quando più verosimilmente mi sembra ci siano, allora ne valuto, insieme all’autore e a Claudio Panzavolta l’accordatura.

Si dice che in letteratura sia importante ciò che non si vede, e uno dei compiti di un editor è togliere quello che sembrerebbe in più. Dunque una delle abilità di questa figura parrebbe risiedere nella capacità di vedere ciò che non si vede per lasciarlo lì, espungendo poi ciò che si vede ed è inutile. Funziona così? E se sì, come fai a distinguere le due zone?

Izzo: Anche in questo caso non c’è un criterio assoluto. L’editing non è una scienza, è una prassi, un repertorio di metodi e di astuzie che si arricchisce nel tempo e si adatta ogni volta al testo e all’autore che si ha di fronte. C’è poi – lo ribadisco – una forte componente soggettiva, tale che si può dire che ogni editor fa l’editor a modo suo.

Palomba: Credo si tratti di cogliere il messaggio fondamentale del libro e cercare di farlo emergere – non nel senso di renderlo manifesto ma nel senso di renderlo più forte, più pregnante, più profondo. Io ho le mie intuizioni, poi le condivido con l’autore. Se sono corrette, e ci troviamo d’accordo, allora possiamo concordare cosa tagliare e cosa tenere, cosa accorciare, cosa aggiungere, cosa smorzare, cosa esaltare. Mi devo sempre confrontare con l’autore: come dicevo, io sono il giardiniere e lui la pianta. Lo ascolto, scruto le sue reazioni, rizzo le mie antenne. Il testo è suo, questo è il mio primo comandamento.

Valerio: Un editor, come un traduttore è un lettore molto attento. Utilizzo il verbo accordare perché leggere e tradurre sono questioni d’orecchio. Non so darle uno schema a zone di un testo – e non credo che esista, un libro è qualcosa di complessivo, andrebbe analizzato, pensato, letto, nel suo complesso –so però quando una cosa, per me, funziona o no.

In foto: Ernest Hemingway e Gordon Lish

Hemingway una volta ha detto che “la prima stesura di ogni cosa è merda”, ma molti autori, d’altra parte, si dicono spesso incerti nell’affermare quale sia il confine tra le diverse stesure. Come fai a capire, da editor, che un testo è pronto alla pubblicazione?

Izzo: Hemingway aveva sicuramente ragione. Del resto, è abbastanza facile capire quando si legge una prima stesura o, come mi accade quasi sempre, una versione già rielaborata. Se il testo mi offre un’esperienza di lettura soddisfacente (o piacevole, o entusiasmante), probabilmente è già pronto per la pubblicazione, forse ha solo bisogno di una limatura qua e una là. Se le qualità dell’autore emergono in maniera piena e uniforme, non avrebbe senso intervenire con modifiche corpose.

Palomba: Molto dipende dall’autore: è lui che decide quanto lavoro ha voglia di fare su un testo, e quando ritiene che sia pronto. Io suggerisco, ma non posso decidere per lui. Se ritengo che non sia pronto, provo a forzare un poco, ma se capisco che lui non ce la fa più, che si sente violato, costretto, mi fermo. È una questione di sensibilità, per questo la relazione è importante. È come quando balli in coppia: devi sentire l’altro, il suo peso, la direzione che vorrà prendere.

Valerio: Parlandone. Rileggendo. Capendo che non c’è altro da aggiungere. O togliere. Il visto si stampi lo dà l’autore, non l’editor. E questo è un principio che vorrei mantenere saldo. I libri li scrivono gli autori, gli editor sono super lettori che hanno un rapporto di fiducia e interlocuzione con chi scrive.

È ormai nota la vicenda circa il pesante editing di Gordon Lish sui racconti di Raymond Carver, un vero e proprio stravolgimento in certi casi. Come ti spieghi una storia del genere? Insomma, mi è parso di capire che una delle regole auree di un editor sia non pesare sulle scelte letterarie e sulla lingua di un autore o di un’autrice. Cosa accadde, secondo te?

Izzo: Cosa accadde è piuttosto noto, anche se la vicenda è stata raccontata secondi punti di vista e secondo interessi diversi. Quello che penso io è che uno stravolgimento come quello operato da Lish sia, indipendentemente dai risultati che ha sortito, un grosso errore, un travisamento del ruolo di editor. D’altra parte, però, Carver sapeva cosa stava succedendo ai suoi racconti, se avesse voluto avrebbe potuto bloccarne la pubblicazione; ha rinunciato a imporre la sua volontà, e da un certo punto in avanti gli ha pure fatto comodo. Le colpe insomma vanno divise a metà. Ma sai cosa? Bisogna stare attenti a non scivolare nel gossip. Inoltre, continuare a parlare di questo caso è fuorviante, perché fa pensare ai non esperti che sia un caso ricorrente. Nella mia esperienza non ho mai visto niente di neppure simile, invece. Editing ricusati dagli autori sì, ma non a causa di stravolgimenti radicali. Per quello che può contare, io ripeto sempre ai miei autori che l’ultima parola su ogni scelta è e sempre dev’essere la loro. Li invito ad ascoltarmi, chiaramente, ma anche a non fidarsi mai troppo di ciò che gli dico, di seguire il loro istinto.

Palomba: Io so di quel caso ma confesso di non aver mai letto i racconti di Carver. Però potrei immaginarmi che un autore possa non essere soddisfatto del linguaggio, trovare un editor che è così intuitivo da proporre cambiamenti che corrispondono ai desideri profondi dell’autore. Può succedere, no? Così come succede che l’editor non possa cambiare una virgola perché l’autore ritiene di non aver bisogno di nessuna modifica, nulla di nulla.

Valerio: Non credo ci sia un solo modo di fare l’editor. Posso rispondere per me, io vorrei somigliare ai libri che pubblico e non viceversa. Non mi piace pensare l’editor come un Pigmalione, ma più come un Socrate. Chiamate la levatrice, insomma.

C’è un autore o un’autrice con cui hai lavorato e che vorresti ricordare? Un testo a cui sei particolarmente legata?

Izzo: Questa è una di quelle domande che possono ricevere solo risposte elusive e diplomatiche. Vedi, il punto è che ogni autore si deve sentire speciale, unico, ha bisogno di attenzioni esclusive. Chi più chi meno, tutti vivono un profondo senso di competizione gli uni con gli altri. Ecco perché non riesco a fare nessun nome in particolare: mi creerei un problema. In maniera più generica, posso però dire che non amo fare distinzioni tra autori considerati “letterari” e autori considerati “commerciali”; di solito per farsi belli si citano soltanto i primi, dimenticando i secondi che vengono vissuti come una sorta di male necessario. Per me non è così, gli autori che preferisco sono quelli con cui c’è un vero scambio, un’intesa, un principio di amicizia.

Palomba: Sì, sicuramente con alcuni autori e con alcuni testi ho avuto una relazione particolare, ma preferisco non nominarli. Mi piace pensare a loro tutti insieme, come a un mazzo di fiori. Non vorrei sciuparlo.

Valerio: Non le so rispondere. Nel senso che ciascun libro su cui ho lavorato, e ogni autore che ho incontrato mi ha insegnato qualcosa sul mestiere delle parole.

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