Abbiamo incontrato Capibara, aka Luca Albino, il giorno dopo il suo live al MONK di Roma per il Manifesto Fest: ci ha raccontato com’è andata questa edizione e cosa ne pensa della scena italiana, dall’elettronica alla trap.
Innanzitutto ti volevo chiedere quali sono state le tue sensazioni di ieri?
Allora fino alle 2 le sensazioni erano di sonno (ride) perché ero veramente stanco. Però poi è andata molto bene, non me l’aspettavo perché comunque ho suonato dopo nomi come Jolly Mare e Basinski. Non mi aspettavo che – così tardi – così tanta gente rimanesse e soprattutto si prendesse così bene. È stata una bellissima esperienza e vedo che ogni anno questo evento attira sempre più persone e quelle che erano venute negli anni passati ci ritornano e fidelizzano, che secondo me è la cosa più importante.
Era la tua prima volta a Manifesto?
No, se non ricordo male ho suonato alla prima edizione.
Per tornare alle origini: sei stato uno studente dello IED. Come ti sei buttato nell’elettronica?
Mah, in realtà un po’ a caso. Sono andato a Torino per lavorare – perché Roma a livello di grafica pubblicitaria è veramente niente – e poi una volta là mi sono innamorato perché Torino era una città vivissima. Sono stato investito da tremila stimoli e c’erano amici miei che facevano musica. Alla fine la cosa bella di fare musica adesso è che uno ci prova. È andata bene e poi da lì non mi sono più fermato: è uscito il disco, dal disco sono andato in tour, poi dal tour è uscito il mixtape che ha portato ad un altro tour…Quindi un po’ tutto casuale, naturale.
Qual è la tua routine professionale? Quando lavori, da dove inizi?
Non mi sveglio mai con l’idea di mettermi a fare musica. Io mi sveglio e faccio i cazzi miei (ride). Sono uno che pensa che gli stimoli arrivino da ovunque e sempre. Anche ‘sto motorino, ora ci metto una cassa a 4/4 e via, qualsiasi cosa è stimolo. Ed è una cosa che ci hanno insegnato proprio allo IED: non metterti mai davanti al foglio bianco se non hai già l’idea.
Sei di Roma, giusto? Di quale quartiere?
San Giovanni, più precisamente Re di Roma: “il quartiere delle tute dei Celtic”, come lo chiamo io.
Quali sono i riferimenti musicali che citeresti?
Sinceramente non esiste qualcuno da cui mi posso ispirare perché non c’è nessuno che fa la mia roba. Ma non perché sono il più bravo: faccio una cosa che non è standard, cambia continuamente. Forse quelli che mi hanno più sconvolto sono stati i Modeselektor: mi hanno entusiasmato perché erano questo duo di Berlino – che poi hanno fatto i Moderat con Apparat – e facevano nello stesso album una traccia iper-techno, quella dopo dub, l’altra mega-pop, mantenendo un fil rouge durante tutto il disco. O anche i Telefon Tel Aviv.
Invece tra quelli che hanno suonato a Manifesto chi ti è piaciuto di più?
Basinski lo adoro. Anche se del genere i miei preferiti sono Tim Hecker e Ben Frost. Jolly Mare è un genio: è un ingegnere e ha un cervello così. Mana, l’ho conosciuto ai tempi di quando abitavo a Torino e in quel periodo c’era lui, Lorenzo Senni, che ancora non conosceva nessuno, c’erano i DYD di Guido Savini che poi ha abbandonato per continuare a fare il Club To Club…A Torino c’era un ambiente incredibile.
Club to Club, Manifesto, Robot: questi festival stanno raccogliendo numeri sia in termini di pubblico che per gli ospiti dall’estero. C’è speranza per la scena elettronica italiana?
Io penso che in Italia gli artisti elettronici rappresentano un ascolto laterale; cioè, chi ascolta Capibara, Populous, Jolly Mare non è il pubblico dell’elettronica: di solito ascolta o Franco126 o la trap e noi siamo gli ascolti alternativi. È molto vero che ci sono festival dedicati ma molto spesso noi artisti di elettronica ci ritroviamo a suonare in contesti e festival di altri generi: molte volte mi sono ritrovato a suonare coi Coma Cose, Ketama, ecc. Da una parte è un bene perché vai ad incontrare un pubblico che neanche ti conoscerebbe…Però non c’è una vera scena elettronica. E la scena non esiste perché non esiste il pubblico. È questa la verità: i produttori ci sono, gli eventi ci sono, i locali ci sono…Il tassello mancante, che è quello fondamentale, è il pubblico.
E pensi che Spotify o Soundcloud possano aiutare o peggiorare la situazione? Perché da una parte hai un mezzo con cui fare arrivare la tua musica, dall’altra hai una competizione devastante.
Io non penso esistano mezzi cattivi: neanche la tv è un mezzo cattivo, dipende sempre da come lo si utilizza. Spotify può essere la tomba – perché magari sei un tipo che si ascolta 18 ore al giorno la stessa playlist trap – o può essere la salvezza – perché sei uno che va coi correlati di generi e stili, parti da un punto A e arrivi a Z dopo 10 ascolti. Dipende sempre da come lo utilizzi: può essere una fonte di conoscenza o di chiusura mentale.
Visto che l’hai menzionata, cosa ne pensi della trap?
Anche qui, dipende da cosa intendi per trap. Pure nei generi musicali, non esiste cattivo o giusto: esiste quello che lo fa bene e quello che lo fa male. La trap non è cattiva, lo è la gente che la fa. Poi c’è gente come Travis Scott che la fa bene per esempio. Io la trap la conoscevo da molto prima perché a me piace l’NBA e tifo Atlanta. Atlanta la conosco da quando sono ragazzino e Atlanta è stata la città da cui è nata la trap. Si dice che i primi esponenti della trap siano stati gli Outkast e sinceramente non mi viene da pensare male degli Outkast. Anche il primo lavoro di The Weeknd, House of Baloons, è una pietra miliare della musica. Poi c’è Kanye West, uno che prescinde dai generi: magari ti fa 30 secondi di trap in un pezzo, e 30 secondi mega-pop subito dopo.
E l’Italia?
Sta messa male. Penso che la prima Dark Polo Gang fosse clamorosa: The Dark Album di Pyrex è un disco che potrebbe essere suonato in strumentale al Club to Club. Poi l’errore è stato quando tutti hanno iniziato ad ascoltare la trap “per ridere” – che è la scusa che gli italiani usano per vedere anche Uomini e Donne. Quindi il problema della trap italiana è nato quando tutti hanno iniziato a vederli come dei pagliacci, e i trapper italiani si sono vestiti da pagliacci. Infatti la morte della Dark Polo è stata quando, dopo The Dark Album, sono arrivati a fare Cono Gelato: quella cosa alla Lil Pump, che per me è forse la rovina della trap. E ora in Italia quasi tutti si sono buttati a fare quella roba là perché è radiofonica. E in Italia la radio è fondamentale, per cui l’obbiettivo è finire in radio per avere successo.
Ultima domanda: da dove viene il nome Capibara?
Praticamente avevo il primo EP pronto e ancora non avevo un nome. Era Ferragosto e stavo male a casa, l’unico, tutti i miei amici fuori a divertirsi. E niente, giravo sul National Geographic e c’era un documentario sui pesci capibara, in cui si diceva che erano brutti, pelosi e muoiono se non hanno affetto: ho detto “cazzo, sono io, brutto, peloso e ho bisogno d’affetto. Perfetto”.
*Tutte le foto sono di Francesco Casarin.