Nella nota finale in coda al suo nuovo romanzo, “Il dio disarmato”, edito da Einaudi, dedicato ad Aldo Moro e alle otto ore che precedono il suo rapimento, Andrea Pomella scrive:
Esistono tre verità riguardo a uno straordinario avvenimento di sangue accaduto nel passato: una verità storica, una giudiziaria e una – più sfuggente – che ha a che fare con la percezione individuale e collettiva. Queste tre verità possono essere molto diverse tra loro. Occuparsi della prima è compito degli storici, appurare la seconda è dovere della giustizia, indagare la terza può spettare anche agli scrittori.
L’esigenza di circostanziare con la propria percezione eventi storici della portata del rapimento Moro non è una forma moderna di narcisismo, ma è soprattutto una strategia di elaborazione del trauma in cui la Storia, con la s maiuscola, e la percezione si sovrappongono fino a diventare la stessa cosa nella memoria personale. Degli eventi di via Fani tutti hanno un ricordo, persino io, nata dopo il 1978, che in qualche modo ho ereditato tracce infinitesimali del trauma vissuto dai miei genitori.
Il 16 marzo 1978 mia madre era in ospedale e quarant’anni dopo condivide con me le parole precise che le ha rivolto l’infermiere che quella mattina le cambiava la flebo: «Sapete cosa è successo? Una cosa grave, hanno rapito Moro». Me lo ripete più volte senza mai cambiare le parole, né il movimento delle mani. Tornò a casa giorni dopo, ancora in convalescenza; sul comodino c’erano, impilati, i libri per la specializzazione in Diritto del lavoro, in tv il live dei cinquantacinque giorni di sequestro che ha costruito lo shock che ricorda ancora adesso. Mio padre, invece, stava studiando per il concorso in banca sulla scrivania della sua stanza, di fronte alla finestra. In sottofondo Radio Rai Due, cosa che faccio anche io adesso, lo scopriamo mentre me lo racconta. Quella mattina c’è un programma che ama molto, “Voi ed io”, a condurre la puntata la voce di Ubaldo Lay. Alle 9:25 l’edizione speciale del GR2 interrompe la musica (si può ascoltare su Rai Play). Se chiudo gli occhi sono con lui davanti a quella finestra, abbiamo paura; poi lo seguo in cucina e accende la tv su Rai Uno. Bruno Vespa lancia il servizio da via Fani; si vedono i corpi dei cinque della scorta, le auto coi vetri in frantumi, Frajese sta quasi pestando i bossoli mentre cammina e parla senza mai fermarsi, anche se si intuisce che è scosso.
“Il dio disarmato” avvia la sua narrazione da momenti come questi, esordendo con uno sconosciuto diciannovenne in via Fani la mattina poco prima del rapimento, e da quel momento esatto il romanzo rimescola spazio, tempo e identità di un evento chiave della storia italiana. Otto ore in totale il tempo dell’azione, nel romanzo centellinate dalla penna di Pomella e indagate in ogni minuzia da punti di vista differenti: il narratore onnisciente, il presidente Moro e tutti gli altri personaggi a lui legati, che si muovono ignari mentre il destino incombe. Cosa c’è da dire ancora sul sequestro Moro nel ventunesimo secolo? Pomella svela il suo intento nelle prime pagine, in un incipit che è una dichiarazione d’intenti resa con un espediente narrativo simbolico: una mail a Mario Moretti, capo della banda di brigatisti che rapirà Moro e lo ucciderà a maggio del ‘78, in cui spiega le intenzioni della ricerca e il romanzo dal tempo dilatato che si appresta a generare. L’e-mail non arriverà mai al destinatario, un dettaglio paradigmatico, come sottolinea Pomella stesso durante un’intervista.
“Il dio disarmato” è un romanzo storico nel senso che è collocato nella storia e da essa attinge a mani piene; come tale mantiene un rigore narrativo, pur essendo, la sua, letteratura che reinventa il tempo. C’è, infatti, una linea narrativa primaria, quella dedicata al presidente, che scava nell’intimo dell’uomo Moro, oltre il politico e l’uomo di Stato, ma ci sono anche i familiari stretti, gli uomini della scorta, i brigatisti, i testimoni oculari, con la paura nel ruolo del filo conduttore. Tutte queste linee narrative si affiancano e si autoalimentano procedendo parallele in un tempo finito del romanzo che, di fatto, estende la storia e la legge sotto la lente della letteratura.
Il tempo è uno dei concetti cardine del lavoro di Pomella. Appare sin dal già citato incipit, la mail a Moretti, in forma di data e orario; ritorna, ancora granitico e inscalfibile, nelle trascrizioni evocative di Vespa che parla durante l’edizione straordinaria del TG1, ma poi si dilata e sfida le leggi stesse della fisica, con un “incantesimo” a stregare il tutto. Il tempo rimbalzerà tra eventi narrati e digressioni, arretra nei ricordi del presidente legati all’adorato nipote, viene sbalzato in un futuro che è stato possibile fino alle 9:02 del 16 marzo, ma tutto si sgretola sotto i colpi d’arma da fuoco dei terroristi. Fino a quando, però, Aldo Moro è nella sua casa nel silenzio della notte romana – siamo nel secondo capitolo -, adagiato sul divanetto in attesa del ritorno del figlio Giovanni, ancora tutto è possibile. Pomella si dedica ai dettagli fin da subito, costruendoli con pazienza e abbondanza. Si veda, a questo proposito, il terzo capitolo della prima parte, con Pomella che nel novembre 2020 è in via Fani e costruisce la cronaca di quell’esplorazione. I dettagli, però, abbondano anche negli stati d’animo del presidente e nella sua ansia depressiva.
La paura è un movimento lacerante e progressivo tra le parti e il tutto […]
Di paura vive il presidente, ci familiarizza e a lei si consacra. Di paura si alimenta anche la progressione dell’intreccio. Il pattern dell’ansioso che gioisce per un tempo esteso e caldo che corrisponde al ritorno a casa del figlio, ma che si gela al pensiero che «domattina tutto tornerà a tremare dentro la scossa del quotidiano». In questa consacrazione alla paura è contenuta la familiarità di Moro con l’idea della morte, le manie e la sua struggente solitudine.
Per lui l’angoscia è sempre stata una condizione mentale d’indeterminatezza, il dubbio dietro cui si cela la possibilità della morte. La morte, o il pericolo (ma l’idea della morte è la sua ramificazione più completa), è nel ventaglio delle probabilità. La morte non è mai ineluttabile, è sempre il risultato di una scelta compiuta chissà quando.
L’indagine letteraria di Pomella scava nel personaggio Moro, nella sua convivenza con l’idea della morte, la fede e le ansie del quotidiano, e in queste meditazioni di Pomella/Moro il tempo, già citato come protagonista assoluto, si fa lento e posato, per prepararsi all’irreparabile, per aiutare chi legge a metabolizzare quella «battaglia di tre minuti», la «guerra tra ragazzi» che accadrà presto, ma anche chissà quando.
Alla sua indagine Pomella attribuisce un registro poetico, ma anche matematico, con metafore che spaziano e si avventurano nell’astrofisica. Ogni frase è ricerca e sperimentazione, ogni passo concorre all’idea di un romanzo costruito per meditare sulla vita che cambia e si fa storia, sui ricordi che si sparpagliano e si fanno verità. Pomella riflette lambendo la digressione quasi completamente filosofica, come se dovesse logicizzare ogni dettaglio e farlo digerire dalla sua coscienza di romanziere. Quello che risulta è anche un ritratto di uomo, il presidente Moro, filtrato da sensibilità e ambizione dell’autore.
Non è facile scrivere di “Il dio disarmato” e più ci si prepara scavando nei libri e negli archivi Rai, tra film, documentari, interviste con colori sbiaditi e volti d’un tempo, più l’argomento appare paradossale, anche a distanza di tutti questi anni. Suonano incredibili le interviste dell’epoca di Andreotti, le ragioni dei brigatisti, la commozione di Zaccagnini, segretario della Democrazia Cristiana, il dibattito sulla presunta sindrome di Stoccolma del presidente, le dirette con le riprese ravvicinate dei corpi inerti delle vittime. Realismo traumatico, lo chiama Pomella.
“Il dio disarmato” è un romanzo complesso su più fronti, soprattutto nell’intreccio, che l’autore atomizza e ricompone con spiccato istinto letterario; il risultato è un ritratto di vite passate e una ricerca alternativa dei dettagli affinché chi legge se ne possa quasi fare una ragione. Nel suo articolo su Repubblica dedicato al romanzo e a “Esterno notte” (serie di Marco Bellocchio che verrà trasmessa dalla Rai nell’autunno del 2022), lo scrittore Francesco Piccolo si chiede perché abbia senso ancora occuparsi di un evento così conosciuto. E la risposta è immediata: c’entra «la gigantesca speranza che tutto non finisca come è finito». La suggestione cinematografica del primo Bellocchio nel film “Buongiorno notte”, e il suo Moro che va via nel fresco della mattina, libero, ne è la testimonianza perfetta; ma si rinforza questa segreta speranza anche ne “Il dio disarmato”. La dilatazione temporale fa sì che, a fine lettura, ritornare indietro e rileggere il libro sia la sola azione accettabile, perché solo così si può placare la segreta convinzione che un nuovo dettaglio emergerà a cambiare il corso della storia.
L’intervista
Perché Moro? Cosa spinge uno scrittore a immergersi, dopo più di quarant’anni, in uno dei peggiori traumi collettivi della Storia Italiana e, nonostante questo, virare dal puro romanzo storico? E che valenza ha oggi, nella sua percezione, il caso Moro per le nuove generazioni?
Mi sono chiesto a lungo perché quella vicenda sia ancora così presente nell’immaginario degli italiani. La risposta che mi sono dato è che assomiglia tragicamente alla parabola di Cristo raccontata nei Vangeli. Nella notte che precede via Fani, Moro è solo nella sua casa, e quello è il suo Getsemani; i passi che compie la mattina prima di ritrovarsi sotto il fuoco dei brigatisti sono la sua Via Crucis; i cinquantacinque giorni nella “prigione del popolo”, il suo Golgota. Per le nuove generazioni Moro è il nome di una piazza o di una via, tutt’al più l’immagine di un uomo ripreso davanti a un drappo con la scritta “Brigate rosse”. La memoria delle vite degli uomini illustri si perde in sintesi storiche e abbreviazioni iconiche che rappresentano l’esatto contrario della letteratura.
Nella presentazione de “Il dio disarmato” nel programma di Radio tre “Fahrenheit”, ha dichiarato che il romanzo non ha la pretesa di diventare verità storica, ma che con essa fa i conti. Ancora, nella stessa intervista, si dice che il romanzo “lambisce la verità, ma non l’afferma”. Come si innestano, allora, verità storica e invenzione creando il grande equilibrio de “Il dio disarmato”? È mai sorto il dubbio che questo lavoro potesse creare soggezione?
La verità storica, quella assoluta, ahimè, non la conosce nessuno. Ma chi avrebbe il compito di scovarla e raccontarla fa un altro mestiere rispetto a me. Il mio compito di narratore è indagare, se possibile, su un piano ancora più profondo: un piano da cui si accede a una verità percettiva e profondamente umana, quella che riguarda l’esperienza di vita degli uomini inseriti in quegli eventi, scrutare – come Javier Cercas – nell’anatomia di un istante. Non penso che questo lavoro crei soggezione, o almeno lo spero. La soggezione genera uno stato passivo, e il mio intento è esattamente il contrario: interrogare il lettore, smuoverlo dalla quiete immersiva della lettura, farlo sobbalzare, incitarlo se possibile a una forma intima di insurrezione.
Il titolo del romanzo allude alla figura di Moro, al suo potere politico disarmato all’appuntamento col destino. Come è nato?
Il titolo tenta di trasmettere l’immagine di un uomo che quando varcava la soglia di casa alla fine di un’interminabile giornata di lavoro deponeva armi e blasoni, smetteva di essere un uomo “politico”, si spogliava dell’aggettivo. Il suo essere disarmato è inoltre in contrasto con gli uomini delle Br, armati fino ai denti, che lo attendevano in via Fani. Immaginare il momento in cui viene fatto scendere dalla Fiat 130 significa figurarsi un uomo di sessantuno anni che ha appena visto assassinare gli uomini della sua scorta, probabilmente sconvolto, certamente impaurito: una potente e al contempo fragilissima figura alla mercé della Storia.
“Nell’epoca in cui si svolge questa storia, sulle strade di Roma e di tutta Italia prevale un clima d’insicurezza, il telegiornale della sera è uno stillicidio di attacchi contro cittadini inermi, forze dell’ordine, fattorini di banca. Una successione numerosa, sanguinaria, orrenda di assassinî, un rosario di lutti. La città ne è infetta, e chi ci vive inala tutti i giorni una dose di veleno che gli altera lo stato emotivo e gli fa percepire ovunque la prossimità di un pericolo.” In questa frase c’è il passato, ma anche il presente e, azzardo, il futuro. Mi spiego: ogni generazione ha i suoi traumi collettivi e per quanto il decennio degli anni ’70 italiani sia stato unico, trovo ci sia un’analogia in tutto questo con ciò che stiamo vivendo ora in termini di “veleno che altera lo stato emotivo”. Esiste un antidoto a quel veleno?
Non penso che le due epoche si possano paragonare. Quelli erano gli anni delle stragi, delle sparatorie, del conflitto che non si limitava a vivere sul piano delle idee ma si faceva concreto, fisico. Allora la politica non era una scelta, era qualcosa dentro cui si abitava. La politica era nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, non se ne poteva fare a meno, neanche per chi voleva restarne fuori. Il veleno di oggi è l’apatia, il senso diffuso di sconfitta, la testa bassa. Se c’è qualcosa di analogo forse è la tendenza alla polarizzazione, anche se quella degli anni Settanta era una polarizzazione tutta ideologica, utilissima al potere costituito, che infatti la incentivava. Oggi la parte che si sceglie non è il frutto di un’analisi, di studio e di adesione, ma al contrario si è mossi dal desiderio di appartenere a qualcosa, a qualsiasi cosa, acriticamente, senza grandi sforzi di approfondimento. In questo senso la polarizzazione di oggi è quasi più “religiosa” di quanto non fossero le ideologie del Novecento, già di per sé religiosissime. Lo abbiamo visto con i vaccini anticovid: un puro fatto scientifico si è tramutato in una questione di fede.
C’è stata una componente – uso un termine forte – “ossessiva” nella costruzione di un romanzo del genere dotato di una quantità di fonti pressoché infinita? Nella preparazione a questa intervista ho studiato e visionato tutti i documenti disponibili sul caso Moro nelle teche Rai, e al giorno otto di studio ho sognato uno strano miscuglio di immagini di via Fani e traumi del presente. Succede qualcosa di analogo allo scrittore immerso in un romanzo come questo? Questa componente ossessiva, se esiste, è propria di ogni romanzo o solo di lavori così delicati dal punto di vista dell’importanza storica?
Una volta intrapreso il viaggio nella scrittura di un romanzo, la componente ossessiva è il motore e al contempo il carburante che permette di arrivare a destinazione. Se la storia che voglio raccontare smette di occupare i miei pensieri anche quando faccio tutt’altro, intuisco che forse devo mettermi in cerca di un’altra storia. La quantità di documenti disponibili su via Fani e sul caso Moro è enorme. All’apparenza può sembrare un vantaggio, ma in realtà è un grosso ostacolo. Perché in quella mole di informazioni c’è di tutto. E allora distinguere l’utile da ciò che è solo materiale inquinante diventa la principale occupazione. Solo dopo si può concretamente iniziare l’opera di costruzione.
Cosa ha pensato il giorno dell’incontro fortuito con la troupe di “Esterno notte”, la serie tv di Marco Bellocchio, in via Fani? Ha prevalso l’aspetto romantico e mistico del segno del destino o la consapevolezza, più terrena, che c’è ancora tanto da romanzare sul rapimento Moro?
Né l’una né l’altra. Ho semplicemente pensato di aver lasciato penetrare in me l’ossessione così a fondo da avere le allucinazioni. In parole semplici: di essere impazzito.
Tornerà al romanzo autobiografico puro in futuro?
Non so cosa sia il “romanzo autobiografico puro”. A suo modo anche “Il dio disarmato” è un romanzo autobiografico. E non perché riguardi i miei fatti personali, ma perché il pronome “io” proprio del romanzo autobiografico è sempre un “noi”, anche quando apparentemente racconta vicende intime. Nei miei romanzi precedenti partivo dall’io per trattare argomenti che riguardano tutti. Se una storia personale non ha la forza di aprirsi a questo noi, semplicemente non è una storia che merita di essere raccontata. Tornerò al romanzo, questo è certo.
Una curiosità: la chiamano ancora da Maglie? (Il riferimento è a questo post dell’autore)
L’ultima chiamata l’ho ricevuta lunedì alle 11.38, e come le altre volte al mio “pronto” hanno riattaccato.