Il delirio

Negli ultimi giorni dei miei ultimi dieci giorni di vita scrivevo solo per Matilda, ma a Matilda non riuscì di capire; e visto che in quei giorni ero in visita a Berlino dall’ambasciatore italiano (Satori il piccolo, si chiamava), mi capitava spesso di dimenticare la penna nel piccolo albergo sulla Kurfustendamm in cui mi avevano mal sistemato, allora scrivevo nel blocco note dello smartphone, cosa che complicava alquanto quella che da giovane chiamavo il ”processo creativo” e che dopo i 26 anni avevo ribattezzato il malessere dei vivi. Tuttavia scrivere lentamente, una lettera per volta, mi dava l’opportunità di riflettere sulle parole, privilegio che avevo cercato di evitare da un certo momento in poi: volevo solo dimenticare. A volte ci ossessioniamo di presente solo per dimenticare il passato, o evitare il futuro. Io vivevo di piccole ossessioni di presente, ma scrivere sullo smartphone lettera per lettera mi ricordava il passato, e mi buttava con fatica dentro il futuro. Improvvisamente mi tornò in testa quella notte che i cerchioni sui miei stivali si coprirono di fango a forza di correre al campo di SkanDuk in qualche landa, e improvvisamente mi tornò in testa Jonathan Kon, che era un negro del Delaware altamente cazzone che di notte pregava Allah e leggeva Proust: io odiavo Proust, ma stimavo Jonathan Kon. ”Come si fa ad odiare Proust?!”, mi chiedeva in quella lingua yankee strascicata che avevo imparato a comprendere, e io rispondevo avesse perduto troppo tempo a scrivere sette volumi senza voler significare niente. Lui mi fumava in faccia dicendo fuck!, intendendo che gli italiani sono superficiali, io non ci facevo caso, stimavo troppo Jonathan Kon per non dargli ragione a prescindere. Al campo di SkanDuk, che è una specie di posto per correggere i deliri dell’uomo in questo secolo disconnesso, la notte scrivevo versi a Matilda, e mi maledicevo per essere in quel postaccio, ma a mia discolpa posso dire che tutto accadde per caso, e contro la mia volontà. Sì, è vero, ci scegliamo tutto, tranne gli schiaffoni in faccia: quelli non li andiamo mica cercando.

La notte che finii per andare a sbattere a SkanDuk non volevo mica andare sul serio a SkanDuk: era tutta colpa di un fottuto scherzo di Mario Bondelli. Sul perchè abbia voluto prendermi per il culo così a fondo ho una teoria, ad esempio che gli bruciasse la mia presenza nel suo quartiere e nel suo giro, e che la sorella – Maria Bondelli – volesse vendicarsi per il mio abbandono e avesse assoldato quel fratello dal ridicolo nome uguale, e che entrambi avessero ordito alle mie spalle per farmi fuori, per allontanarmi profondamente da Matilde. Certo non può essere stato studiato tutto a tavolino quelle che accadde, ma accadde e tant’è. Mario Bondelli provò ad investirmi in Corso Marcucci alle 3 del mattino, insieme al suo fido scagnozzo di lungo corso Estaban: fu in quel momento che presi il delirio del secolo disconnesso. Lo so, per voi che leggete dall’altro lato del parallelo è difficile da comprendere cosa sia questo delirio, ma si presentò immediatamente più o meno in questo modo: mi si contorsero le braccia, vomitai bava dalla bocca, e iniziai a cantare qualcosa. Bondelli, che era uno stronzo, mi soccorse: non voleva seriamente farmi male ma solo un poco, ferirmi una spalla – diceva per giustificarsi, mettere paura al mio orgoglio, ma ormai era tutto andato così, avevo preso quel delirio. Non capivano mai come si presentasse, e quale fosse la causa, ma tutti a un certo momento di quelle fasi disgustose prendevano a cantare. E allora arrivava il livello successivo, che ti portava nei campi di correzione come quello di SkanDuk. Jonathan per esempio cantava i Queen disperatamente, e ogni notte, dopo un capitolo di Proust. Io cantavo John Grant, e tutti mi chiedevano chi fosse. Jonathan Kon mi diede un calcio sul sedere perchè proprio non lo sopportava, anche se sospetto che sopportasse peggio il fatto di ignorarlo. Cantavamo al campo come matti, ognuno nella sua lingua, il suo proprio delirio: e c’erano da un lato i folksinger, dall’altro i bluesmen, e poi ancora gli shoegazer senza scarpe, rigorosamente scalzi (il delirio shoegaze lo chiamavano, quello che si accompagnava alla voglia di stare a piedi nudi), e c’erano persino i no wavers, da cui cercavo di stare alla larga perchè a loro invece capitava di schiaffeggiare senza motivo i passanti. Io cantavo così forte che credevo che Matilda mi sentisse, o che mi avrebbe sentito prima o poi, anche se da quando avevo preso il delirio avevo smesso seriamente di pensarci. Non potevo mica scriverle che ero in un campo di drogati di chissà quale droga astrusa del mio tempo immemorabile, non potevo mica scalcinare le mie lettere per lei e indirizzargliele sul serio, non potevo mica prenderla per un braccio e tirarla dietro un muro e baciarla. Mi limitai a guarire.

E così guarii. Guarii così tanto che al posto di cantare presi a ballare con Elizabeth in una notte di luna piena al campo, con il sottofondo musicale di due crooners che imitavano Sinatra presi da un delirio intonato. Era raro incrociare gente intonata al campo, ma quella versione di New York New York, quella notte, la ricordo bene: ricordo bene quando chiesi di bissare con una versione crooner di New York I love you but you’re bringing me down degli Lcd Soundsystem, e come gli riuscì per bene. Elizabeth mi stava guarendo. Poco a poco cominciai a pianificare la fuga, l’avrei presa per mano, e abbandonata in qualche parte della Germania. Liz era d’accordo, lei non era come noi che avevamo preso il delirio, lei era una curatrice di bell’aspetto e grazia profonda. Ma si divertiva quando ancora mi scappava di cantare, o aggrottare la fronte. Dieci giorni dopo successe una cosa che sconvolse tutti i miei piani: Matilda era arrivata al campo di SkanDuk, intonando The great gig in the sky. Ridicolo a raccontarsi, rabbrividente a descriverlo. Si annunciò con un urlo gigantesco, e quando la vidi passare presi a piangere dalla disperazione. Il suo delirio peggiorava momento per momento, e ne sapevo sempre molto poco, dai racconti alla divisione Z del campo maschile mi si narrava la storia della nuova arrivata che in pochi giorni era regredita allo stato no wave, che schiaffeggiava le compagne di stanza, e ben presto avrebbero dovuto legarla. Non riuscivo a credere e sentire quelle storie malvagie, e mi dicevo che dovevo essere io a salvarla, portandola a ballare sotto la luna, riportandola almeno a cantare allo stato crooner, che era quello primordiale di presentazione della malattia. Ma non sapevo come fare: la nostra divisione era in fondo al campo, quasi in disparte rispetto a tutto il resto, men che meno dalla divisione femminile, che era dall’altro lato di SkanDuk. Pensai che dovevo fregare assolutamente Liz per raggiungere Matilda.

Come ogni notte, al campo liberavano i crooners per passeggiare, e io e Liz (con me quasi del tutto sano dal delirio) ci intrecciavamo tra gli alberi, stavolta con in sottofondo qualcosa di più vecchio, così vecchio che neanche avevo idea di chi fosse, tanto che mi interrogai se i crooner avessero idea di che cazzo stessero cantando, e se io ne avevo idea quando cantavo quello che cantavo. Ballammo, ma io avevo la testa altrove, volevo solo salvare Mat. Pensai che non fosse il caso di dirglielo chiaramente, non mi avrebbe più liberato, così le dissi che mi sembrava che una mia vecchia cugina fosse arrivata al campo, che stesse regredendo, e le chiesi di cercare notizie. Il giorno dopo fu pronta a raccontarmi tutto: era vittima anche lei della sorella Bondelli, che si era accorta di quanto fosse bella e quanto dovesse soffrire per quel danno non voluto, e così aveva cercato di sfigurarle il viso senza riuscirci, Matilde era scappata a quel vero delirio, e si era beccata il delirio del cazzo sbattendo a terra nella corsa. Era sempre così, seguiva tutto un incidente, o un colpo al cuore, uno sparo. La canzone che la fece esordire nel mondo del delirio pare fosse di Diana Krall (cosa che all’inizio aveva fatto sottovalutare il caso): ma poi man mano che passavano i giorni era arrivata alla no wave, e infine stava arrivando a cantare i Daft Punk, che al campo era considerata una delle cose più preoccupanti e serie.

Ti assicuro”, diceva Liz, ”manca davvero poco e canterà i Daft Punk!”.

”Ne sei sicura?!?!”, dissi spegnendo una Pall Mall (le uniche fottute sigarette che si trovavano al campo).

”Figurati, è già alla fase Bombino, manca poco!”.

”Dimmi che non arriverà allo stadio Lana Del Rey!”.

”Ci è arrivato soltanto uno a quello. Non è sopravvisuto.”, lo disse con le lacrime agli occhi, ed era così terrorizzata che la baciai per rassicurarla. A volte Liz mi faceva tenerezza. In quel momento particolare, in cui la stringevo tra le braccia sotto la luna, pensai addirittura di provare qualcosa per lei, e le sussurrai una vecchia melodia all’orecchio, aggiungendo solo alla fine ”non preoccuparti, sto cantando sul serio”. Lei disse ”è la cosa più bella che ho sentito cantare qui a SkanDuk”. Non potevo dirle che quella canzone, di cui non ricordavo il titolo, mi ricordava assolutamente Matilda. Povera Liz, pensai, tenendola stretta a me. Povera Liz, che ancora non canta, e chissà se canterà. ”Andiamo via da qui”, mi disse. Io sorrisi, e le chiesi se ci fosse un tabaccaio nei pressi di SkanDuk che non vendesse le solite Pall Mall. ”Fuori da qui non vendono solo Pall Mall”, disse. Era il modo migliore che aveva per convincermi a lasciare il campo con lei. Ma non potevo andarmene senza Matilda. Fissai il suo sguardo, e dissi che mi dispiaceva tantissimo lasciare il campo senza aver provato realmente ad aiutare le persone a guarire, dissi che potevo mettere a disposizione la mia esperienza, dissi che potevo salvarli dal delirio, e che avrei fatto smetterli di cantare, sarebbero stati tutti corretti. Sentii lancinante all’orecchio un blues che mi cantava Mister Jangle addosso. ”Se vuoi aiutare tua cugina lo capisco”. Ci baciammo con un blues in sottofondo, Mister Jangle era regredito.

In pochi giorni Liz mi mise in condizione di avere un incontro con Matilda. Qui debbo tornare a una certa serietà e profondità, perchè i giorni che precedettero l’incontro continuavo a pensare a cosa avrei dovuto indossare, a come avrei dovuto muovermi, a quello che avrei dovuto raccontarle e dirle, e immaginavo tutto nella testa, così perfettamente che al momento dell’incontro non feci niente. La ascoltai teneramente cantare un pezzo di Lydia Lunch. Era così splendida, Matilda, che mi veniva voglia di regredire assieme fino a Lana Del Rey, ove fosse possibile, e morire cantando a squarciagola Born to die. Allora prendemmo a cantare assieme, e passammo in rassegna qualsiasi cosa, da Elvis Presley agli Slint, dai Mudhoney agli Arcade Fire, stavamo quasi sfiorando i Daft Punk a forza di cantare, ma cantavamo sempre più forte, così forte che entrarono Liz e Taylor, e ci colsero in flagrante. ”Smettetela!”, gridarono. Liz mi prese per un braccio, e mi gettò contro il muro, e disse ”Non riesco a crederci!”. Io avevo gli occhi quasi colpevoli, eppure quanto avrei voluto continuare. ”Ti ho preso al limite!”, urlò Liz. ”Su James Blake!”. Fui cacciato dal campo, e trasferito immediatamente a Berlino.

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Negli ultimi giorni dei miei ultimi dieci giorni di vita scrivevo solo per Matilda, ma a Matilda non riuscì di capire. Mi avevano messo in un albergo sulla Kursfusterdamm, e mi avevano costretto ad incontrare l’ambasciatore italiano a Berlino, Satori il piccolo si chiamava, che mi avrebbe offerto un ottimo lavoro all’ufficio Alfabeto Morse. Io non volevo, continuavo nostalgicamente a sentire i suoni di James Blake nelle orecchie. Ma non potevo cantare. Così scrivevo, e scrivevo dappertutto, e scrivevo del maglione scuro di Matilda, e incidevo sui muri di Berlino parole di libertà, o che io tali mi figuravo nel cervello, e pensavo che prima o dopo l’avrei incontrata, e scrivevo sullo smartphone – che di quello mi avevano dotato al campo di cura -, e mi dicevo che un giorno sarei riuscito a scappare, sarei tornato a SkanDuk e avrei fatto fuggire Matilda con me intonando Bob Dylan, e ci saremmo rivolti altrove. Ma successe una cosa imprevista, vedete, morii.

Ero in un bar a Est di Berlino, e stavo scrivendo a Matilda ”io credo di non avertelo mai detto sul serio, anche se forse”, e mentre scrivevo la parola forse, che aveva in sè tutta quell’improbabilità esistenziale, il bar trasmise a tutto volume un intero concerto di Lana Del Rey. Lentamente mi lasciavo andare alla morte, senza neanche lottare, e che era l’ultimo stadio lo sapevo. Ed ecco, che improvvisamente mi misi a cantare, e pensavo a Matilda, e a come sarebbe rimasta delusa dall’avermi saputo morto, pensavo a Matilda che man mano che io cantavo diventava senza speranza, pensavo alla delusione sul volto di Matilda ma non riuscivo a farne a meno. E proprio, mentre io morivo, la vidi entrare nel bar di Berlino, con un cappotto addosso, e i sogni nella tasca, libera di vivere la sua vita, e io che me ne andavo via, morendo di pop, e la sentii gridare il mio nome, dirmi ”sono scappata!”, ma io non sapevo come si resisteva al delirio, non sapevo come non si moriva. E così morii, felice che almeno lei fosse viva.

 

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