La Basilica di San Petronio, è lì, ferma, maestosa e incompiuta in tutta la sua forza. Illuminata, come sempre a quell’ora. Piazza Maggiore, ai suoi piedi, quella sera è colma di gente e di tante luci in più. Sul fianco dell’antico quadrato, un palco illuminato è preso di mira da sguardi che si incrociano sotto creste alte e colorate che riflettono su spille da balia infilzate in carni ancora molto giovani. Bologna e un pezzo d’Italia ribelle, è lì, ad aspettare che su quelle tavole abbia inizio l’attesa cavalcata punk dei Clash. Non sono un gruppo qualsiasi, sono gli alfieri di questa nuova onda sonora che ha unito la New York dei Ramones e di Patti Smith alla Londra dei Sex Pistols, per poi propagarsi dappertutto. Fino alla città delle torri, appunto.
Il cuore di Bologna sembra la culla finale di un brodo primordiale, salito ormai fino al bordo e pronto ad evolvere allo stadio successivo. Manca la mescola finale attesa a momenti. Eppure dietro e avanti a quelle transenne non mancano certo tensioni che vanno avanti da ore. Il punk non è un genere da balera in cui tutto si aggiusta con un giro di liscio in più. Nasce con specifiche connotazioni antisistema, è politicizzato, ha i suoi simboli, a partire da quel dito medio che segna il confine e prende le distanze dal commerciale e dal politicamente integrato. Basta poco per sentire l’esigenza di marcare il proprio territorio da quello degli altri. Due sono le questioni che aleggiano in quella piazza per tutta la giornata. Gran parte dei punk bolognesi non ha preso bene quell’iniziativa del Comune – una rassegna musicale dal nome “Ritmicità” – al cui interno era stato inserito anche questo concerto gratuito con l’esplicito intento di stemperare le tensioni sociali e abbassare il livello del conflitto sociale, dopo il pesante triennio ’77-’80 che la città aveva sopportato e che, purtroppo, non si era ancora concluso.
“Il concerto è un messaggio di amicizia e di comprensione nei confronti del mondo giovanile, un invito a cominciare una nuova stagione dopo i travagliati anni Settanta” afferma il Comune. “Non è possibile che il Comune di Bologna ci venda la rivoluzione”, è la replica dei punk cittadini.
Ma questo non è l’unico nodo da sciogliere. L’ala più dura e pura del movimento punk rimprovera ai Clash di essere ormai una qualsiasi rock band commerciale che si è piegata alle logiche del sistema, e inneggia ai Crass come ai veri esponenti musicali capaci ancora di rappresentare quei valori. Chiara la presa di posizione del gruppo bolognese Raf Punk: “Non possiamo permettere che (il sistema) si impossessi delle nostre cose per poi svuotarle e restituircele innocue”. Dunque per loro i Clash non sono più punk ma: “Rockstar inoffensive per il sistema, che firmano per le major e cantano canzonette rock’n roll”.
Anche dietro le transenne le cose non vanno lisce. Tra realtà e leggenda c’è la presunta discussione con Strummer sull’opportunità di indossare la maglietta delle ‘brigade rosse’ con la stella a cinque punte (la stessa usata al festival londinese Rock Against Racism del 1978), in una roccaforte del Pci che, tramite le istituzioni locali, ne ha organizzato l’evento e che è rigidamente contrapposto sul fronte istituzionale e politico al brigatismo. E in più c’è la questione del batterista, quella che, alla fine, più avrebbe inciso sulla serata. I Clash, in arrivo dalla Francia, se lo sono perso per strada. Queste vicende tuttavia non devono in nessun modo offuscare l’unicità dell’evento: per i Clash in Italia è la prima volta, e l’appuntamento è storico. Già dalla mattina si aggirano nel centro di Bologna – con più frequenza – i giovani evidentemente diretti a piazza Maggiore, adornati da borchie, catene, spille e creste per il loro appuntamento speciale. I colpi di batteria del soundcheck sono un richiamo ulteriore che si espande nell’aria dalle due torri alla stazione. Il volume è altissimo e l’ingresso gratuito spinge molti, incuranti del pericolo, ad accaparrarsi i primi posti a ridosso delle transenne, buoni sia per godere dello spettacolo da vicino, sia come postazione ideale per il lancio di ortaggi e sputi, ormai prerogativa dei concerti punk.
Nelle prime file si aggira anche – con un taglio di capelli corto color oro – uno sconosciuto Enrico Ruggeri, all’epoca frontman dei Decibel, punk band (almeno all’inizio) attiva dal ’77. L’esibizione dei Clash, prevista per le 22, è preceduta da due gruppi spalla in apertura. Il compito di cominciare a riscaldare gli animi va ai toscani Cafè Caracas, un trio vagamente ammiccante i Police, che vede alla chitarra quel Ghigo Renzulli che di lì a qualche anno fonderà i Litfiba e alla voce quel Raffaele Riefoli, in arte Raf, di cui si sentirà parlare anche in seguito. Una versione punk di Tintarella di Luna conclude la loro performance per lasciare il palco ai britannici Whirlwind. Entrambe le band, come prevedibile, si prenderanno sputi, insulti e ortaggi.
Mentre tutto ciò ha luogo, dietro le quinte, contiamo ancora un Clash mancante: all’appello hanno risposto per ora solo Joe Srummer, Mick Jones e Paul Simonon, manca invece Nicky ‘Topper’ Headon, il batterista. Il tempo scorre veloce, è tardi e tocca ai Clash, la piazza è in attesa; dalle casse vengono mandati pezzi reggae-dub, per rilassare l’atmosfera, ma la scelta produce quasi l’effetto contrario. Bologna è pronta per accogliere i Clash, ma non tutti i Clash sono a Bologna. Nella piazza i detrattori della band aggiungono frecce al loro arco, facendo serpeggiare la voce che il ritardo dipenda proprio dal fatto che i musicisti inglesi siano diventate delle bizzose rockstar incuranti del loro pubblico, tra l’altro, in quei frangenti, bagnato anche dalla pioggia.
Nell’attesa che Topper ritrovi la giusta via cerchiamo di capire come mai questo concerto si è deciso di farlo proprio a Bologna. In realtà non l’unica tappa italiana, ma certamente è la prima, e questo, un valore ce l’ha. Tra l’altro non va dimenticato che dagli anni Settanta, le città italiane da un certo momento in poi sono state accuratamente evitate dai tour delle grosse rockstar per gli incidenti, di matrice politica, che puntualmente avvenivano prima, durante e dopo i concerti. Ma restiamo a Bologna e facciamo un salto indietro di un anno.
“Bologna Rock”
Skiantos, Gaznevada
Gli Skiantos cucinano la pasta asciutta sul palco davanti a più di cinquemila persone. Un gavettone mette fuori uso il mixer. Un’etichetta semi sconosciuta, specializzata in audiocassette, decide di affittare il Palasport di Bologna per un concerto. A suonare ci sono anche Gaznevada e Confusional Quartet. Quel 2 aprile del 1979 è una data importante per il rock italiano, che esce dai garage e dalle cantine per arrivare nelle strade e sui palchi. Non tutto è consapevole, ma il risultato è dirompente. In Inghilterra e in America, in quegli anni, il punk ha assestato un colpo deciso alla scena progressive e ai nostalgici del rock targato Sessanta. Lo spirito ribellistico della confusa scena punk ben si mescola con il clima di conflitto sociale che soprattutto a Bologna si respira per le strade. Alcuni episodi hanno un peso specifico notevole: su tutti la chiusura di Radio Alice dopo un blitz della Polizia e la morte del giovane manifestante Lorusso, freddato da un proiettile “vagante” della polizia. In seguito, nell’agosto del 1980, la strage nella stazione di Bologna alzerà ulteriormente la tensione, ferendo a morte, con 85 vittime, qualcosa di ben più grande della sola città emiliana.
Ma torniamo alla musica. Quel palco del 2 Aprile rappresenta quasi senza volerlo la somma e la sintesi di tutte le note sudate che decine e decine di band scaraventavano con rabbia fuori dalle finestrelle e dalle fessure dei seminterrati. Un punk “nostrano” che si divideva per scelta “stilistica” tra il rock demenziale degli Skiantos, capeggiati da Roberto “Freak” Antoni, e le propettive post punk e new wave di band come Gaznevada e Confusional Quartet, quest’ultima di solida provenienza jazz-rock.
In un momento in cui il fermento non ha ancora una forma coesa e riconoscibile, le intuizioni restano un percorso possibile che può riservare ottime sorprese. Così succede che alcuni giovani pensano a una sorta di cooperativa che potesse fornire servizi e supporto alla musica e all’arte. Nasce così nel ’77 l’Harpo’s Studio (rievocando il nome di uno dei fratelli Marx), inizialmente incentrato su musica, cinema e grafica, ma velocemente orientato verso le produzioni musicali col nome dell’etichetta Harpo’s Bazar. A Bologna, come detto, il fermento è tanto, e annusando l’aria in giro ci si incontra e ci si mette insieme per progetti pensati e realizzati in poco tempo. Questa piccola etichetta, molto attiva sin da subito, intercetta la gran parte della scena pronta a esplodere di lì a poco, e la supporta nel giusto modo, producendo le prime audio cassette, diffondendole e pensando in grande, al Palasport appunto, per dare un segnale fortissimo alla città. Le produzioni della Harpo’s Bazar, stimolata soprattutto da Oderso Rubini, uno dei fondatori della cooperativa, raccolgono la maggior parte dei nomi che si alterneranno sul palco in quell’inizio di Aprile del ‘79.
La scena punk italiana non è stata al livello di quella americana o inglese, ma certamente in quel momento preciso, a Bologna, ha rappresentato un momento di rottura e di aggregazione che probabilmente è andato anche oltre l’aspetto strettamente musicale, visto il delicato contesto storico, sociale e politico di fine anni Settanta. Ha avuto certamente il merito di portare alla luce il mondo underground e delle piccole produzioni lontane dalle logiche di mercato. Ha aperto la strada a quella new wave italiana che avrebbe trovato qualche anno dopo a Firenze, le condizioni per esplodere definitivamente con alla guida Diaframma e Litfiba, insieme a Neon, Moda, intorno a etichette come Ira Records e Materiali Sonori.
Ma ritorniamo a quel palasport inaspettatamente gremito da oltre cinquemila persona in attesa di ascoltare gruppi davvero semisconosciuti della scena bolognese. Parte la scaletta e si alternano Bieki, Cheaters, Naphta, Luti Chroma, Rusk Und Brusk, Windopen, e anche Andy J. Forrest, improvvisamente un po’ fuori contesto con le sue sonorità blues. Ma tutti protendono al gran finale con le tre band più attese, vale a dire i Confusional Quartet che precedono gli Skiantos, prima della chiusura affidata ai Gaznevada. Pochi istanti prima del rock demenziale di Freak Antoni, un gavettone si abbatte sul mixer impedendo alla band di suonare, ma non di annullare la performance, infatti, mentre un altoparante manda la loro cassetta dal titolo Inascoltable (ovviamente della Harpo’s Bazar), gli Skiantos preparano la pasta asciutta, tra lanci di ortaggi e farina, fino a ultimare il piatto di spaghetti al sugo. Ristabilito, non si sa quanto casualmente, il pieno funzionamento dell’impianto audio, si esibiscono i Gaznevada per il finale di una giornata da consegnare alla storia. Quello stesso pubblico, e molto di più, si ritroverà poco più di un anno dopo, ad affollare Piazza Maggiore, per il concerto gratuito dei Clash.
Ecco appunto, vediamo come va a finire la vicenda di quel 1 Giugno ’80, sotto l’orologio nel centro di Bologna.
London Calling
Alle 22.30 non si può più aspettare; la band deve imbracciare gli strumenti e incendiare il pubblico. Joe e Paul hanno dei capelli più corti di quanto ci si aspettasse, ma notato questo particolare, uno ancora più grosso cattura l’attenzione di tutti: alla batteria non c’è Topper. A immolarsi, è il batterista dei Whirlwind, George Butler, salito già in precedenza su quel palco.
“Scusate se vi abbiamo fatto aspettare, è stato un lungo viaggio in macchina”, sono le parole di Strummer, che aggiunge “Scusate! Se riuscite a capirmi, abbiamo perso il nostro batterista da qualche parte sulla strada dalla Francia. Forse ce la farà ad arrivare, speriamo, ma fino a quel momento abbiamo Mr. George!”. Il riff di Clash City Rockers cade sulla piazza che comincia a sciogliersi, e lo farà ancora di più sui ritmi rackabilly di Brand New Cadillac, tuttavia, dopo il promettente e liberatorio abbrivo il concerto scorre bene ma non decolla del tutto.
Dietro le quinte, intanto, si sta giocando un’altra partita sulle ali del tempo. Finalmente Topper Headon arriva a Bologna ma fatica a superare gli sbarramenti della sicurezza del backstage per raggiungere il palco. Sembrava scomparso nel nulla, ma nel suo ritardo non c’entrava né la droga né fantomatici arresti alla frontiera; si era davvero perso per strada nel viaggio in macchina verso l’Emilia, insieme a Ray Jordan, responsanbile della sicurezza della band…
Guadagnato il palco (in quel momento cessa anche la pioggia), viene messo a forza su quello sgabello a metà di Spanish Bombs, e il concerto finalmente prende il volo, diventando uno dei più incendiari che i Clash stessi ricordino. L’adrenalina guida e spinge i pezzi, fa ondulare la piazza, conquistando anche gran parte dei più scettici, andati lì a contestare quella band che solo qualche anno prima, da un’imbarcazione sul Tamigi sbeffeggiava la Corona, rimettendo la musica al centro anche come strumento di rivendicazione e conflitto sociale.
Alla fine, quando piazza Maggiore comincia a svuotarsi, e resta solo qualche migliaio di persone ancora incredule, che cercano di realizzare il momento storico appena vissuto, gli inglesi tornano a sorpresa sul palco per suonare ancora un paio di pezzi: quasi per scusarsi di qualche contrattempo di troppo. Attaccano con Capital Radio One e terminano sulle note di White Riot, che negli ultimi tempi avevano eseguito sempre più di rado. Topper su questo pezzo scaglia una energia sovrumana dalla sua batteria, regalando ritmi molto più marcatamente hardcore che punk. È quella l’ultima gioiosa e potente scossa che scuoterà il cuore di Bologna, solo due mesi prima di quel ben più drammatico e devastante colpo, della bomba che devasterà la stazione centrale e distruggerà la vita di centinaia di persone, tra morti e feriti.