Il coraggio di essere Penelope: l’epica di una regina oltre i luoghi comuni

I libri che leggo sono tracce dei giorni che vivo. Non c’è una separazione tra le storie e gli eventi: è una compenetrazione di elementi e di parti. Leggere è interpretare, far reagire la finzione con la realtà. Nel pieno del lockdown non sapevo a quali parole aggrapparmi, poi ho prescelto storie che hanno a che fare con la resistenza e la trasformazione. In questa geometria ci sono stati anche Il canto di Penelope di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie, traduzione di Margherita Crepax), La morte di Penelope di Maria Grazia Ciani (Marsilio editore) e L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre di Marilù Oliva (Solferino editore). L’epica della sposa di Odisseo non è incentrata sulla fedeltà, come ci raccontavano a scuola, ma sulla risolutezza, la pazienza e la fragilità, contropartita dell’assenza. Ci vuole coraggio per essere regina senza re su un’isola straniera e non restare schiacciati dalla gloria di un altro. Ma queste sfumature sono compatibili solo con un’indagine inedita del personaggio, che richiede l’autonomia del pensiero adulto e l’abbandono dei cliché.

L’intrattabile Penelope salvata dalle anatre

Penelope è tutto fuorché una sposa premurosa e paziente. È irascibile, desiderosa di sentirsi amata e di amare. Georges Brassens in Pénélope la definisce intrattabile. Pur non potendolo comunicare alla madre e alla nutrice di Odisseo o alle sue ancelle, si agitano dentro di lei sentimenti conflittuali: se da un lato spera nel ritorno del marito, dall’altro stenta a tenere a bada l’attrazione per altri uomini. Venti anni ad aspettare e a difendere il regno dalle grinfie dei Proci sono un fardello che Penelope ingoia per la reputazione istituzionale, a discapito della sua femminilità. Sta qui l’inferno della donna meno bella delle maghe, delle ninfe e delle principesse che Odisseo incontra durante il viaggio dopo l’assedio di Troia, eppure altrettanto desiderabile. La pelle di Penelope è deperibile, nessuna immortalità la protegge dal tempo, ma la sua mente è mobile, elettrica, almeno quanto quella di Odisseo. Quasi che Omero volesse esaltare una venustà che ha poco a che fare con l’estetica. Secondo la Ciani, Odisseo è consapevole della corrente che lo lega alla moglie fin dal primo incontro e non è un caso che non si lasci irretire da Elena, moglie di Menelao e cugina di Penelope.

Quando Penelope viene al mondo, suo padre Icario non la accetta: desidera un maschio da allevare e destinare alla carriera militare. Di una donna non sa che farsene ed ordina che la neonata sia gettata in mare. Ma la bambina non affoga: alcune anatre la salvano e la riportano a riva. Icario e sua moglie Policaste attribuiscono il salvataggio della piccola agli dei e decidono di chiamarla Penelope, che significa anatra. La violenza del gesto paterno accende nella bambina sofferenza ma pure fermezza. Cresce con la cugina Elena, vezzeggiata fin da piccola per la sua bellezza. Margaret Atwood scandaglia a fondo la relazione tra le due e ce la presenta disseminata di invidie e conflitti. Il confronto con Elena nell’età dell’adolescenza determina in Penelope un eccesso di senso critico, lo stesso che le impedisce di lasciarsi andare e di liberarsi dai suoi fardelli. Penelope non conosce la leggerezza. La contrapposizione tra le due cugine è uno stereotipo: Elena è incantevole e distruttrice, Penelope meno avvenente, ma saggia ed accorta. Quando Elena fugge con Paride scatenando la furia di suo marito e una guerra, Penelope accusa la cugina di inconsapevolezza ed egoismo. Per Elena, però, Penelope è solo invidiosa del suo potere seduttivo. Omero le pone al centro dell’Iliade e dell’Odissea, attribuendo a ciascuna un ruolo netto, assoluto. Non è escluso che almeno una volta ciascuna abbia desiderato stare nei panni dell’altra.

John William Godward – Penelope e i pretendenti
Penelope regina di Itaca e donna come tante

Nell’antica Grecia le donne erano di proprietà dei padri e dei mariti. Odisseo sposa Penelope dopo essersela aggiudicata ad una gara di corsa indetta da Icario per scegliere un compagno per la figlia. L’imbarazzo di Penelope – che viene condotta ad Itaca e affidata alle donne che avevano cresciuto Odisseo e continuano a idolatrarlo in sua assenza – è uno dei risvolti dell’opera della Atwood. Lo rivela Penelope stessa, che appare intimidita dalla sua condizione di consorte straniera. La Penelope della Ciani, invece, è innamorata e racconta con nostalgia i primi giorni ad Itaca. È in quei giorni che lei e il marito scoprono di essere più simili di quanto potessero immaginare. È in quei giorni che Penelope diventa la regina di Itaca. La partenza di Odisseo coincide con un periodo lunghissimo di solitudine: Penelope deve destreggiarsi tra le pretese dei genitori del marito, del figlio Telemaco e dei Proci. Non è inconsueto che in lei prendano il sopravvento la rabbia e il desiderio di ricostruirsi una vita. La promessa di sposare uno dei Proci non appena avrà finito di tessere il sudario per l’anziano padre di Odisseo (una tela che intreccia di giorno e disfa di notte) è l’estremo tentativo di difendere il regno, i beni di famiglia, suo figlio.

Niente a che vedere con i sentimenti che invece sono ondivaghi, contrastanti e causa dei malumori della regina. Malumori che – a leggere la Atwood – il ritorno di Odisseo placa ad alto prezzo: alla strage dei Proci segue quella delle ancelle di corte, senza che Penelope possa evitarlo. Da quel momento Penelope si porta addosso un sentimento che assomiglia alla colpa, al pentimento per la morte delle serve. La gioia di riabbracciare il marito non è dirompente. Pare più una riluttanza, una incertezza che solo il dialogo fa evolvere in una forma di vicinanza dopo una fase di smarrimento. Sono sfumature che rievoca anche la Oliva, che ha dà voce a tutti i personaggi femminili dell’Odissea, riservando a Penelope le conclusioni. Tuttavia, il lieto fine non è contemplato nella ricostruzione della Ciani, che si ispira alla testimonianza dello storico Apollodoro. Penelope si invaghisce di Antinoo, il più esuberante e forte dei Proci, attratto dal regno di Itaca ma anche dalla regina schiva e insolente, che giudica gli uomini che sperano nella morte di Odisseo e per distrazione e noia si interessa ad uno di loro.

Il finale dei viaggi di Odisseo è prismatico e variegato. Nel testo della Ciani Odisseo, tornato ad Itaca, si accorge dell’elettricità che corre tra Penelope ed Antinoo e uccide entrambi, riservando alla moglie l’ultima freccia del suo arco. In pratica uno scenario opposto a quello prospettato da Omero. C’è anche una versione di mezzo: secondo alcuni Odisseo, resosi conto che sua moglie si è invaghita di un altro, la rispedisce da suo padre. A qualunque finale dell’Odissea crediamo, il mito di Penelope germoglia su ciò che di lei affermano Circe, Calipso, Nausicaa: nessuna di loro la conosce ma ognuna la invidia, perché è da lei che Odisseo vuol tornare. Ma Penelope, fatta di carne e di ossa, vacilla dinanzi alla landa desolata dei venti anni di attesa. La sua è una messa in scena e la Atwood e la Ciani giocano con questo aspetto: l’imperturbabilità della regina di Itaca è una farsa, un esperimento inconsapevole di preservazione, un fatto di testa più che di cuore. La testa è la licenza pubblica di Penelope per essere la moglie del grande Odisseo e la cugina non diva di Elena, ma altrettanto meritevole di lode. Finché Penelope si stanca, si innamora di un altro e viene punita. Le autrici, italiane e non, che hanno dato voce a Penelope ne ascoltano il lamento, la sofferenza, gli ossimori. Rileggere di lei, percorrere la visione che altre donne ne hanno ricavato è un tragitto di invenzione e di identificazione: Penelope è indimenticabile perché contraddittoria, capace di solitudine ma innamorata dell’amore, ferma e corruttibile, apparentemente immobile e pur sempre in movimento.

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