Quando nel 1987 Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders vinse al Festival di Cannes, il suo trionfo scatenò una vivace polemica all’interno del mondo cinefilo, tra il plauso di chi ne esaltò la commovente visionarietà e i detrattori più conservatori legati a un’ottica di cinema che deve veicolare i suoi potenti messaggi facendo leva su una struttura narrativa coerente e leggibile. Il cielo sopra Berlino è un film incredibilmente poco convenzionale, un’espressione delicata e commossa, dai toni autobiografici, che riflette l’ossessione inconscia per la Storia attraverso le meccaniche del fantastico e dell’astrazione dalla realtà. Scritto da Wenders assieme allo scrittore Peter Handke, il film è avvolgente per le sue mille intuizioni liriche e si approccia al pubblico con un’atmosfera evocativa e leggiadra, malinconica, collocando le relazioni personali dei personaggi su un piano onirico vicino ai dettami del surrealismo.
Bruno Ganz e Otto Sander interpretano i due angeli Damien e Cassiel, intenti a librarsi nel cielo sopra Berlino per assistere ai tormenti della capitale tedesca. Tramite la loro esperienza, lo spettatore viene reso fruitore passivo delle elucubrazioni contrastate e introspettive dei comuni cittadini, le cui illusioni sono inevitabilmente distrutte nel contatto con la crudezza della realtà. La fatiscente Berlino di Wenders si autoflagella per i sensi di colpa, si strugge nel ricordo dell’oscurità del passato, si lecca le ferite inferte dalla Seconda Guerra Mondiale e non riesce a liberarsi dello spettro del nazismo, mentre Damien e Cassiel si aggirano tra i simulacri distrutti della città, invisibili a tutti tranne che allo sguardo puro dei bambini.
Il potere della visione infantile (pura quanto quella dei due angeli) è il vero cuore di Il cielo sopra Berlino, coglie le basilari emozioni di stupore, affronta con sguardo innocente la crisi d’identità di un popolo per far sì di tornare a un equilibrio iniziale, incontaminato dagli orrori della guerra, e illumina un sentiero che conduce alla riscoperta di sé e a una sorta di riconciliazione spirituale. Genialmente Wenders si sofferma sul quotidiano, sui gesti apparentemente privi di significato, e il risultato è quello di riuscire a dar peso allo straordinario dell’ordinario e al suo valore taumaturgico per l’anima. La dimensione storica del film abbraccia passato (che ritrova solo lo squallore della rovina nei luoghi della giovinezza), presente (concretizzato dal muro) e futuro (la band Nick Cave and the Bad Seeds) lasciando che la recitazione sentita e la perfetta fotografia la valorizzino in tutta la sua universalità; le inquadrature si tingono di bianco e nero o di colore a seconda del punto di vista dei protagonisti per lasciar trasparire il bellissimo messaggio secondo cui rimediare a ciò che si è rotto, tutto sommato, è sempre possibile.
In Il cielo sopra Berlino il Cinema e le sue mille componenti si incarnano in un racconto che ammalia e pone mille dilemmi esistenziali sulla natura umana e le sue incoerenze, appagando gli appetiti poetici di chi cerca nella meraviglia dell’immagine cinematografica una fonte di sostentamento, e stupendo sguardo e mente con un finale inaspettato ma bellissimo che impone la supremazia della poesia e della bellezza sui turbamenti di una contemporaneità che fa ogni giorno i conti con sé stessa e i suoi retaggi.
“Le venature dei fogli di carta…”