Eilish Stack è una microbiologa, vive a Dublino e ha quattro figli con suo marito Larry, insegnante e sindacalista: Mark quasi maggiorenne, Molly appena adolescente, Bailey e il piccolo Ben. In una notte piovosa bussano alla porta della sua casa: sono due membri dell’Ufficio Servizi Nazionali della Garda (USNG), la polizia governativa irlandese, che le chiedono di Larry. Vorrebbero solo parlargli, non c’è niente di cui preoccuparsi, la rassicurano, ma la loro è una visita inquietante. Il dettaglio importante da tenere a mente per capire la reazione preoccupata di Eilish è che questo è l’incipit de “Il canto del profeta” di Paul Lynch, vincitore del Booker Prize 2023 – in Italia edito da 66thand2nd nella traduzione di Riccardo Duranti -, e l’Irlanda contemporanea in cui è ambientato è governata, con leggi draconiane, da un partito di estrema destra. Lo scenario che Lynch costruisce per il suo quinto romanzo è un quotidiano claustrofobico in cui la protagonista, Eilish per l’appunto, si ritrova sola a occuparsi della salvezza della sua famiglia.
La tentazione di paragonarlo ai due romanzi cardine della distopia novecentesca, “1984” di George Orwell e “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood, è tangibile e anche giustificabile, ma la verità è che “Il canto del profeta” non è una prospettiva distopica della contemporaneità, piuttosto la cronaca di un disastro sociale e politico replicatosi con abbondanza già in molti stati. Paradossalmente quello di Lynch è puro realismo, nonché un avvertimento politico. Come ha raccontato lo scrittore nel lungo approfondimento dedicatogli dal Booker Prize, l’ispirazione arriva a seguito degli avvenimenti della moderna Siria e al conseguente esodo di massa della popolazione, una crisi umanitaria senza fine che si sviluppa nell’indifferenza totale dell’Occidente. È il 2018 quando vengono scritte le prime pagine de “Il canto del profeta”, paragrafi che sono stati conservati praticamente intatti anche dopo il processo di editing e che sono diventati, infine, l’incipit del romanzo. L’idea di Lynch è, allora, quella di esplorare il divenire di un momento storico già presente, e quindi possibile dovunque, in cui le libertà sono limitate, tra coprifuoco, controlli dell’USNG, sequestri di stato e scontri con i ribelli politici.
Dalla finestra, dietro le tende, osserva la strada e pensa agli agenti che attraversavano la folla riprendendone i volti. In città e cittadine di tutto il paese l’USNG bussa alle porte e raduna i sovversivi che hanno occupato le strade, i terroristi nascosti tra la popolazione civile. Osserva le macchine che rallentano nella strada o parcheggiano nei paraggi, cerca di capire chi sono gli occupanti, questa sensazione come se un grande sonno sia stato interrotto, di essere i sognatori destati all’inizio della notte. Nei sogni sente il rumore del pugno che bussa alla porta come se fosse vero. I manifestanti hanno bloccato le strade e acceso falò, nelle piazze delle città sono state bruciate effigi, le vetrine dei negozi sono state infrante oppure coperte di slogan con le bombolette spray. Ci sono donne vestire da sposa che distribuiscono foto dei mariti scomparsi. […]
L’unicità del racconto, però, risiede nel punto di vista più concentrato rispetto a un comune romanzo politico, perché Lynch abbandona presto l’idea di un romanzo corale e si dedica esclusivamente a Eilish, donna impegnata a difendere con ogni mezzo il suo nucleo familiare.
L’angoscia di Eilish e la sua lotta per la sopravvivenza costituiscono la struttura portante di un romanzo che risulta compatto sin dall’aspetto con capitoli lunghi, paragrafi densi e così urgenti da non avere nemmeno il tempo e lo spazio per confinare il dialogo e distinguerlo dalla narrazione. Le conversazioni, quindi, si fondono con azioni, ambienti e descrizioni. Di conseguenza per chi legge non c’è tempo per orientarsi, piuttosto bisogna farsi portare dalle frasi lunghe ed elaborate seguendo pedissequamente paure, pensieri e azioni di Eilish, concitate in alcuni frangenti, ripetitive in altri. Persino il sogno e la realtà perdono i confini nel testo di Lynch e spesso la protagonista emerge dagli incubi in un dormiveglia tanto spaventoso quanto quello della realtà in cui abita.
Quando Larry scompare, Eilish ha sulle spalle la responsabilità dell’intera famiglia: i quattro figli minorenni e l’anziano padre con i primi segni di cedimento della memoria che poco può contribuire alla sua salvezza. A enorme distanza l’unica speranza possibile, la sorella Áine rifugiatasi anni prima a Toronto, in Canada. Eilish attraversa lo smarrimento iniziale negando la realtà delle cose, poi arrivano a cascata la paura, il panico e infine la determinazione in un unico fluire di dialoghi, sogni e azioni. E quando si pensa di aver fatto l’abitudine al senso di impotenza che permea la prima metà del romanzo, in cui Eilish è resa bidimensionale dal trauma reiterato delle assenze a cui viene sottoposta, l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento e la lotta che ne consegue è straziante.
Paul Lynch fa una scelta narrativa interessante proprio per privilegiare il percorso emotivo del singolo: non ci sono premesse politiche all’evento traumatico scatenante e quindi non si sa perché l’Irlanda sia governata da un regime fascista. La critica si è divisa su questo dettaglio, qualcuno per questo ha definito il romanzo incompleto e depotenziato, ma “Il canto del profeta” ha una sua identità ben precisa che non può prescindere da Eilish, dal suo percorso e dalla conseguente fusione totale fra protagonista e lettrice/lettore. L’angoscia del personaggio e la sua frustrazione si diffondono come un veleno che intossica le pagine. In questo senso “Il canto del profeta” risulta essere un romanzo emotivamente faticoso perché è faticoso questo momento storico in cui si rispecchia, così come è faticoso affrontare una storia con un finale in crescendo. Si dibatterà a lungo sulla effettiva presenza di speranza nelle ultime pagine, ma fa parte del disegno di Lynch lasciare che siano lettrici e lettori ad assumersi la responsabilità del futuro che incombe. Spetta a noi decidere il corso della storia, in buona sostanza, nonché, come è stato scritto in una recensione del romanzo, è nostro compito comprendere che l’estremismo non è un’anomalia sporadica né un evento casuale, e l’idea di riconquistare la normalità con poche azioni a effetto dopo una disgrazia politica di tale portata, come quella dell’Irlanda fittizia di Lynch, non trova spazio nemmeno nella fiction. Piuttosto il pungolo dell’autore è puramente emotivo: il suo è un tentativo di «radical empathy», una chiamata a raccolta delle coscienze dei singoli.
Nella motivazione ufficiale per la vittoria finale, il comitato del Booker Prize ha scritto che “Il canto del profeta” è un libro cruciale per i tempi che corrono perché al suo interno ci sono la crisi dei migranti, gli orrori della guerra, gli estremismi e la progressiva perdita della libertà individuale. In questo tsunami di catastrofi, la dignità dei popoli si sbriciola sotto i colpi dell’indifferenza, in una società al contrario che non protegge i rifugiati e in cui chiedere asilo diventa un’odissea.
Eilish ne diventa simbolo suo malgrado, vivendo la sua vita come pedina qualsiasi del gioco della storia, ma la sua disperazione e la lotta che ne consegue sono così assolute che accecano. Su di lei ricadono le responsabilità genitoriali durante la crisi di una nazione intera, in più frangenti «desidera addormentarsi e magari svegliarsi in un mondo diverso» con una paura bambina, primordiale, incurabile. Di contro osserva, inerte, la reazione delle giovani generazioni, soprattutto quando suo figlio più grande prende coraggio.
Mamma, il mondo ci sta guardando, dice, il mondo ha visto quello che è successo, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco su una manifestazione pacifica e poi ci hanno dato la caccia, ora è tutto cambiato, capisci?, non si torna più indietro.
Una presa di posizione, quella di Mark, estremamente contemporanea. Può, però, questa immersione nella paura esorcizzare un futuro plausibile a cui ci si dovrebbe opporre con forza? A questo Lynch risponde con il suo “cosmic realism”. In un’intervista al Guardian con Lisa Allardice poco dopo la vittoria al Booker Prize, Lynch afferma che l’idea della fine del mondo ritorna nella storia come nella narrativa, ovvero la fantasia catastrofica che il mondo finirà con qualche evento improvviso durante la propria vita. Ma il mondo, aggiunge, finisce in continuazione, «over and over», senza mai interrompere il suo corso. L’antidoto al pensiero pessimista sul futuro è proprio il «cosmic realism» della sua fiction, ovvero la capacità di guardare l’universo e i percorsi storici, persino precorrere i tempi, ma al tempo stesso occuparsi della vita delle singole persone, soprattutto quando la storia prende il sopravvento. In questo senso si può dire, allora, che il profeta citato nel titolo del romanzo diventa Lynch stesso, ovvero un narratore esterno della vita di Eilish nel pieno del declino di un’Irlanda spaventosa e possibile.
La scrittura di Lynch
La vittoria al Booker Prize ha aperto una lunga serie di approfondimenti su “Il canto del profeta”, merito delle lunghe interviste e degli interventi dello scrittore, molti focalizzati anche sul suo metodo di scrittura. È interessante, allora, scoprire che Lynch scrive metodicamente per cinque giorni a settimana, ma il numero delle battute giornaliere è molto contenuto, questo perché Lynch si auto edita così tanto che la prima stesura quasi coincide con la forma definitiva del romanzo. Le influenze letterarie sono chiare: c’è tanto Faulkner, c’è Forster, un tocco di Flannery O’Connor e l’eterna ispirazione di questa generazione di scrittori anglosassoni, Cormac McCarthy. Ma Paul Lynch riesce a ritagliarsi uno spazio tutto suo e per le ragioni già espresse, ovvero i periodi insolitamente lunghi, i dialoghi senza segni di interpunzione, l’abolizione degli a capo, nonché l’uso del tempo presente che accentua il senso di urgenza della storia. È facile, allora, intuire che quella di Lynch è una prosa inedita, avventurosa, complessa e poetica dalla quale, però, c’è bisogno di emergere ogni tanto per rifiatare e dirsi che non è ancora tutto perduto.