Ieri | Il Surrealismo cileno di Juan Emar

Vedrai. Restiamo per un bel po’ in silenzio. Tu planerai dove ne hai voglia, con il pensiero, s’intende. Io, nel frattempo, mi dedicherò a fare osservazioni su ciò che ci circonda. E vedrai quante cose ne ricaverò.

Certo che ce ne vuole di fantasia per scegliersi come nome d’arte Juan Emar, mutuandolo dall’espressione francese J’en ai marresono stufo. Ma del resto già nell’attribuzione di uno pseudonimo apparentemente semplice ma in grado di celare già la complessità del suo universo artistico, è racchiuso il senso di un’esperienza letteraria innovativa che ha principio nel Sudamerica di inizio Novecento. Parliamo del percorso artistico di Álvaro Yáñez Bianchi (Santiago del Cile, 13 novembre 1893 – 8 aprile 1964), costruito su un ponte tra due continenti, in grado di unire Santiago e Parigi, le origini altoborghesi – suo padre era un influente politico e diplomatico del Cile dei tempi – e la frizzante ubriacatura del Surrealismo francese.

La casa editrice Safarà ha portato finalmente in Italia una sua opera, il romanzo Ieri, pubblicato nella traduzione di Bruno Arpaia. Finalmente, perché dopo aver letto il libro appare chiaro come Emar rappresenti – non solo in Italia – una sorta di grande sommerso della letteratura cilena e sudamericana in generale, nonostante da più parti si parli di nobili discendenze, annoverando tra gli autori influenzati dalla sua scrittura pesi massimi come Julio Cortázar e Juan Rulfo.

Va detto che Álvaro Yáñez Bianchi era arrivato tardi al suo status di scrittore – per riconoscerlo innanzitutto a sé stesso – intorno ai quarant’anni, avendo preferito considerarsi per molto tempo più affine alla pittura. Un percorso di avvicinamento iniziato dapprima come critico d’arte per il periodico La Nación – fondato da suo padre – dove auspicava un superamento degli stili più in voga all’epoca, il criollismo e quello sterilmente accademico – quindi, utilizzando il proprio spazio come culla di certa avanguardia attraverso le collaborazioni con Vicente Huidobro e Julio Ortiz de Zárate e ospitando le illustrazioni di autori che si rifacevano alle correnti europee quali il fauvismo e il cubismo.

Poi Pilo, come veniva chiamato dagli amici, nel 1935 pubblica, così, di colpo tre romanzi: Un año, Miltín 1934 e Ayer, appunto; due anni più tardi, è il turno della raccolta di racconti Diez. Le prime opere di Emar trovarono appena qualche lettore ma ebbero – per converso – la forza di suscitare scandalo nei più influenti circoli letterari del tempo che ne decreteranno, da subito, la condanna all’esilio culturale in patria.

Dio creò prima di tutto i caffè, i negozi e i cinema. Poi caffè, negozi e cinema crearono gli uomini. Li crearono quando ormai l’impulso iniziale di Dio aveva iniziato a smorzarsi e dovettero cercare sostentamento con i propri mezzi.

Sembra quasi che Emar non aspettasse altro, come a volersi muovere in virtù di una libertà assoluta: un’idea di scrittura come atto intimo e solitario da sottrarre volontariamente a qualsivoglia logica di potere politico: da quello rappresentato delle case editrici a quello – molto influente – della critica. Non a caso Emar nel romanzo Miltín 1934 inserisce un’invettiva contro Alone, lo pseudonimo dietro cui si celava Hernán Díaz Arrieta, arbitro dei costumi della letteratura cilena che Roberto Bolaño avrebbe poi eternato nelle pagine bellissime di Notturno Cileno col nome di Farewell (come ci ricorda Alejandro Zambra in una prefazione utilissima per inquadrare l’autore e la sua produzione).

Dallo scontro – suicidario – con Arrieta, Emar si dedicherà alla scrittura di un’opera monumentale che, da acerrimo avanguardista qual era, non aveva alcuna intenzione di pubblicare in vita. Per usare le sue stesse parole, la stesura di Umbral rappresentò «il mio rifugio [che] consisteva nel non pubblicare mai finché altri, che io non avessi conosciuto, mi avrebbero pubblicato seduti sui gradini della mia tomba».

Il primo tomo di Umbral uscirà soltanto nel 1971, sette anni dopo la morte dell’autore ma si dovrà aspettare il 1996 perché avvenga la pubblicazione dei cinque tomi per complessive 4135 pagine fitte. Così Emar trasforma la sua stessa opera in un messaggio vagante per la posterità, quasi suo malgrado, stante la sua sfiducia o la sua ironica diffidenza sulle generazioni del futuro – «Perché dare tanta importanza agli uomini degli anni 2000 e successivi? E se si rivelano un branco di cretini?» (ancora da Miltín 1934).

Il movimento laterale dello struzzo mi ha ricordato con grande precisione il movimento che ho visto eseguire a Belmonte di fronte a un toro di Veragua, l’8 maggio 1920, nell’arena di Saragozza.

Ieri è la storia del racconto, meglio ancora della rievocazione di una sola giornata nella vita del protagonista e voce narrante. Davanti al ricordo scritto, Emar trasforma il lettore nello spettatore di una serie di scenette tanto affascinanti quanto esilaranti: dall’esecuzione pubblica con ghigliottina di Rudecindo Malleco – colpevole soltanto di pensieri lubrichi – a una passeggiata allo zoo che culmina nello scontro leggendario tra una leonessa e uno struzzo (che compare sulla copertina dell’edizione italiana curata graficamente da Giuseppe D’Orsi); ancora, dalle ore passate nello studio dell’amico pittore Rubén de Loa a discutere dei verdi e dei rossi in un crescendo parossistico, all’osservazione di una pancia di uno sconosciuto in una sala d’attesa che pare trasformarsi in un corto di Buñuel.

…conosco due modi di osservare, di conoscere un altro essere. […] Mettiamo, un libro; mi è più facile. Primo modo: lo apro alla prima pagina, lo leggo per intero e nel suo ordine, e non mi fermo finché non leggo la parola Fine. Secondo modo: lo compro, lo porto a casa, lo guardo da sopra, da sotto, da davanti, da dietro. Lo metto nella libreria. Lo tiro fuori la sera e lo sfoglio. Lo lascio sul tavolo. Racconto a un amico l’esistenza del libro a casa mia. La racconto a due, a tre. Leggiamo in una pagina qualunque una frase qualunque […] Nessuno lo legge, però si vive nella sua atmosfera.

Juan Emar fa proprie le esperienze del Surrealismo costruendo un romanzo per “quadri” che spiccano per intelligenza, umorismo, inventiva. Ieri ci conduce pagina dopo pagina nel viaggio sempre più allucinato di un uomo travolto dalla sua stessa capacità di osservazione, fino a distorcere – attraverso la propria lente deformante – la realtà intorno a sé. Le passeggiate con la moglie, l’intercalare dei pranzi sono semplici cuciture tra gli episodi che conducono al finale dominato da una sorta di presa di autocoscienza lisergica in cui si fa sempre più evidente il distacco che l’inconscio del protagonista getta sui margini ormai strappati dell’esistenza fattuale.

Allora, con quei rossi, fabbricherò tutti quelli che mancano ancora alla creazione, tutti quelli che Dio abbia in progetto di fabbricare durante i giorni ancora da venire, rossi di fuoco, di rubino, di fiori e di carni, di mestruazioni e di ferite, di canicola e di gloria.

Il tempo si dilata, si riconnette attraverso momenti diversi, ed è lo stesso autore a lasciare a più riprese tracce del suo stesso approccio al mondo che lo circonda: «Nella realtà le cose accadono in una maniera molto diversa da quella che generalmente si racconta» – fa dire al suo protagonista.

[Le nuvole] ora si erano nuovamente appesantite e oscurate e stillavano una nebbia confusa che faceva di San Agustín de Tango una città inospitale, appiccicosa e azzurrina.

Le avventure di questo Dedalus surrealista si svolgono per le strade di San Augustín de Tango, centrale nell’opera di Emar, città inventata, immaginata dall’autore eppure oggetto di vere mappe, piantine, orientamenti possibili (in calce a questa edizione troviamo una pianta disegnata da Gabriela Emar, nata Gabriela Rivadeneira Rodríguez e sposata da Bianchi in seconde nozze nel 1930).

Se Bolaño dirà di lui, con immensa poesia ed ironia, «è lo scrittore cileno che più di tutti assomiglia al monumento del Milite Ignoto» e Pablo Neruda ne ebbe a dire come del «precursore di noi tutti» che «nella sua serena follia ci ha lasciato come testamento un mondo vivo, popolato da quell’irrealtà che è sempre inseparabile dalla più solida realtà» le pagine di Ieri ci restituiscono intatte, come in una macchina del tempo, l’intelligenza, l’acutezza di Emar ma tutte nascoste, occultate o quasi disinnescate da un senso dell’umorismo tagliente e deflagrante come in un gioco, prima ancora che con il lettore, con sé stesso.

Ieri è l’opera di uno scrittore che sembra il risultato di un cortocircuito temporale: dagli inizi del Novecento ha lanciato una capsula con le sue opere per dei posteri che sembrano non essere ancora nati.

In copertina: Juan Emar, Maternidad, 1953

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