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Memare con gli Idles | Ultra Mono

In una delle tante peregrinazioni random sul web mi sono imbattuto in un articolo di 3 anni fa in cui si discuteva come il meme “How do you do, fellow kids” fosse diventato l’“How do you do, fellow kids” dei meme. Cioè, il suo grande successo e il suo largo utilizzo hanno fatto sì che si aggiungesse un ulteriore layer, ovvero quello del suo uso autoironico-consapevole. Cioè, ancora: secondo l’autrice, se il meme agli inizi (2012 o 2013, non si ha una genealogia certa) veniva usato come reaction “a persone che fanno finta di essere parte di una comunità con cui non hanno chiaramente nulla a che fare”, negli anni (intorno al 2016, pare) si è aggiunto un livello meta per cui ora usarlo significherebbe “vero che non faccio parte di questa comunità ma sono abbastanza scafato per arrivarci da solo e memarci comunque sopra”.

 

If the Kids are United è il titolo di una famosa canzone degli Sham 69, gruppo punk inglese degli anni ’70 che ricorre spesso come paragone negli articoli sugli Idles. E sì che la canzone, con la voce urlata, il ritornello che sembra una marcia militare, la ripetizione di slogan, potrebbe assomigliare a un loro pezzo qualunque, anche da un punto di vista testuale: un verso come “Just take a look around you, what do you see? / Kids with feelings like you and me / Understand him and he’ll understand you / For you are him and he is you” non è poi così lontano da “There’s a feeling washing over me / It was built by you and me / Our unity makes me feel so free to say / ‘Fuck you I’m a lover‘” (da The Lover). Empatia, senso di unione, fraternità, sono alcuni dei sentimenti che pervadono un certo modo di fare rock che si potrebbe chiamare populista, un atteggiamento che va da Springsteen, passa attraverso i Clash per arrivare fino al quintetto di Bristol in uscita in questi giorni col loro terzo album, Ultra Mono. La musica rock usata come grido di battaglia, come antidoto a una vita difficile, come dispositivo per emozionarsi, abbracciarsi e cantare tutti insieme, magari in quel rituale catartico che è il live. Un modalità viscerale di considerare la musica, tutta emotività e solennità, le canzoni come inni per gli ultimi, gli sfruttati, gli outsider (A Hymn è il titolo di una canzone dell’album), i miti dell’autenticità, della sincerità, del candore.

Molte delle critiche che sono state fatte agli Idles negli anni partono proprio da questi concetti. Gli è stato rimproverato a più riprese di non essere sinceri, di adottare pose working class che non gli competono, di essere in sostanza dei furboni che fanno del populismo a buon mercato, addirittura di rappresentare tutto il male che c’è nella politica culturale contemporanea. Di base non ci si concentra sulla musica ma sui testi – che vengono tacciati di essere degli slogan troppo semplici – e sulle buone intenzioni del gruppo, riprendendo la tensione, che ormai è un topos nella percezione di una certa musica rock, tra autenticità e falsità. In sostanza, tutta questa buona fede degli Idles altro non sarebbe che buonismo (ecco, l’ho detto), viste le origini agiate dei componenti del gruppo, il loro successo e il modo semplicistico e paternalistico in cui trattano le questioni cruciali dell’attualità. Le critiche più violente poi sono arrivate da musicisti a loro sempre considerati vicini, quantomeno in un’ipotetica “scena” britannica che farebbe da ponte tra il punk (monumento nazionale) e sonorità più contemporanee: su tutti Jason Williamson degli Sleaford Mods e Lias Saoudi dei Fat White Family. La domanda che sorge spontanea è: come può una band che fa della vulnerabilità un’arma e che si batte contro il razzismo, la mascolinità tossica, le destre identitarie, attirare così tante critiche? In un periodo storico così violento, segnato da gravi tensioni sociali, da un ripensamento totale della propria storia e identità culturale, cercare di veicolare un messaggio progressista attraverso la musica non dovrebbe essere una volontà condivisibile?

Da un punto di vista strettamente musicale, Ultra Mono non aggiunge molto alla discografia del gruppo, né al post punk. Gli elementi distintivi ci sono tutti, i riffoni, la voce urlata, i ritornelli da mandare a memoria, alcune parti spoken word. Tutto in regola insomma, basso pulsante e compagnia cantante. I testi riprendono il discorso dei lavori precedenti, aggiornandolo ai tempi maggiormente cupi e violenti di oggi, e si dirigono direttamente a specifiche categorie di persone. Ad esempio, in Model Village troviamo una descrizione del tipico inglese che vive in piccoli centri, ha probabilmente votato a favore della Brexit ed è pieno di tratti negativi, ruba (“nine-fingered”), è un razzista (“not a rascist but”), beve (“pink skin”), è un machista (“hardest man in the world”), omofobo (“homophobes by the tonne”), nazionalista (“just salutin’ flags ‘cause it’s British”), spesso tutto insieme (“half-pint thugs”), fino ad assomigliare a un porco (“gammon”, insulto rivolto tipicamente ai sostenitori della Brexit in virtù dell’analogia tra il colore della loro pelle quando si infervorano, magari dopo qualche birra, e quello del prosciutto cotto). Come si dice, combattiamoli sul loro stesso terreno. Altri nemici sono coloro che fanno cat-calling (su Ne touche pas moi, la strofa è “This is a sawn-off for the cat-callers / This is a pistol for the wolf whistle / ‘cause your body is your body / And it belongs to nobody but you / But you”) e il culto della mascolinità aggressiva e prevaricatrice in generale (in Grounds: “There’s nothing brave and nothing useful / You scrawling your aggro shit on the walls of the cubicle”). E ancora, i padroni (in Carcinogenic: “Getting minimum wage while your boss takes a raise / As he lies through his brand new teeth, he is / Carcinogenic”) e gli stupidi che non si sono accorti che il governo gli stava rubando il futuro (“Where were you while the ship sank? / Probably not queuing for food banks / Probably waving your Union Jack”), i quali vengono chiamati lunatics. Ancora, altro problema sono le spese militari a discapito della working class (“How does it fell to have shanked the working classes into dust? / How does it feel to have won the war nobody wants?” in Reigns). A questa negatività, a tutti questi avversari, viene contrapposto quello che gli Idles chiamano un cambio di narrativa, un messaggio di empatia, un richiamo all’amor proprio, una chiamata alle armi, come in Grounds (“So I raise my pink fist and say black is beautiful”, e ancora “I am I / unify”. Ricorda qualcosa?). Cambio di narrativa significa anche rovesciare stereotipi, come in Mr. Motivator, dove si elencano situazioni paradossali rispetto ai modelli culturali che ci sono stati imposti, ad esempio un Conor McGregor con una spada samurai sui pattini (sic), prima di un altro inno alla fratellanza nel ritornello (“Let’s seize the day / All hold hands, chase the pricks away”. Ricorda qualcosa?/2).

Ora, chi sono questi pricks da cacciare? E chi è che dovrebbe prendersi per mano e farlo? Tralasciando la questione dell’autenticità, se i membri degli Idles abbiano un passato working class o meno (non è questo il punto della questione), la cosa che fa riflettere è questo continuo senso di contrapposizione tra chi ha solo bisogno di qualcuno che gli dica di prendersi per mano (perché il resto lo sa già) e chi invece deve essere cacciato. Senza entrare nella moralità della questione (discorso scivoloso di per sé e sempre dietro l’angolo quando si parla di rock populista), la domanda che ci si pone è se con questo disco gli Idles vogliano rivolgersi a chi è vittima delle politiche del governo britannico o a chi invece da una posizione privilegiata può permettersi di criticarle senza eserne particolarmente affetto. La tradizione dell’inno di chiamata alle armi è particolarmente radicata nel Regno Unito (da When the Kids are United a London Calling), ma queste armi stavolta sembra che vadano rivolte contro quella fetta di popolazione a cui il populismo -di destra come di sinistra, così come quello rock- ha fatto sempre riferimento, ovvero gli outsider, le fasce con meno reddito e meno scolarizzazione, insomma i più deboli. Che il maschilismo più bieco, il nazionalismo, il razzismo, il fasciscmo siano annidati in quelle realtà lo si sa tutti, ma è come se gli Idles in questo disco attacchino sia chi non si è curato dei loro interessi, sia loro stessi poiché non se ne sono accorti e lo hanno permesso, giocando su una retorica della colpa che sembra francamente anacronistica. Senza entrare nel merito dell’utilità sociale dell’arte, questo tipo di comunicazione è deleteria perché non attrae nessuno che non sia già da quella parte (considerata giusta). Chi sente di vivere nel giusto troverà un interlocutore, chi invece vive nel model village continuerà a comportarsi secondo modelli culturali inaccettabili. Questo, ci pare di capire, potrebbe essere un problema nel messaggio altrimenti positivo che gli Idles cercano di veicolare. Allo stesso modo, una delle parole che che ricorre spesso nelle critiche al gruppo è patronizing, ovvero paternalista, condiscendente. In effetti l’estrema semplicità dei testi potrebbe essere interpretata come un tentativo di evangelizzazione, il problema è che la gente a cui si dovrebbe rivolgere è quella che più spesso viene attaccata nei loro testi. È vero che i social in particolare hanno estremizzato il linguaggio, specie quello politico, portando alla formazione di polarità di significato spesso inconciliabili, e forse è vero che il gruppo ha provato a calarsi in questa realtà linguistica per usare le stesse armi dei, mettiamo, sostenitori dell’alt-right, o comunque sia degli haters che magari hanno quattro figli ma su Facebook augurano la morte a migranti di 3 anni. Il fatto è che questa aggressività non combacia né con i richiami continui all’amor proprio, né con il loro appello alla fraternizzazione e coesione (“That’s the sound of strength in numbers” sempre da Grounds. I Golden State Warriors?). Comunque sia, il rivolgersi a chiunque con una complessità testuale davvero nulla, affidandosi a clichés e alla forza bruta del ritratto degradante e dell’insulto potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, in quanto l’ascoltatore potrebbe pensare di essere trattato da stupido. Essere empatici (I’m a Lover) è si un cambio di paradigma in una situazione in cui i toni sono esacerbati, in cui il conflitto è tra aree urbane e aree rurali e tra fasce di reddito. Si rischia però di essere elitisti, cosa che gli Idles cercano di evitare (non è un processo alle intenzioni, ma si cerca di capire i vari risvolti della loro proposta) usando un linguaggio semplice all’estremo quando non ingenuo, e barrando tutte le caselle della mitologia del pub rock populista e, per usare le loro stesse parole, half-pint.

Sì perché un’altra contraddizione è quella tra il loro messaggio e la loro iconografia. Se il loro obiettivo dichiarato è quello di cambiare la narrativa, perché “essere sovversivi come rock band significa essere affettuosi, mostrare compassione ed empatia”, l’atteggiamento che rivolgono ai loro avversari burini è tutt’altro che empatico (Kill Them With Kindness poi li sfotti). Ma, attenzione, altro layer, il linguaggio e la simbologia a cui fanno riferimento è quanto di più vicino alla mitologia working class di un rock populista che si suona nei pub, si canta a squarciagola ubriachi e poi s’abbracciamo. Una mitologia per cui ogni frase è estremamente relatable, per cui si suda si canta e si poga finché non siamo tutti uniti e contenti. Sensazione ulteriormente confermata dal loro ripetere continuamente che il live è la loro vera dimensione (come per Springsteen, ad esempio). La musica degli Idles non ha nessuna sovrastruttura, è quanto di più diretto e sincero si possa chiedere (a parte qualche non rintracciato effetto hip hop frutto della tanto sbandierata collaborazione con Kenny Beats, già con Vince Staples, Freddie Gibbs e altri). E’ post punk veloce e cantabile fatto apposta per suscitare il casino ai live. E fin qui ci siamo. Ma allora perché il gruppo rifiuta ogni volta che ne ha l’occasione di venire etichettato come punk? Perché negli shooting si vestono come un collettivo vaporwave con i baffi, le camicette a fiori e tutto il resto? C’è un’evidente contraddizione tra immagine e musica, ma anche tra il messaggio della musica e il lato performativo della band. Se l’intento è cambiare narrativa, mostrare che il rock non è machismo e violenza, perché sfiorare il growl ma allo stesso tempo suonare in mutande e baciarsi sul palco? Non si tratta di opposti inconciliabili, assolutamente, ma la sensazione è quella di voler pescare da una parte e dall’altra senza risultare credibili. Per quanto riguarda le sonorità, il cantato, il pogo, tutta quella mistica da pub, si può pensare che sia un modo per essere ricondotti a una cultura storicamente maschilista e omofoba come quella del punk, che da monumento nazionale ormai mercificato e reso innocuo è ormai digerita anche dai lunatics che vivono nei model villages. Una paraculata insomma, servirsi di una ritualità anche diversa dalle proprie convinzioni pur di essere estremamente relatable e farsi ascoltare da tutti. Ma a ben vedere, trattandosi appunto di una sottocultura ormai entrata a far parte del circuito della retromania, il punk (o post punk) ha perso ogni interesse, ogni carica empatica, ogni velleità di indentificazione che non sia un vago appiglio al vestiario o, appunto, al mito dell’autenticità. D’altro canto, rifiutare di essere considerati punk e vestirsi come Tame Impala, o suonare in boxer per esporre la propria fragilità, sembra un tentativo ingenuo di veicolare un messaggio con mezzi ormai vecchi di anni. Soprattutto, l’immagine cozza con la musica in un modo così strano da creare un cortocircuito che ha come effetto, per chi scrive, un certo imbarazzo.

Uno dei temi più ricorrenti all’interno del discorso sui meme è che la sinistra non sappia memare. Che la cultura dei meme sia appannaggio della destra è risaputo, e non serve leggere Angela Nagle per capire che l’epistemologia della destra, un certo cinismo, un certo disprezzo siano il propellente ideale per la creazione e la scrittura di questi oggetti linguistici. Cercare di fare una rivoluzione culturale nel rock usando materiale (musicale, performativo e testuale) ormai desueto; proporsi di cambiare un paradigma usando in sostanza le varianti più becere dello stesso paradigma, ma rifiutandosi di adottarlo nelle dichiarazioni alla stampa; usare slogan di movimenti civili anche lontanissimi geograficamente e ideologicamente per avere impact; utilizzare un dispositivo nostalgico per cui una canzone di tre minuti è un inno alle masse, per poi criticare le stesse masse nella stessa canzone; presentarsi con tutto il carico ideologico di disuguaglianze da combattere, comportamenti da correggere, persone da educare; consegnare un’immagine di sé stessi quanto più vicina all’idea di “scena fresca underground” dopo 11 anni di attività e una musica che va palesemente nella direzione contraria. Questo è quanto di più lontano ci sia rispetto al meme, all’immediatezza della sua comprensione, alla sua efficacia comunicativa. Immagino gli Idles memare su loro stessi, e mi viene subito in mente chi usa il meme “How do you do, fellow kids” per non prendersi troppo sul serio (volendo prendersi sul serio). E non rido.