La gioia è resistenza. La musica è gioia. La musica è resistenza. Questo è il sillogismo che hanno interiorizzato questi cinque folli provenienti da Bristol, UK per esprimere il pensiero di cui è imbevuto Joy As An Act Of Resistance. Dopo il felicissimo debutto con Brutalism (2017), meno di un anno fa, gli Idles escono con quello che è il proseguimento di ciò che avevano iniziato ad urlare disperatamente nell’ultimo lavoro. Si tratta del loro secondo album in studio, pubblicato dall’etichetta londinese Partisan, con cui dimostrano ancora una volta quanto hanno da dire e quanto siano compatti nel farlo. Ritroviamo una delle band più critiche nei confronti della società e allo stesso tempo più interessanti, specialmente per i contenuti che offrono, veicolati da quello che è il mezzo perfetto, come può essere il punk hardcore a cui hanno esplicitamente tolto il prefisso di post.
La chiave di comprensione è il significato che viene attribuito al divertimento, quel divertimento sfrenato che funge da anestetico quando tutto è perduto. Nessuno può toglierci la gioia che scaturisce dalle cose semplici che in un mondo sempre più incerto e oscuro diviene un atto di resistenza. Il non prendersi sul serio è l’arma migliore in una società che ti vuole performante, professionale e allineato. “Sarcasmo Appassionato”, lo definiva Gramsci, per manifestare il distacco derivante dalla comprensione di un determinato momento storico – un sarcasmo che non è mero dileggio ma è qualcosa di costruttivo e alternativo. Ecco, definirei questo album come “materialista”. Partendo dalla struttura e dalle situazioni più concrete arriva alla critica di tutto quello che è il sistema imperante di discriminazioni, di indigenza dovuta a salari sempre più bassi e di violenza a cui siamo sempre più avvezzi e insensibili.
Si apre con Colossus, brano sostanzioso come suggerisce il titolo, nel senso che è imponente e cambia sound in continuazione. Inizia con un racconto del rapporto difficile che Talbot aveva con il padre per giungere in continuo crescendo e dopo una serie di cori alla seconda strofa più scanzonata con urla e batteria a mille. Perfetto per aprire un live facendo impazzire il pubblico. Seguono Never Fight a Man with a Perm e I’m Scum, frutto di una particolare e perversa esaltazione della rabbia e della vergogna. La prima è più introspettiva e si pone come un’esplorazione degli angoli più oscuri del passato di Talbot; la seconda è invece una sorta di marcia in cui il ritmo dell’album rallenta, e qui si scherza sulle etichette che nel corso della vita ti affibbi o ti vengono a affibbiate (come Scum “feccia”), arrivando a parlare di chi o cosa si è realmente per sé stessi e per gli altri. Credo sia la mia preferita.
Oltra a ciò in questo disco si parla di un tema percepito anche da noi italiani come caldo: l’immigrazione, servendosi di Danny Nedelko, traccia omonima e dedicata a Danny un amico immigrato ucraino di Joe. Egli stesso ha detto che vuole essere, prima che una canzone apertamente politica, un ritratto per raccontare l’importanza di persone come lui. Si tratta di un vero e proprio inno all’unità fra popoli, unico valore che permette di conoscersi e influenzarsi positivamente, visto che tutto sommato siamo fatti di carne, sangue e ossa – e l’odio è solo frutto della paura del diverso. Un evento strettamente correlata a quest’ultima tematica è Brexit, che ancora una volta gli IDLES decidono di raccontarci attraverso Great. Un brano spaventato e confuso, dove si scagliano contro la paura e la credenza specialmente dei più anziani (che hanno in massa votato per il Leave) che la crisi economica sia dovuta alla presenza degli immigrati. Si chiude con “You can have it all, I don’t mind Just get ready to work overtime”. Versi, direi, che si commentano da soli. L’altra grande macro-tematica di cui si parla è l’idea di mascolinità legata ad un machismo che ormai non ci appartiene più ma di cui ancora si percepiscono i lasciti. Ne trattano Samaritans e Cry to Me, due pezzi che ci ricordano quanto faccia bene piangere in primis e quanto ciò influisca sull’essere maschio, cioè nulla.
Si tratta di un ottimo disco anche per quanto riguarda l’aspetto musicale, dove la band ha deciso di non mutare e sperimentare troppo rispetto alle sonorità del primo album. Restano i classici riff di basso e la batteria quasi spesso martellante. Si sono ammorbiditi leggermente, ma credo sia proprio questo il punto forte, l’ostentazione paradossale che sia divertente e simpatico nonostante la densità e la serietà dei temi trattati. Uno dei dischi più politici di questo 2018, certamente un anno dove la politica è entrata a gamba tesa nella musica mondiale. La situazione non è rosea, ma tutto sommato il fatto che si possa ancora comunicare attraverso la musica dà un po’ di speranza.