La nuova letteratura intersezionale: “I viaggiatori” di Regina Porter

Nel 1978 in risposta a “Gyn/Ecology: The Metaethics of Radical Feminism”, saggio della filosofa statunitense Mary Daly, la poetessa femminista Audre Lorde scriveva una lettera accorata in cui diceva:

Mary, leggi mai davvero il lavoro delle donne Nere? Hai mai letto le mie parole, o le hai semplicemente sfogliate a caccia di citazioni che secondo te avrebbero potuto supportare una tua idea già pronta che riguardasse qualche vecchia e distorta connessione fra noi due?

La lettera è il suo modo per denunciare quello che nelle nuove teorie femministe, nella letteratura e nella quotidianità culturale era colpevolmente lasciato da parte: la produzione e il pensiero delle autrici e femministe nere. Quarant’anni dopo, la richiesta di Lorde acquista ancora più vigore e il concetto di inclusività, nel femminismo e nella letteratura, si fa ogni giorno più urgente. È questo bisogno di inclusività e pluralità che soddisfano le nuove voci della letteratura statunitense contemporanea, quella che racconta le storie della diversità in termini di appartenenza etnica, classe sociale, genere e orientamento sessuale. C’è tutta una nuova generazione di autrici Latinx, asioamericane, afroamericane e indigene, che concorrono per una letteratura americana più inclusiva. La pubblicazione de “I viaggiatori” di Regina Porter per Einaudi, tradotto da Norman Gobetti, si inserisce perfettamente in questa nuova consapevolezza per il riconoscimento del valore letterario delle autrici nere, in questo caso, e delle storie che scelgono di raccontare.

“I viaggiatori” è un romanzo d’esordio fuori dai canoni. Porter, drammaturga, laureata all’Iowa Writers’ Workshop, scrive scegliendo accuratamente le sue regole: due pagine di elenco dei personaggi per orientarsi quando si perde la bussola nelle ramificazioni della storia (ogni tanto accadrà), foto per aiutare a contestualizzare nel tempo e nello spazio e, per ogni capitolo, son diligentemente segnati gli anni in cui si svolge la narrazione. Con la sua aria mite e la voglia di raccontare una bella storia, come dichiara nelle interviste, Regina Porter ignora le regole precostituite e racconta storie alle sue condizioni: anche questa libertà è sinonimo di legittimazione della nuova letteratura statunitense. I suoi viaggiatori attraversano 50 anni della storia navigando a vista tra l’uccisione di Martin Luther King, il Vietnam fino ad arrivare all’elezione di Barack Obama, e ciascuno di essi scende a patti con le proprie scelte e i traumi. La bellezza letteraria, questa volta, non è solo nell’imprevedibilità delle vite di ognuno, ma piuttosto nella pluralità delle voci. Due i personaggi centrali della narrazione, a raggiera poi tutti gli altri. James Samuel Vincent, detto il James, di origine irlandese, avvocato bianco di Manhattan, e Agnes Christie, donna nera originaria del profondo Sud, Georgia, e matriarca dell’altra famiglia che si legherà per sempre a quella del James. Sono le loro decisioni a dettare i tempi di quelle di tutti gli altri in un romanzo che si sviluppa tra la Georgia e New York. Il legame fra i due sarà il matrimonio tra il figlio di James, Rufus, e la figlia di Agnes, Claudia, ma seguiranno poi una serie di intrecci mirabolanti che si svilupperanno in un romanzo che è una successione di storie interconnesse da più fili.

Uno dei nodi centrali è la questione razziale negli Stati Uniti, quella serie complessa di retaggi storici e comportamenti criminali che il privilegio bianco ha solo fatto finta di non vedere.

Puoi parlare di privilegio fino alla nausea, ma non lo capirai mai fino in fondo se non hai vissuto con qualcuno che ha dovuto fare di più avendo di meno. (pag. 203)

dice Rufus alludendo alla moglie, alla sua famiglia e alla superficialità che tenta di sanare nel suo stesso padre:

Rufus aveva sposato una donna nera di nome Claudia Christie, il che significava che i nipotini di James, Elijah e Winona, erano multirazziali, birazziali, in parte neri. A Manhattan, ovunque guardavi era pieno di mezzi-e-mezzi. Una volta James aveva fatto l’errore di usare il termine mulatto. Rufus l’aveva preso da parte e gli aveva spiegato che quella parola era tabù. (pag. 8)

La lotta che Rufus e Claudia portano avanti si combatte anche sul terreno del linguaggio. Il privilegio ottuso dei bianchi fa capolino in molte delle storie di Regina Porter; c’è sempre quella velata convinzione che siano anche i bianchi a poter decidere cosa è importante nella questione razziale e li si vede placidi mentre si cullano nella loro ignoranza. Porter, allora, sempre col sereno incedere dei suoi racconti, ci informa che gli abusi della polizia c’erano anche negli anni ’60 del novecento e non sono una recente rivoluzione della dolorosa era Trump. Allo stesso modo racconta i traumi di una comunità, da quello ancestrale della schiavitù a quelli più recenti che riguardano l’assassinio di Martin Luther King, le leggi Jim Crow, la segregazione razziale, il ruolo dei soldati e soldatesse nere in Vietnam e quel sollievo generale e fugace dell’era Obama. Agnes, le sue figlie Beverly e Claudia, l’amica di lei Eloise e tutta la sua famiglia portano sulle loro spalle tutti questi traumi che sconvolgono puntualmente le vite di ciascuno di loro perché la loro priorità è adattarsi alla violenza, all’indifferenza e alle ingiustizie. È questo ciò che la comunità afroamericana negli Stati Uniti ha continuato a fare costantemente da secoli, è questo il peso che porta sulle proprie spalle nel silenzio dei bianchi. E mentre il James, Rufus ragionano sulle loro origini irlandesi, Claudia dice:

Io non so neanche da dove viene, la mia gente. So solo che viene dall’Africa, e che potrebbe essere di quasi ovunque su quel continente. […] In me nulla dell’Africa si è ancora solidificato. (pag. 54)

La nuova letteratura americana si prende la responsabilità, finalmente, di raccontare i traumi di intere generazioni e svilupparne i risvolti storici; è questa la grande occasione dell’inclusività: scrittrici nere, come nel caso di Regina Porter, e la loro eredità. È per questo che spesso Porter descrive con molta precisione il colore della pelle dei suoi personaggi, perché è un dettaglio che importa e dà forme precise alla storia. Porter scrive di razzismo, ma anche di colorismo e di come la società statunitense privilegi i bianchi e, in generale, in una scala di valori spaventosa, tutti le sfumature più chiare del nero. Negli Stati Uniti raccontati bisogna essere meno neri possibili per non disturbare una società plasmata sui bianchi ed essere, così, accettati almeno formalmente. Ma poi tutto viene riportato sul piano del razzismo, e Porter ci ricorda dell’esistenza dei nuovi immigrati, quei messicani a cui Trump ha dichiarato guerra e che imparano l’inglese mentre lavorano clandestinamente nelle fabbriche statunitensi (pag. 288) La bellezza de “I viaggiatori”, però, sta tutta in una caratteristica fondamentale: non siamo di fronte ad un romanzo rancoroso, anzi, è evidente che l’urgenza è quella di raccontare le storie di chi raramente diventa un caso editoriale. Porter attinge, evidentemente, alla produzione di James Baldwin, così come in lui, Toni Morrison e Audre Lorde trovano una guida le altri autrici nere del panorama attuale: Jesmyn Ward, Tayari Jones e Roxane Gay, solo per citarne qualcuna.

Le donne de “I viaggiatori” sono la parte più bella dell’intero romanzo. Non solo Porter racconta con grazia e crudezza il trauma di Agnes e l’accettazione del suo destino complicato di donna nera, ma a questo contrappone il riscatto della figlia Claudia, accademica a suo agio nel mondo presente, e la rabbia di Beverly, l’unica assieme a Rufus a parlare in prima persona, che passa la sua vita a lottare per il suo posto nella società, senza scuse e senza particolari rimpianti. Ma la personalità più riuscita è quella di Eloise, amica d’infanzia di Agnes, lesbica, militare, pilota e donna dall’estremo talento, a cui Porter dedica due capitoli centrali. È attraverso di lei che si conosce la presenza delle donne e dei soldati neri in Vietnam, dettaglio che non emerge nei manuali di storia.

[…] durante la guerra del Vietnam alle donne non era concesso combattere, e nemmeno usare le armi. Le infermiere della Waf erano state le prime a venire schierate nel Sudest asiatico, a causa della carenza di infermieri maschi. Le loro abilità nel salvare le vite e nel lenire le ferite emotive e psichiche […] aveva aperto la strada all’idea che anche le donne soldato come Eloise potessero andare in Vietnam. (pag. 177)

Agnes, Claudia, Bev e Eloise sono donne che affrontano l’esistenza a testa alta, sono decise, si guadagnano il quotidiano e sono instancabili. Lo si vede nei piccoli dettagli, ma anche nel quadro generale a fine romanzo. Tutte le donne de “I viaggiatori” scelgono il loro futuro ignorando le pressioni esterne: lasciano i mariti, privilegiano la carriera o si dedicano ai figli con naturalezza e piglio deciso. Sono donne a cui puntualmente rinfacciano la solitudine, la carriera dopo la maternità, l’assenza di figli oppure come li allevano quando ci sono. All’inizio del romanzo Nancy, madre del James, lascia il marito e quando ristabilisce i contatti dice al telefono: «Tuo figlio? Le smagliature sulla pancia ce le ho io» (pag. 44). Lo dice ridendo, è una battuta, agli uomini darà particolarmente fastidio, ma le donne sanno che è una riappropriazione legittima. Nancy lascia il tetto coniugale perché il marito è un inetto violento e la libertà di scegliere cosa è meglio per suo figlio è quello che le spetta. La testardaggine di queste donne nel conquistarsi la vita che si aspettano è assoluta.

“I viaggiatori” è un libro estremamente moderno nello stile e nella scrittura, un romanzo intersezionale con una attenzione particolare alla diversità delle storie, alla molteplicità della rappresentazione, strumenti imprescindibili per capire l’America di oggi, come giustamente recita la fascetta di presentazione. E dopo averlo letto c’è una sola conclusione possibile: la letteratura americana contemporanea, ma in generale tutta la letteratura, non può più prescindere dall’inclusività perché chi legge, ma anche chi scrive, deve abituarsi a storie diverse, plurali e smettere di ignorare le minoranze e la loro parte nella storia.

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