Ancora una volta i media americani – sedicenti fautori del giornalismo libero, imparziale, fattuale (e.g. il film Tutti gli uomini del Presidente ha fatto scuola in questo senso) – si sono scatenati sull’ennesimo atto del Teatro dell’Assurdo iniziato l’8 novembre 2016, ovvero quando Donald Trump è stato eletto Presidente degli Stati Uniti.
Il caso in questione ruota attorno alla giacca di Zara da 39 dollari che la First Lady di origini slovene ha indossato mentre si recava al centro di accoglienza per bambini migranti di McAllen, Texas, giovedì scorso.
La scritta “I REALLY DON’T CARE. DO YOU?” certamente non è passata inosservata, se di mezzo c’era una visita ai bambini separati dalle loro famiglie, a seguito di una politica di immigrazione a tolleranza zero applicata dall’amministrazione del marito.
Il “giacca-gate” ha causato l’ira del New Yorker, che ha parlato di “Fascismo da moda veloce”, o del Dazed, che ha titolato “Fuck Melania Trump, and her I REALLY DON’T CARE jacket” (non c’è bisogno di traduzione) mentre gli analisti politici su BBC e NBCSN hanno gridato in coro: inappropriato. Contemporaneamente una valanga di tweet hanno condannato la scelta di stile della ex modella mentre centinaia di foto su Instagram mostrano persone che sulle loro giacche ora rispondono “YES I CARE” (tra cui anche la moglie di Eddie Vedder durante la tappa italiana dei Pearl Jam) e nel mezzo si insinua l’ipotesi di un mega troll da parte di Melania nei confronti del Presidente degli Stati Uniti. Insomma, è partito il solito (corto-)circuito mediatico – molto diffuso anche dalle nostre parti – per cui segue un atto controverso di un personaggio pubblico→indignazione sui social→indignazione dei giornalisti→teorie cospirazioniste→caos→TROLL.
Lungi da me difendere l’azione politica di un imprenditore-psicolabile-con scandali sessuali alle spalle-e un patrimonio di dubbia provenienza, ma nella trincea di chi pensa che il mondo sia fatto solo di buoni o cattivi, bianco o nero, con noi o contro di noi, io non ci sto.
L’atto politico di Melania Trump – sì, è un atto politico perché è un messaggio “comunicato” durante l’esercizio del suo ruolo politico di First Lady di uno dei Paesi più potenti al mondo – non solo ha attirato l’attenzione internazionale sulla questione dei bambini separati dalle famiglie di migranti, ma ha anche dato l’ennesimo esempio di come funziona il potere mediatico negli Stati Uniti (e dunque, nel mondo). Il 7 maggio scorso, l’amministrazione Trump ha annunciato che avrebbe perseguito secondo la giustizia federale tutti coloro arrestati al confine, anche quelli con figli a carico – invece che assegnarli ai tribunali specifici in materia di immigrazione, come era successo in passato. Tra il 19 aprile e il 31 maggio, quasi 2,000 bambini sono stati separati dalle loro famiglie e portati in centri di accoglienza, ma la lapidazione mediatica, a suon di hashtag, non parte ancora. Il 17 giugno, 4 giorni prima del giacca-gate, Melania Trump ha fatto sapere, tramite la sua portavoce Stephanie Grisham, che “odia vedere i bambini separati dalle proprie famiglie e che spera che entrambi gli schieramenti – Democratici e Repubblicani – possano trovare un accordo per una buona riforma dell’immigrazione”; è la prima volta in cui la First Lady entra nel dibattito politico e lo fa con una sorta di critica-ammonimento all’amministrazione del suo stesso marito e, ovviamente, all’opposizione.
È la prima volta, nella storia americana, in cui la moglie del Presidente esprime sentimenti ostili – il verbo “odiare” non lascia spazio ad interpretazioni – per un provvedimento adottato dallo stesso Presidente. È un momento inedito, che merita un minimo di riconoscimento – quando le donne partecipano alla vita politica di un Paese, invece di fare solo le mogli e le madri, va sempre riconosciuto a mio parere – ma ancora non basta a scatenare la mobilitazione di massa (virtuale o meno) degli Americani, quella stessa per cui tutti gli uomini sono uguali e godono dei diritti alla Vita, alla Libertà e al perseguimento della Felicità, come da Costituzione.
E quindi Melania, per farsi sentire – dal marito? Dai media? Dal popolo Americano? Cosa importa? L’obbiettivo è farsi sentire – sceglie il linguaggio che lei conosce meglio, che è forse anche quello più efficace in politica, quello della moda. Che una giacca da 39 dollari abbia funzionato mediaticamente più delle decine e decine di foto di bambini strappati alle loro madri è un dato che la dice lunga sul livello stesso di empatia delle persone: quanto è più facile attaccare la moglie del cattivo di turno, invece che difendere le vittime dello stesso.
Da quando il nuovo Presidente si è insediato nella Casa Bianca, il trattamento che i giornalisti hanno riservato a sua moglie è stato da Tribunale dell’Inquisizione con la lente del pregiudizio: l’immagine più stereotipata e abusata dai media è quella di una bellissima donna dall’accento marcato, ostaggio di un matrimonio basato sull’interesse economico di lei e i bisogni sessuali di lui. Lo racconta bene la mia amica e collega Špela Krajnc, che proviene dallo stesso paesino di 5000 anime di Melania Trump, e sa quanto la percezione del personaggio pubblico sia stata distorta sulla rappresentazione di lei, non più come essere umano, donna, persona, dotata di un proprio pensiero, ma come “la moglie di”.
Prima di chiudere, c’è un altro sloveno che voglio citare perché uno di quelli a cui non piace la dicotomia buono-cattivo: all’alba delle elezioni in USA, il filosofo marxista Slavoj Žižek accese la polemica perché dichiarò che se fosse stato Americano avrebbe votato proprio Donald Trump, nella speranza di ottenere una rottura col sistema precedente – “se Trump vince, ci sarà una sorta di grande risveglio e nuovi processi politici verranno messi in atto”.
Ecco, un processo politico su cui vorrei ci fosse un risveglio collettivo è quello per cui, sullo sfondo di una grave crisi migratoria (a livello globale), l’unica cosa a cui riusciamo a pensare è cosa c’è scritto sulla giacca di Melania Trump.