Un elettro-punk-pop, quello del duo milanese, che strega e ci rende già nostalgici per quel dolce retrogusto anni ’80; ci fa ballare e al contempo riflettere – così descrivevo le I’m Not A Blonde di ritorno da una magica edizione di Ypsigrock Festival e una sorprendente loro esibizione, in grado di aprire le danze e scaldare il clima di un campeggio da poco inaugurato. A distanza di giusto un paio di mesi Camilla Matley e Chiara Castello tornano con Under the Rug – ennesima prova della maturità artistica delle due, in grado di coniugare ancora una volta le sonorità che le caratterizzano a testi fortemente legati alla contemporaneità. Le ho intervistate per porre loro qualche domanda sul loro percorso artistico, alcuni pezzi dell’album e il loro rapporto con i live e il pubblico. Buona lettura, e buon ascolto.
Come nasce l’incontro tra Camilla Matley e Chiara Castello che le ha portate a creare I’m Not A Blonde?
Nasce 5 anni fa quando Camilla mi ha chiamata perché cercava una cantante per mettere su una band per suonare brani electro wave degli anni 80 rivisitati in versione punk con un power quartet di donne: basso batteria, chitarra e voce. La band è durata molto poco in verità ma in quell’occasione abbiamo capito che ci piaceva suonare insieme e abbiamo subito sentito il desiderio di scrivere qualcosa insieme. Così abbiamo cominciato subito la lavorazione dei primi pezzi che poi sono usciti in 3 EP, ogni 3 mesi con tre pezzi ciascuno, man mano che li pubblicavamo capivamo meglio chi eravamo e cosa volevamo fare insieme.
Com’è stato lavorare a “Under The Rug” – vostro secondo album? Siete riuscite a fare vostra la dimensione dell’album? In che modo vi sentite maturate dai vostri primi ep?
Come dicevo i primi EP ci sono serviti per conoscerci e sperimentare quello che ci piaceva, sono nati di getto senza aspettative e senza molti ragionamenti. Poi abbiamo scritto The Blonde Album, prima vera esperienza di LP che invece è stato più complesso, più ragionato e meno istintivo. Under The Rug è forse il punto d’incontro tra quelle due fasi, sicuramente siamo cresciute e cambiate musicalmente, i ragionamenti li abbiamo fatti ma abbiamo cercato di recuperare quell’atteggiamento più libero e diretto che avevamo nei primi pezzi. Credo che in questo stia la maturità, se cosi possiamo definirla, di quest’album.
Anche in questo caso il richiamo al mondo degli ’80-’90 è spiccato ed è una delle peculiarità della vostra musica. Quali sono gli ascolti che vi hanno influenzate di più?
Detto sinceramente non abbiamo artisti di riferimento per quello che facciamo come I’m Not A Blonde. Camilla ha ascoltato tanto gli anni 80, io gli anni 90 ma spesso i nostri ascolti personali sono molto diversi tra loro. Credo che la nostra musica sia proprio il risultato dell’incontro dei nostri mondi.
Nei vostri pezzi – penso anche a “Latin Boys” dove viene detta la frase “Latin boys just want to have fun / I think it’s part of the culture” – si nota una particolare attenzione alle relazioni e alle dinamiche di genere: sbaglio?
Non sbagli. L’attenzione a queste tematiche, in particolare quella sociale legata alle dinamiche e discriminazioni di genere è diventata sempre più importante per noi. I testi delle nostre canzoni partono sempre da qualcosa, un’emozione o una situazione che abbiamo vissuto in prima persona, e non ci sentiamo “bandiere” o portavoci di qualche movimento, ma credo che siamo in un momento cruciale di cambiamento, lo percepiamo intorno a noi e sentiamo sempre più il bisogno di dichiararlo e condividerlo.
“Happy face”, invece, lo percepisco come una naturale prosecuzione di quello che è stato Daughter: un io costretto a confrontarsi con le aspettative esterne e a mantenere un’attitudine di facciata. Anche il tono della canzone sembra gridare a una necessità di esporre queste tematiche: quanto sono importanti per voi?
Non avevo fatto quest’associazione ma ti ringrazio perché mi sembra molto azzeccata. Si come in Daughter questa canzone esprime il disagio nel sentire che la società e cultura di massa cerca di costringerti in ruoli definiti e controllati. Così finiamo per nasconderci e spesso mentirci. La canzone è un crescendo emotivo che esplode nel finale come a volersi liberare da queste strutture mentali che sono delle vere e proprio gabbie. Questo disagio l’ho provato spesso nella mia vita e forse per questo è cosi importante e ritorna spesso nelle nostre canzoni.
C’è una canzone di quest’album a cui siete particolarmente legate e di cui volete raccontarci la genesi?
Siamo molto legate a Too Old. Sarà per il tema che tocca ma anche per la sua semplicità di arrangiamento. Quando entra quel bassone e inizia il riff di chitarra ci emozioniamo ancora . L’abbiamo scritta due estati fa in montagna dove ci eravamo ritirate per comporre. È nata di getto, scritta tutta in un giorno per quel che riguarda l’arrangiamento e la melodia. L’abbiamo poi fatta sentire a Leziero Rescigno, nostro batterista e co-produttore assieme a noi di “Under The Rug”, che ci ha proposto di fare un esperimento: provare a dimezzare il tempo del beat. All’idea eravamo un pò spiazzate ma quando l’abbiamo riascoltata abbiamo subito capito che quello era “l’abito” perfetto.
Siete spesso in tour all’estero, soprattutto in Germania. Avete notato differenze tra la comunicazione della vostra musica a un pubblico estero?
La prima cosa che si nota è che il fatto di cantare in inglese non è più un problema, e questo per noi è molto importante perché il contenuto dei nostri testi è una parte fondamentale della nostra musica. In Italia da questo punto di vista facciamo fatica, non solo perché se canti in inglese è difficile che ti passino in radio o che ti mettano nelle playlist ma anche dal vivo percepiamo un pò di filtro nella comunicazione dovuto alla lingua, questo non succedere quando suoniamo all’estero. Un’altra cosa che abbiamo notato è che in Germania c’ è molta curiosità da parte del pubblico nell’andare a sentire anche band che non si conoscono o che fanno una musica diversa da quella preferita, c’è più apertura e di conseguenza varietà nella proposta musicale.
E in generale una differenza di approccio alla musica tra il panorama italiano e quello estero?
Forse proprio quello che ho detto prima, la sensazione che esistano più “binari”, più micro-scene musicali di genere molto diverso tra loro. In Italia, almeno in questo momento funziona un genere solo, questo dal nostro punto di vista sta creando un pò un appiattimento nella proposta musicale.
Io ho avuto la fortuna di vedervi dal vivo durante la prima serata a Ypsigrock Festival. Che esperienza è stata per voi? Come vi relazionate ai live in realtà di questo tipo?
Per noi un’esperienza bellissima, forse uno dei pochi festival dove ci sentivamo assolutamente in linea con il resto della programmazione che era molto variegata e quasi tutta internazionale. Anche il pubblico lo era, c’erano anche molti stranieri, ci piacerebbe che ce ne fossero di più in Italia di festival così.
Prima di suonare una delle vostre canzoni, proprio durante quel live a Castelbuono, avete fatto un bellissimo discorso sull’andare oltre le categorie che la società ci impone: uomo, donna; bello, brutto; ecc. Avete paura di ricadere anche voi in questi incasellamenti, come duo “al femminile”, per esempio?
Questa definizione del duo al femminile ci fa sempre sorridere. Hai mai letto il corrispettivo duo al maschile? O il duo in “azzurro”? suonerebbe ridicolo.
Diventa un incasellamento per certi versi necessario quando non c’è uguaglianza. Quando nelle playlist non ci sarà più solamente un’artista donna rispetto a 49 uomini, ma sarà un rapporto più paritetico, quando sarà normale vedere tecnici del suono e luci donne, quando alcuni ruoli saranno “privi di genere” allora gli incasellamenti non esisteranno più.
Come continuerà la promozione di quest’album? Sarà possibile vedervi presto live?
Si a breve comunicheremo le date che ci porteranno in giro per l’Italia durante l’autunno e l’inverno. A fine gennaio 2020 invece partiremo per un tour in Germania e Austria. Abbiamo molta voglia.