Tutte le foto sono di Alise Blandini
Quando arriviamo al Fabrique di Milano, dopo la tappa obbligata al Burger King in autostrada e il parcheggio trovato al primo colpo pochi minuti prima dell’inizio del concerto, il locale è così gremito da far alzare la temperatura corporea a ciascuno dei presenti. Fuori un clima incerto che non ricorda maggio, ma quasi un ottobre anticipato, dentro, invece, i tropici. Dopo l’esibizione degli YAK, On the Luna interrompe all’improvviso il brusio in sala che si trasforma in una detonazione violenta scandita dai primi accordi di uno dei brani di Everything Not Saved Will Be Lost Part. 1, il quinto album della band inglese pubblicato lo scorso 8 marzo, a cui seguirà una seconda parte in uscita il prossimo autunno.
Alle spalle dei Foals una scenografia abbellita da così tante piante che sembra quasi di essere in Amazzonia, in un punto imprecisato verso l’equatore all’interno di una foresta pluviale del Sudamerica. Luci fucsia e incandescenti brillano su di noi e su Yannis Philippakis, Jimmy Smith, Edwin Congreave e Jack Bevan che salgono sul palco alle 21.30 spaccate e, senza tergiversare, iniziano a suonare, accontentando così chi è arrivato al Fabrique affamato più che mai di musica e adrenalina.
Ritmi incalzanti e vibrazioni che attraversano anche i muri determinano il successo dello show della band di Oxford, che non si limita a presentare le canzoni della nuova raccolta, ma che inserisce a più riprese in scaletta anche i vecchi brani di What Went Down, Holy Fire e Antidotes come Mountain at My Gates, Snake Oil, Olympic Airwaves e My Number, che il pubblico riconosce alla prima nota, esplodendo in uno tsunami di movimenti ondulatori dal fondo del locale fino al palco, una riva verso cui tendere.
L’alchimia che si crea tra i Foals e gli spettatori è fortissima: un legame che nasce dall’ascolto ripetuto dei dischi, ma che trova il suo apice nella dimensione live. Tra le prime fila sotto il palco spunta anche un cartellone. L’immagine innesca un déjà-vu che riporta a un’edizione del Festivalbar degli anni 2000 o a più recenti flashback provenienti dallo Sziget, dove per ingannare le attese in campeggio pure chi non è dotato di vena artistica decide di mostrare i propri attacchi d’arte senza vergogna.
C’è anche qualche ragazza che, dopo essersi issata in spalla a un prode fidanzato, tende le braccia al cielo sopra Milano fino ad allungarsi in direzione del ciuffo ancora perfetto di Yannis Philippakis, il vero protagonista di questa serata. Camicia scura, barba folta e carisma da vendere, il frontman dei Foals non può fare a meno del contatto con il pubblico, parla poco e se lo fa è per dire “Grazie” o “Vaffanculo” come farebbe uno studente Erasmus che ha appena imparato le parolacce in italiano. Dopodiché si tuffa tra di noi, correndo da una parte all’altra del locale imbracciando la sua chitarra, prima ci accarezza e poi ci schiaffeggia con note che non ci fanno solo sussultare, ma soprattutto ballare.
Mentre saltiamo e sudiamo, lo spettacolo non si ferma. Due ore non-stop di concerto, in cui ogni canzone è un inedito grazie alla capacità della band di arrangiare i pezzi, ampliandone la durata e creando mash-up e remix come nel caso delle recenti Exits, In Degrees e White Onions che diventano un’unica lunga traccia. Ci ritagliamo un momento per respirare soltanto sulla spirale infinita di Spanish Sahara. Sentiamo il ritmo del nostro cuore spaccarci le orecchie, chiudiamo gli occhi e quando li riapriamo veniamo trascinati da Inhaler, What Went Down e Two Steps, Twice, la degna conclusione di un concerto che senza dubbio si candida tra i migliori del 2019. I ragazzi di Oxford trasmettono un’energia che raramente si trova a un livello quantitativo e qualitativo di questo tipo. Che dire ancora? Cari Foals, quando tornate in Italia e ci regalate un’altra serata da ricordare?